Carlo Esposito
Carlo Esposito è stato indubbiamente uno dei giuristi più influenti sulla scienza costituzionalistica italiana del Novecento. Personalità profondamente complessa, nella quale confluiscono inestricabilmente le tre anime di filosofo del diritto, di teorico generale e di giurista positivo, ha saputo sviluppare in maniera del tutto originale il cosiddetto metodo giuridico nello studio del diritto pubblico, inaugurato in Germania da Karl Friedrich Gerber e in Italia, oltre che da Vittorio Emanuele Orlando, da Santi Romano e Donato Donati. Persona di «profonda umanità» e di «interiore bontà», «espressione fra le più significative [...] nella storia del pensiero pubblicistico contemporaneo» (C. Mortati, Carlo Esposito, «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1965, p. 980), Esposito non volle mai assumere cariche istituzionali al di fuori dell’ambito universitario, dedicandosi esclusivamente agli studi e all’attività accademica, contribuendo a creare la «scuola costituzionalistica romana [...] che intorno a Lui crebbe rigogliosa, seria, entusiasta» (A.M. Sandulli, In memoria di Carlo Esposito, «Giurisprudenza costituzionale», 1971, 3, p. II).
Carlo Esposito nacque a Napoli il 18 agosto 1902. Insegnò introduzione alle scienze giuridiche e filosofia del diritto ed economia politica nell’Università di Camerino (1928-30), diritto costituzionale a Camerino (1930-35), Messina (1935-36), Macerata (1936-39) e Padova (1939-49, dove sostituì Donati), e dottrina dello Stato a Napoli (1949-53); dal 1953, infine, insegnò a Roma, prima come professore di diritto costituzionale italiano e comparato presso la facoltà di Scienze politiche e, dal 1956, quale titolare di diritto costituzionale nella facoltà di Giurisprudenza. Fu allievo di Adolfo Ravà, Romano e Donati.
Fu direttore dell’Istituto di diritto pubblico della facoltà di Giurisprudenza di Roma, fondatore, nel 1956, della rivista «Giurisprudenza costituzionale» e, dal 1957, direttore della sezione costituzionalistica dell’Enciclopedia del diritto. Morì a Roma il 10 dicembre 1964.
Se Esposito può essere considerato un positivista, giacché nella sua intera produzione (dal 1927 al 1964, anno della sua prematura scomparsa) non smentì mai l’assunto fondamentale della concezione positivistica del diritto, e cioè la separazione (o separabilità) della valutazione giuridica dalla valutazione morale, va tenuto presente che egli è stato un positivista assolutamente sui generis, caratterizzato dalla sua vocazione realistico-storicistica e anti-formalistica.
Nei suoi scritti, il rigore logico-dialettico e l’analisi ricostruttiva degli istituti e dei concetti giuridici sono strumenti per giungere alla spiegazione più soddisfacente della realtà effettuale del diritto, sempre alla ricerca delle ragioni sostantive delle disposizioni interpretate, suffragate dalla sussistenza di una prassi significativa, anche di tipo comparativistica, di là dal mero dato letterale. Alla ricerca, dunque, di ricostruzioni realistiche ma non mistiche, alla luce delle verità di esperienza, in una sintesi estrinseca dove il reale e il razionale non si confondono, ma restano, reciprocamente, misura di giudizio, seppure prevalga poi sempre il diritto effettivo. Si pensi, per es., alla tesi secondo cui
la dottrina che la necessità di per sé funga da fonte di competenza a provvedere, […] quando sostiene che una competenza solo perché necessaria è effettiva, confonde il razionale con il reale, l’ideale col positivo e porta a due conseguenze parimenti inammissibili (Decreto-legge, in Enciclopedia del diritto, 1° vol., 1962, poi in Diritto costituzionale vivente, a cura di D. Nocilla, 1992, p. 193).
Infatti, «altra cosa sono gli atteggiamenti concreti degli istituti, altri gli atteggiamenti che essi dovrebbero avere secondo logica astratta» (Commento all’art. 1 della Costituzione, «Rassegna di diritto pubblico», 1948, poi in La Costituzione italiana, 1954, p. 5).
Per Esposito il diritto vivente nella storia di una comunità costituisce propriamente l’oggetto della considerazione scientifica del giurista, e rappresenta il fondamento dell'elaborazione degli istituti e dei concetti giuridici, entità sempre storicamente determinate.
Il positivismo realistico di Esposito è già evidente nei suoi Lineamenti di una dottrina del diritto del 1930, che possono essere ritenuti la summa del suo pensiero filosofico-speculativo. In tale scritto la tesi caratteristica della concezione positivistica del diritto diviene radicale contrapposizione tra diritto e morale, contrapposizione che si direbbe, in questa fase del suo pensiero, di natura ontologica, per come egli concepisce qui il diritto e la morale: il diritto, inteso come prodotto della coscienza sociale, è valutazione esteriore o estrinseca dell’agire, e si distingue dalla morale, che non è mai valutazione, ma solo comprensione e giustificazione, imparziale contemplazione, giudizio teoretico, di pura ragione. Ed è sempre il realismo, ossia la considerazione di quel che è e non di quel che deve essere, alla base della teoria (antinormativa) del diritto qui rappresentata, finalizzata a individuare una «concezione rispondente alla reale natura del diritto» (Lineamenti, cit., poi in Scritti giuridici scelti, 1° vol., 1999, p. 57), avendo riguardo al «diritto effettivamente valido (o, per dirla coi giuristi, positivo)» (p. 241).
Identificando il diritto con la valutazione eteronoma, Esposito esalta al tempo stesso il diritto positivo come argine che il giurista non può valicare. Assunto che non verrà da lui mai rinnegato.
Inteso il diritto positivo come «il diritto obiettivamente posto», in contrapposizione ai sistemi di diritto «che volta a volta ogni giurista può porre a se stesso: sistemi che sarebbero diritto, ma che veramente non sono se non idea del diritto: ideale giuridico, non diritto» (Intervento al Convegno di studio sul tema 'Diritto naturale vigente', 1949, poi in Scritti giuridici scelti, cit., 1° vol., p. 295, rilievi testuali), e, identificato il diritto non con la legge ma con il sistema (per cui una singola legge ingiusta può essere in contraddizione con il sistema, perché ad esso non può ridursi), Esposito asserisce che
il giudice deve esperire tutti i mezzi di cui dispone come ‘giurista in posizione attiva’ per ricondurre ogni singola norma al sistema; ciò fatto, deve applicare la norma, e applicarla come gli risulta nella sistemazione raggiunta. [...] Se dopo aver esperito tutti i mezzi che sono a disposizione del giurista nella sua opera di riduzione a sistema delle norme, una singola legge (ingiusta) non si lascia interamente assorbire nel sistema stesso, ma offre, fuori del sistema, un residuo normativo ineliminabile […] al giurista come tale non rimane che accettare la norma ingiusta e accettarla come diritto (pp. 296, 297, rilievi testuali).
Tanto spetta al giurista, proprio in quanto giurista. Eppure soltanto a una superficiale considerazione una tale tesi può apparire come una professione di ideologia legalistica. Esposito, infatti, non arresta la sua considerazione al giurista in quanto tale:
Il giudice, se potrà, si muoverà – come uomo, come cittadino, come individuo – con la rivoluzione: ed il cattolico, in ispecie, di fronte a certe circostanze dovrà spogliarsi delle sue qualità di giurista, per mantenere quella di cattolico (p. 297, rilievi testuali).
Del resto, Esposito è lontanissimo da una concezione legalistica del diritto, essendo piuttosto un acuto rilevatore della complessità e della mutevolezza del fenomeno giuridico.
Le regole sulla produzione del diritto costituiscono anzitutto un invito a tutti ed a ciascuno ad offrire ogni elemento direttamente o indirettamente utile al miglioramento delle regole giuridiche e della loro applicazione, un appello generale perché sia espresso consenso, dubbio, incertezza, biasimo sui principi accolti, un invito insomma alle libere manifestazioni del pensiero di ogni genere e specie, perché nessun pensiero può dirsi a priori irrilevante giuridicamente. [...] [Gli ordinamenti giuridici,] per comune consenso, sono cosa assai più complessa che mera affermazione ed imposizione di principi e di norme. Sono anche realizzazione o impulso alla realizzazione di essi: complesso insomma di norme e di principi attuantisi, positivi, vigenti . [...] Quando si riconosce, come oggi sempre più si riconosce, che l’ordinamento giuridico non consta solo di norme, ma è concreta e durevole organizzazione di una comunità, quando si afferma che la positività e la efficacia sono caratteri del diritto (se non della singola regola dell’ordinamento nel suo complesso), quando si afferma che lo Stato non esplica solo attività legislativa ma anche giurisdizionale ed esecutiva (e che le seconde, forse, sono più essenziali allo Stato che non la prima), in forma più o meno approfondita e conseguente, sotto profilo diverso, si riconosce questa complessità: l’essere e il voler essere degli ordinamenti giuridici, l’affermare e l’affermarsi, il discutere e il decidere, il porre cioè fine alle discussioni traducendone in atto i risultati» (La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, 1958, poi in Diritto costituzionale vivente, cit., pp. 112, 114, 114-15).
La separazione fra diritto e morale è insomma un punto fermo della riflessione espositiana, riproposta anche nei contributi maggiormente esegetici, dedicati all’interpretazione del nuovo testo costituzionale repubblicano. Esposito ritiene, perciò, che
non peccherebbe per illegittimità costituzionale la legge contraria alla morale, al diritto giusto, al diritto naturale, anche se questi rinvii esistessero (ma non esistono) nella nostra Costituzione (Il controllo giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia, «Rivista di diritto processuale», 1950, 4, poi in La Costituzione italiana, cit., p. 275).
Infatti la «complessa proclamazione» dell’art. 3, 1° co., della Costituzione, in cui si afferma che i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali,
non stabilisce in alcun modo che le leggi debbano essere giuste, oppure non arbitrarie, oppure genericamente proporzionate ai meriti o ai demeriti assoluti e comparativi dei cittadini, [e perciò] sarebbe inammissibile dedurre dalla proclamazione della eguaglianza dei cittadini che le leggi ingiuste siano viziate per il loro contrasto con la regola della Costituzione sulla eguaglianza (Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, 1953, poi in La Costituzione italiana, cit., p. 60).
Già nei Lineamenti, peraltro, sono evidenti le caratteristiche del positivismo realistico di Esposito: l’antilegalismo e l’antinormativismo. Il diritto è formazione spontanea e le regole sulle fonti danno solo riconoscimento a un carattere intrinseco, regolano ma non costituiscono il diritto oggettivo. E per Esposito sarà sempre vero che le regole costituzionali «hanno valore giuridico solo nei limiti in cui hanno riscontro nei fatti», e «perciò esse non hanno solo un carattere normativo ma anche ricognitivo di una situazione realmente esistente». E, si ammonisce, ciò «forse vale per tutte le regole giuridiche in misura maggiore di quanto comunemente si creda» (Commento all'art. 1, cit., p. 5). In tal senso, si afferma
la validità delle norme costituzionali dipende da mere circostanze di fatto; sicché non sussiste neanche una presunzione di efficacia del sistema costituzionale precostituito e scritto. [E ciò è] nella realtà delle cose (Capo dello Stato, in Enciclopedia del diritto, 6° vol., 1960, poi in Diritto costituzionale vivente, cit., p. 23).
Peraltro, in quest'ultimo scritto Esposito elabora la tesi molto nota, e attualissima, del capo dello Stato nei regimi parlamentari come reggitore dello Stato nelle ipotesi di crisi del sistema, in serrata critica alla tesi ancor oggi dominante nella dottrina costituzionalistica del capo dello Stato come «forza neutra tra la maggioranza e la minoranza del parlamento» (p. 26). In conclusione,
il Capo dello Stato in regime parlamentare non differisce dalle altre istituzioni per la qualità del potere esercitato, ma è una delle istituzioni politiche che, come le altre, ma in via subordinata, ha possibilità di far valere le proprie direttive, tendenze, opinioni e orientamenti, e che sopravanza le altre istituzioni costituzionali per posizione, ma non per le funzioni (p. 37).
Esposito sviluppa la sua concezione realistica della costituzione a partire da La validità delle leggi del 1934, la sua opera maggiormente sistematica, in cui, nello «svolgere una teoria generale della validità delle leggi sulla base di molteplici esperienze giuridiche» (rist. 1964, p. III) e senza intenti ricostruttivi di un determinato diritto positivo, argomenta la tesi fondamentale secondo la quale
gli atti legislativi […] possono dunque essere sottoposti a limiti e vincoli alla stessa guisa di ogni altro atto dello Stato, qualunque sia l’oggetto regolato, qualunque sia il regime costituzionale in cui gli atti sono emanati, qualunque sia la sottospecie di atto legislativo (p. 231).
Qui Esposito scarta «i molti tentativi di definizione meramente giuridica (e qualche volta meramente formali) del concetto di costituzione» e, dunque, in primo luogo la concezione normativa della costituzione, sostenuta in modo particolare dalla scuola di Vienna, secondo cui la costituzione «rappresent[a] il più alto gradino della volontà statuale, o […] essa determin[a] (solo) come si fanno le leggi», scartandosi in maniera radicale «tutta la tesi dei gradini e delle scale» (p. 209 nota 89).
Accogliendo le critiche e la costruzione circolare delle regole e degli atti statuali di Alf Ross, egli rigetta l’impostazione 'gradualistica' elaborata da Paul Johannes Merkl e da Hans Kelsen, ritenendo
completamente infondata la tesi […] che le manifestazioni di volontà dello Stato costituiscano una piramide o una scala e che ogni specie di atto ne rappresenti un gradino, e che si arrivi per gradi sempre superiori sino ad un supremo livello, che nella costituzione flessibile sarebbe la legge, in quella rigida la costituzione. [...] Tra legge e costituzione, tra legge regolamento, se ed in quanto manifestino validamente la volontà dello Stato, non vi è rapporto di superiorità ma di parità; e l’efficacia della legge e quella della costituzione, e quella del regolamento o della sentenza si lasciano costruire assai meglio ricorrendo alla tesi della parità che non a quella della graduazione del volere statuale. [...] La costituzione dello Stato designa un fatto oltre che una regola, contrassegna l’ordinamento valido ed efficace dell’organizzazione suprema dello Stato oltre che la legge di organizzazione; o, più sinteticamente, il punto di incidenza tra il diritto e il fatto. [...] Per tal carattere le disposizioni costituzionali, a differenza da ogni altra disposizione giuridica, non sono legate solo a condizioni giuridiche di validità, ma anche a condizioni di fatto di efficacia, e non vigono solo che siano imposte giuridicamente nelle forme di legge, ma se siano anche in grado di farsi valere concretamente come regola sugli organi supremi dello Stato; se determinino la forma effettiva di governo dello Stato stabilendone il regime; precisino il fine, la estensione e i limiti reali del potere statale e in genere quegli elementi che valgono a caratterizzare e a distinguere le varie forme di Stato (pp. 74, 75, 205, 205-206 ).
Una splendida enunciazione della concezione del diritto e del metodo di Esposito si rinviene certamente nel citato Il controllo giurisdizionale, relazione svolta nel 1950 al Congresso internazionale di diritto processuale di Firenze. Rispetto al
dubbio fondato se la attività creatrice del diritto possa essere vincolata come le altre attività giuridiche, [...] la constatazione che in ogni ordinamento, accanto a regole giuridiche sorte nelle vie e nei limiti precostituiti, esistono regole, pur esse valide ed efficaci, sorte fuori dalle vie giuridiche, convince che le statuizioni tese a disciplinare l’attività creatrice del diritto non hanno quel medesimo valore assoluto, costitutivo, che spetta alle altre regole attributive dei poteri, delle capacità e delle competenze. Rivoluzioni [...], spontaneo sorgere e tramontare delle regole giuridiche nelle vie della consuetudine, nonostante tutti i divieti e le proibizioni del diritto scritto, provano che il diritto non può tanto nascere nei modi precostituiti dall’ordinamento giuridico, quanto anche per altre vie», e tale «diritto obiettivo sorto fuori o contro le regole, quando sia vivo e vitale, entra a far parte integrante dell’ordinamento: vige ed ha efficacia giuridica, per quanto per definizione sia in contrasto sostanziale o formale con quelle regole (Il controllo, cit., in La Costituzione italiana, cit., p. 264).
Per Esposito il significato del controllo giurisdizionale della costituzionalità delle leggi «resta delimitato» da queste osservazioni:
La predisposizione di un controllo giurisdizionale della costituzionalità delle leggi dà luogo ad un meccanismo attraverso cui il diritto precostituito cerca di dare una maggiore, una più sicura ‘effettività’ alle regole sulla produzione del diritto; ma non può escludere che anche regole contrastanti (nella sostanza o nella forma) con le disposizioni dell’ordinamento precostituito entrino a far parte dell’ordinamento stesso e non può dare luogo ad un radicale mutamento di natura dell’attività creatrice del diritto. [...] In verità, come sfugge al diritto positivo di definire che ‘cosa sia’ il diritto, così anche di fissare in maniera incontrovertibile 'quando' questo diritto ci sia, in che modo possa nascere e che cosa esso possa stabilire. [...] Il diritto precostituito può esprimere in tal maniera solo la velleità, il desiderio, la volontà di prestabilire in quali casi e in quali limiti la propria forza sarà al servizio di coloro che tendono a creare diritto nuovo, ma non può elevarsi a condizione assoluta o a premessa inviolabile della validità del diritto futuro. Né gli istituti a garanzia del rispetto delle regole sulla formazione del diritto, i controlli autoritari sulla legittimità sostanziale o formale delle leggi, valgono ad elevare a condizione assoluta per la creazione o per la validità delle norme giuridiche il rispetto delle regole sulla produzione e sulla legittimità sostanziale del diritto. Esse valgono solo a rinforzare, se è possibile, la efficacia normativa, e mai costitutiva, del diritto già posto nella parte in cui vuole disciplinare la produzione e la legittimità del diritto a venire. Questo e non altro (pp. 264-65, 265, 265).
Quanto al metodo giuridico, Esposito, consapevole «dei naturali limiti e della labilità di una ricostruzione puramente esegetico-concettuale» nell’attività d’interpretazione delle disposizioni costituzionali, afferma che all’interprete spetta piuttosto il compito «di dare una viva ricostruzione della vivente Costituzione italiana», «ispirandosi alla storia e allo svolgimento degli istituti», in base cioè «alla osservazione della storia reale» di questi (p. 266).
Il realismo, sia per quanto riguarda la concezione del diritto sia per quanto riguarda il metodo, dunque, costituisce la caratteristica dell’intero pensiero di Esposito, fino alle opere più recenti del periodo repubblicano. Fra queste, un rilievo particolarissimo è da riconoscere a La consuetudine costituzionale (1961, in Studi in onore di Emilio Betti, 1962, 1° vol., pp. 598-639), nella quale è definitivo il ripudio del normativismo kelseniano e della sua teoria delle fonti, e che è stata definita lo «scritto più geniale, più affascinante, e comunque destinato a resistere più a lungo nel tempo» (Paladin, in Il pensiero costituzionalistico di Carlo Esposito, 1993, p. 52). Esposito, infatti, qui riafferma in maniera esemplare la tesi già accennata nei Lineamenti e soprattutto sviluppata ne La validità in tema di produzione normativa, e cioè che
la forza degli atti e dei comportamenti normativi non è derivata o estrinseca, ma interiore, e le disposizioni sulle fonti non danno forza agli atti o ai comportamenti normativi, ma solo ne disciplinano la forza, la regolano ed eventualmente la eliminano» (La consuetudine, cit., in Diritto costituzionale vivente, cit., p. 318).
Di qui il passo è breve per il rigetto conclamato del gradualismo kelseniano: poiché «la ragione per cui atti e comportamenti umani raggiungono forza normativa» è «unica e identica» (p. 318), e consiste nella
attitudine degli uomini a creare, come le opere di arte e di scienza che trascendono l’atto o l’attimo di loro creazione, così anche norme di diritto che vigono oltre l’atto di loro imposizione, [...] la tesi che la forza degli atti di creazione del diritto obiettivo si commisura alla loro origine non dovrebbe portare alla conseguenza che la forza degli atti normativi sia varia, ma unica ed identica. E in realtà gli atti e i comportamenti tendenti alla creazione del diritto quando raggiungono l’effetto normativo sono in ciò tutti pari e parimenti vincolanti (pp. 318 nota 64, 318).
E di qui anche la delineazione di quella concezione della competenza che ha finito, nella dottrina costituzionalistica più accreditata, per affiancare variamente, se non a sostituire del tutto, la concezione gerarchica delle fonti in diritto positivo: quando si parla della diversa forza delle varie specie di atti normativi, ciò
non dipende dalla circostanza che gli atti di una specie abbiano ‘forza maggiore’ di quelli di altra specie, ma solo che ‘più estesa’ è la attività normativa legittimamente esercitabile attraverso gli atti di una specie che non sia quella esercitabile attraverso atti di altre specie, e che alcuni atti, secondo le previsioni delle disposizioni sulle fonti, possono disporre anche la abrogazione di disposizioni sorte in virtù di atti di diversa o di diverse specie, e altri no (pp. 320-21).
Scritti giuridici scelti, 4 voll., a cura di J.-P. Berardo, Napoli 1999.
Restano fuori da questa raccolta le seguenti opere:
La validità delle leggi: studio sui limiti della potestà legislativa, i vizi degli atti legislativi e il controllo giurisdizionale, «Annali dell’Università di Camerino» 1934, 7, pp. 197 e segg., poi, in volume autonomo, Padova 1934; rist. Milano 1964.
La Costituzione italiana: saggi, Padova 1954.
Diritto costituzionale vivente: capo dello Stato ed altri saggi, a cura di D. Nocilla, Milano 1992.
Per l’elenco completo delle opere si vedano:
A. Pace, Gli scritti di Carlo Esposito, «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1971, pp. 1923-30, poi in Studi in memoria di Carlo Esposito, 1° vol., Padova 1972, pp. XIII-XVIII.
G. D’Alessandro, Nota bio-bibliografica di Carlo Esposito, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2001, 2, pp. 843-55.
D. Nocilla, Presentazione a C. Esposito, Diritto costituzionale vivente: capo dello Stato ed altri saggi, a cura di D. Nocilla, Milano 1992, pp. V e segg.
F. Lanchester, Esposito Carlo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 43° vol., Roma 1993, ad vocem.
Il pensiero costituzionalistico di Carlo Esposito, Atti del Convegno, Macerata (5-6 aprile 1991), Milano 1993 (in partic. F. Modugno, Il pensiero filosofico-giuridico, pp. 3-40; L. Paladin, Le fonti del diritto, pp. 41-59).
F. Modugno, Presentazione degli 'Scritti giuridici scelti' di Carlo Esposito, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2001, 2, pp. 813-41.
La sovranità popolare nel pensiero di Esposito, Crisafulli, Paladin, Atti del Convegno di studi 'Esposito, Crisafulli, Paladin: tre costituzionalisti nella cattedra padovana', 19-21 giugno 2003, a cura di L. Carlassare, Padova 2004 (in partic. F. Modugno, La dicotomia 'Stato-ordinamento'-'Stato-soggetto' nel pensiero dei tre Maestri, pp. 17 e segg.).
Gli scritti camerti di Carlo Esposito (1928-1935), Atti del Convegno di studi, Camerino 12 ottobre 2007, a cura di M. Ruotolo, Napoli 2008 (in partic. F. Modugno, La dottrina del diritto nel pensiero di Carlo Esposito, pp. 9 e segg., poi, in volume autonomo, Torino 2008).