Gadda, Carlo Emilio
Carlo Emilio Gadda, primogenito di tre fratelli, nacque a Milano nel 1893 da famiglia borghese (padre imprenditore tessile, madre docente nelle scuole magistrali). Certe ristrettezze economiche, denunciate soprattutto nell’opera maggiore La cognizione del dolore (1963 e 1971), furono in parte dovute alla costruzione ambiziosa di una villa di campagna in Brianza.
Con la morte del padre (1909), l’educazione dei figli fu affidata ai sacrifici di Adele Lehr, la madre. Dopo avere interrotto gli studi di ingegneria al Politecnico di Milano per la guerra (nella quale il fratello Enrico morì) e la successiva prigionia in Germania, Gadda si laurea e lavora come ingegnere in Sardegna, in Argentina, a Roma. Per seguire la vocazione letteraria si iscrive a Filosofia a Milano e scrive la Meditazione milanese, trattato incompiuto del 1928, pubblicato solo nel 1972.
Agli anni della prima guerra mondiale, vissuti tra gli alpini, risalgono i diari, usciti molti decenni dopo (si veda il Giornale di guerra e di prigionia nell’edizione del 1965), e molti pezzi del Castello di Udine (1934), secondo libro di racconti pubblicato dopo La Madonna dei filosofi (1931). Dal 1940 Gadda si trasferisce prima per un decennio a Firenze, poi a Roma, dove lavora per la Rai; scrive le opere maggiori, dai racconti milanesi de L’Adalgisa (1944) al romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), da Novelle dal Ducato in fiamme (1953) alla nuova sistemazione ampliata dei racconti Accoppiamenti giudiziosi (1963), mentre si dedica anche alla saggistica, con considerazioni sulla lingua molto significative (I viaggi la morte, 1958).
Schivo e a suo modo timido, lo scrittore fa vita ritirata negli ultimi decenni, nonostante la notorietà derivatagli dal Pasticciaccio. Muore a Roma nel 1973. Dato il successo anche postumo dell’opera di Gadda, dopo la sua morte si sono moltiplicate le edizioni di inediti e rari.
L’importanza dell’opera e delle riflessioni teoriche di Gadda nella lingua letteraria del Novecento è indiscutibile: il concetto stesso di espressionismo linguistico, che Gianfranco Contini ha proposto come filo rosso entro la storia della nostra letteratura, fa capo a Gadda e da lui insegue a ritroso le origini e i vari percorsi, dalla Canzone di Auliver a Teofilo Folengo agli Scapigliati (Contini 1989).
L’interferenza tra codici e registri di varia cronologia e di diverso uso sociale e geografico è un aspetto fondamentale dello stile gaddiano e una eredità che verrà raccolta da scrittori più giovani, come Alberto Arbasino, Luciano Bianciardi e alcuni rappresentanti della Neoavanguardia. È Gadda stesso a teorizzarne la necessità in alcuni saggi, come Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche del 1929, Lingua letteraria e lingua dell’uso del 1942 e Come lavoro del 1949 (Gadda 1958), radicando nella complessità del reale la complessità stilistica contro ogni forma di idealismo estetico e di purismo grammaticale. Registro aulico, arcaismi, termini tecnici e neoformazioni d’autore non escludono il ricorso contestuale all’uso popolare o addirittura dialettale, nella polifonia di uno stile che rifletta la densa pluralità della vita e l’interazione delle voci che la abitano, senza mai cedere alle attese populistiche di chi vorrebbe ridurre la lingua della letteratura alla medietà dell’uso quotidiano.
Sinonimi, varianti fonetiche e morfologiche sono una ricchezza per lo scrittore, non un limite, come invece sostenevano altri, tra cui ➔ Italo Calvino. La categoria di deformazione è per lui connessa all’atto del conoscere, che è sempre inserire qualcosa nel reale e perciò è deformare, con un impiego spastico della lingua che Gadda deduce da un passo dell’Ars poetica di Orazio (Come lavoro; cfr. Roscioni 19953: cap. 1°; Matt 2006: 29 segg.; Flores 1973). La ricchezza dello stile è l’equivalente della non-linearità del mondo e degli individui: «Ognuno di noi mi appare come un groppo, o nodo, o groviglio, di rapporti fisici e metafisici (la distinzione ha valore d’espediente). Ogni rapporto è sospeso, è tenuto in equilibrio nel ‘campo’ che gli è proprio: da una tensione polare». Accusato di baroccaggine risponde che barocco è il mondo e l’individuo ‘normale’ è un groviglio di «indecifrate (da lui medesimo) nevrosi, talmente incavestrate (enchevêtrées), talmente inscatolate (embôitées) le une dentro l’altre, da dar coagulo finalmente d’un ciottolo, d’un cervello infrangibile: sasso-cervello o sasso-idolo». Perciò, sostiene: «I doppioni li voglio tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze e voglio anche i triploni, e i quadruploni […] e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d’uso corrente, o d’uso raro rarissimo» (Lingua letteraria e lingua dell’uso).
Di qui il disprezzo per la lingua piccolo-borghese, «puntuale, miseramente apodittica, stenta, scolorata, tetra, eguale, come piccoletto grembiule casalingo da rigovernare le stoviglie» (ivi), e, per contro, l’amore per gli scrittori ‘maccheronici’, Rabelais e Folengo, l’ammirazione per i satirici come Cervantes e altri autori, da lui tradotti sempre con accentuazione espressionistica.
Nella narrativa, nelle lettere, da quelle giovanili ai famigliari o agli amici ai carteggi maturi con letterati (Contini & Gadda 2009), e perfino nella saggistica Gadda asseconda l’impulso a intarsiare registri e idiomi diversi, in questo caso magari appaiando la traduzione di un termine straniero; a impiegare elisioni o apocopi ormai estranee all’uso moderno (l’altre, d’un ciottolo, tener, han, vengon, de’). Come nella narrativa, nei saggi si trovano molti toscanismi (mencio «debole», ciuco «asino», doventare, codesto, mancanza del dittongo in movono gli omini), arcaismi come fusse per «fosse», latinismi come descensus «discesa»; termini colti come giure, vincastro «bacchetta», opinare, astringere «costringere» e originali interventi sulla lingua, mediante coniazione di parole: filologicale, il già citato quadruploni, metastatare «mutare di posizione», aborigenato «reso aborigeno», naso peperonato «naso rosso come peperone», pitta-unghie.
Gadda ricorre a significati e forme etimologici, usufruisce della terminologia delle scienze e delle tecniche, ingloba citazioni letterarie più o meno dissimulate, raffigura o satireggia specifici ambienti e persone mediante parole dialettali, sia a scopo conoscitivo, sia, quando è il caso, per «rifare il verso», ossia per una finalità parodica o almeno ironica.
Ovviamente nelle prose sull’esperienza di guerra del Castello di Udine non si trovano di continuo lombardismi e milanesismi, che invece abbondano in molti racconti e nei ‘disegni milanesi’ dell’Adalgisa, come anche in certe pagine della Cognizione del dolore, ambientata in un fittizio Sudamerica, che in realtà traveste l’amata e odiata Brianza (Manzotti 1987; Italia 1998, con un eccellente repertorio commentato di lemmi). Le idee e le ossessioni della borghesia e dell’aristocrazia milanese, i tic classicheggianti e ciceroniani dei pedagoghi sono espressi da parole-chiave che vengono talora virgolettate perché indicano ideali, ideologie, credi: vieppiù, il credo sublime, laboravi fidenter. L’ironia feroce del narratore prende in contropiede il perbenismo o moralismo dei milanesi ricchi, sia attraverso forme fonetiche e sintattiche desuete e libresche (gitta, officio, discettatore, il di lui, la di lei), sia abbassando di colpo il tono verso le più banali frasi fatte (tirare il fiato, girare alla larga, leccarsi i baffi), oppure ricorrendo all’attualità più piattamente burocratica: «delle rate scadute e delle altre mezzo maturate» (San Giorgio in casa Brocchi). Quanto più il contesto è sostenuto, tanto più il dialetto a mala pena italianizzato crea interferenze comiche: andar dietro a «essere occupato in», padelle «macchie», locali doppi servissi «locali con doppi servizi». Per non parlare delle sequenze di discorso diretto in dialetto puro, come: «El m’ha guardàa i brilànt’»; «Ona pgüra, ma ona pagüra, cara el me Giròlom» (Quando il Girolamo ha smesso).
Nella Cognizione i tratti lombardi sono travestiti grottescamente da una patina spagnola e pseudo-spagnola, dove i vari pampero «vento della Pampa», puchero «lesso di carne di bue in verdure», por suerte «per fortuna», sin vergüenza «svergognato» entrano in conflitto o interferiscono con forme, fonetica e detti lombardi, commentati quasi con gusto da linguista e straniamento procurato da certe grafie, come la -k- per la consonante -c- velare: «i nomi trippa, büsekka, plurale tripp, büsekk». Spesso gli inserti spagnoli sono calchi da modi di dire solo italiani, come «Mocoso de guerra», riproduzione spagnoleggiante di «scemo di guerra».
I nomi di persona e di luogo sono sovente prodotto di incroci, che sospendono il lettore tra divertimento e tensione interpretativa: il protagonista Don Gonzalo Pirobutirro d’Eltino è un hidalgo molto speciale, poiché dopo il nome proprio spagnolo ingloba e traveste nel cognome le brianzole pere butirro e il tino, recipiente per conservare il vino, allusione alle abitudini degli abitanti del luogo; il Seegrün è il lago del Segrino, per giunta con il fonema -ü- inesistente in spagnolo. A straniare e a coprire ulteriormente un autobiografismo doloroso ecco il nome della pianura padana in una sorta di greco: Néa Keltiké «nuovo territorio dei Celti» (Manzotti 1987; Grignani 2007).
Nel romanzo che gli ha dato maggiore fama presso i lettori, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, ambientato a Roma, abbondano fatti fono-morfologici e termini romaneschi: la staggione sua, cuggini, cortelli, quer capoccione, voja, moje, me vonno, ce stanno, tremaveno, pareveno, magnà «mangiare». Ma, a seconda della provenienza dei personaggi, non mancano caratteristiche ed espressioni venete o ciociare oppure molisane, queste ultime attribuite al commissario Ingravallo («può stà ssicure ch’è nu guaio: qualche gliuommero [...] de sberretà»).
I punti di vista e le voci sono talora riportati in discorso diretto, talaltra filtrati in varie forme di discorso indiretto libero dal narratore, il quale anche qui si concede ogni sorta di licenza, tra latinismi, arcaismi, cultismi, toscanismi e termini del lessico intellettuale. Aulicismi lessicali (buccinatore «suonatore di buccina», ambulavano «camminavano», guisa «modo»), innalzamento del tono dovuto alla posizione sintattica, come il tipo aggettivo più sostantivo («i novelli sedani») o le inversioni che inarcano e nobilitano l’enunciato («cardi, sotto la neve […] ibernanti»); parole coniate dall’autore (accileccare, da cilecca «scherno»); infine termini del lessico intellettuale o giuridico, che si fanno particolarmente fitti quando sale alla ribalta la figura meditabonda del commissario-filosofo: «categoria di causa», «teoretica idea», «stridula comminatoria» (minaccia).
A questa continua mistione va aggiunto il gusto per l’elencazione, tipico di tutti gli scritti di Gadda in quanto legato all’idea di un reale stipato, inestricabile e perfino caotico, come, per es., nella descrizione di un mercato: «l’ora delle mozzarelle, dei formaggi, delle vermifughe cipolle, e dei cardi, sotto la neve pazientemente ibernanti, degli odori, delle insalatine prime, dell’abbacchio».
Ovunque nelle opere di Gadda la poetica del «voltaggio espressivo», forza linguistica da mantenere sempre tesa, conduce l’autore a interpretare la realtà attraverso il prelievo o la deformazione di abitudini locali, il riecheggiamento della parola d’altri, l’attivazione del fantasma vocale dei vari personaggi. Ovunque il narratore, da parte sua, si impegna in analisi, commenti e invettive, che rivitalizzano toscanismi ormai desueti, latinismi dedotti da letture dirette e da vocabolari, parole ed espressioni straniere (si pensi agli ispanismi della Cognizione), luoghi comuni della propaganda politica e del giornalismo, innalzando o abbassando o ibridando a doccia scozzese la tonalità del registro stilistico.
L’ira e la protesta hanno una parte di rilievo tra le motivazioni etiche della scrittura gaddiana, che sempre si muove tra potente realismo della presa sul mondo e deformazione grottesca, sullo sfondo di un lirismo doloroso e mascherato. Ne è prova il pamphlet Eros e Priapo. Da furore a cenere, pubblicato nel 1967, ma concepito negli anni della seconda guerra mondiale e del declino del fascismo. Gadda era stato filofascista all’inizio, come provano le lettere a famigliari o amici e alcuni articoli giornalistici tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta (Gadda 2005); perciò a maggior ragione deluso più tardi. La violenza della satira contro il «furore» del dittatore e la pietà per la «cenere» degli innocenti osteggiati e sacrificati dal Duce si colora di invettive e appelli al lettore, riveste di sfumature e lessico psicoanalitici l’interpretazione del fascismo, con l’aggiunta di una misoginia davvero esorbitante (la folla isterica è donna). Un dettato manieristico, non solo arcaizzante e fiorentineggiante più del consueto, ma cosparso di citazioni, grecismi e dialettalismi di varia geografia, tecnicismi e termini della medicina (rachitoide, esoftalmo, vaginale), formazioni d’autore (birrescamente, sfintericamente, evulvescenza, singultiva, maramaldosa), immette molte oscenità e parole blasfeme (le più tenui sono parole come maialata, minchioni). Le enumerazioni si fanno affannose ed eccessive: «tra profughi, perseguitati, carcerati, oltraggiati e congiunti e figli di deportati e di fucilati»; «dar di mazza o di stocco, fucilare, deportare, bavare e gracidare nelle concioni e delirare nelle stampe». Gli epiteti riservati al Duce vanno da Kuce, con il grafema ‹k› allusivo al tedesco di kaiser, a mascelluto o all’antonomasia il bombetta, «il primo Racimolatore e Fabulatore ed Ejettatore delle scemenze e delle enfatiche cazziate» (Matt 2006: 128-134).
Non si deve pensare che Gadda estendesse a tutti i tipi di scrittura il suo ideale di espressionismo. Infatti, lavorando per la radio, mise insieme una serie di Norme per la redazione di un testo radiofonico, pubblicate senza indicazione d’autore nel 1953 dalla ERI di Torino, esempio lucido della consapevolezza delle finalità diverse e delle differenti impostazioni che un testo comunicativo e di esecuzione orale deve avere rispetto a un testo creativo (➔ radio e lingua). L’autore raccomanda qui accessibilità, chiarezza, limpidità del dettato, esclusione del tono accademico, che indurrebbe nell’ascoltatore un senso d’inferiorità culturale: «l’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante», sostiene l’esperto, che sconsiglia anche i lunghi preamboli, i periodi troppo lunghi pieni di subordinate, le rime involontarie, l’abuso di termini stranieri e di vocaboli antiquati o regionali.
Contini, Gianfranco & Gadda, Carlo Emilio (2009), Carteggio 1934-1963, a cura di D. Isella, G. Contini & G. Ungarelli, Milano, Garzanti.
Gadda, Carlo Emilio (1958), I viaggi, la morte, Milano, Garzanti.
Gadda, Carlo Emilio (1988-1993), Opere, edizione diretta da D. Isella, Milano, Garzanti, 5 voll.
Gadda, Carlo Emilio (2005), I Littoriali del lavoro e altri scritti giornalistici (1932-1941), a cura di M. Bertone, ETS, Pisa.
Contini, Gianfranco (1989), Quarant’anni di amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda (1934-1988), Torino, Einaudi.
Flores, Enrico (1973), Accessioni gaddiane. Strutture, lingua e società in Carlo Emilio Gadda, Napoli, Loffredo.
Grignani, Maria Antonietta (2007), Travestimenti di Gadda, in Ead., Novecento plurale. Scrittori e lingua, Napoli, Liguori, cap. 1º.
Italia, Paola (1998), Glossario di Carlo Emilio Gadda ‘milanese’. Da “La meccanica” a “L’Adalgisa”, Alessandria, Edizioni dell’Orso.
Manzotti, Emilio (1987), Introduzione, in Gadda, Carlo Emilio, La cognizione del dolore, edizione critica commentata con un’appendice di frammenti inediti a cura di E. Manzotti, Torino, Einaudi, pp. VII-LI.
Matt, Luigi (2006), Gadda. Storia linguistica italiana, Roma, Carocci.
Roscioni, Giancarlo (19953), La disarmonia prestabilita. Studi su Gadda, Torino, Einaudi (1a ed. 1969).