FADDA, Carlo
Nacque a Cagliari il 4 nov. 1853. Il padre, Antonio, era avvocato, uno dei più forti civilisti e dei primi professionisti della città. Nella città natale si svolse in gran parte la sua formazione.
Completò il corso universitario di giurisprudenza a Torino (1877), ove ebbe maestro G. Carle, giurista e filosofo di profonda sensibilità storica e di una competenza romanistica singolarmente ricca. Nei tre anni successivi lavorò intensamente nello studio legale del padre. Sembrava destinato a seguirne la strada. Invece in quegli stessi anni maturò una diversa scelta di vita. Decisiva verso il diritto romano l'influenza di A. Loru, docente di vaglia nell'ateneo cagliaritano, finissimo esegeta dei testi giustinianei. Importante fra i maestri anche E. Lay, civilista di forte impronta romanistica. Fra i compagni, sempre legato al F. da affettuosa amicizia, il nuorese G.P. Chironi, che illustrò poi la cattedra torinese di diritto civile.
Il F. conseguì prima il titolo di dottore aggregato; poi, lavorando soltanto di notte ed in soli quattro mesi, compose quella acuta monografia Sulla dottrina della novazione (Cagliari 1880), che gli valse la ammirazione di F. Serafini, il grande rinnovatore della romanistica italiana, e la cattedra di diritto romano nella università di Macerata. Cominciava un insegnamento prestigioso, destinato a imprimere segni indelebili nella scienza del diritto.
La prolusione, letta il 15 genn. 1881, dal titolo L'equità e il metodo nel concetto de' giureconsulti romani (Macerata 1881) contiene, già maturo, il programma della pandettistica. Il diritto romano è chiamato ad un ufficio pratico fondamentale, dispiegato nei contenuti e soprattutto nel metodo. Tuttavia l'attualità non scade mai in una trasposizione meccanica di norme. Come già F. Serafini nella prolusione romana del 1871, il F. persegue un felice equilibrio fra le istanze antitetiche della positività giuridica e della storia. Mai il diritto romano si risolve nel diritto positivo moderno, né mai è relegato in una dimensione meramente storica.
Al programma della pandettistica il F. restò sempre fedele. Dal 1882, e per tredici anni, ebbe cattedra a Genova. Sono gli anni del sodalizio, umano e scientifico, con P. E. Bensa. Sodalizio intenso e fruttuoso. Insieme tradussero il Lehrbuch des Pandektenrechts di B. Windscheid, opera capitale, a partire dal 1887 in dispense (e poi in tre volumi, divisi in quattro parti, Diritto delle Pandette, Torino 1902-04).
E alla traduzione aggiunsero note di commento. Incomplete, e mai completate neppure da P. Bonfante e F. Maroi che ne continuarono l'impresa, esse attengono alla sola parte generale (e a pochi temi di Sachenrecht) del testo commentato. Opera ricchissima, tuttavia. Fonte inesauribile di sapere giuridico. Summa di un pensiero, di una tradizione che attraversa i secoli. A ragione considerata il momento più alto della pandettistica italiana. Sembra quasi, fu detto con immagine efficace, che la traduzione sia pretesto per profondere a piene mani una vera miniera di trattazioni dei punti più importanti di tutta la scienza del diritto. E sempre le trattazioni sono nutrite di sapienza romana. È certo che il F. portasse il maggior peso del lavoro. Ed è vero che vi impresse il suggello della sua personalità. Sobrio per solito nel manifestare i tesori della sua erudizione, qui volle liberarli nel modo più ampio e cospicuo. Non tuttavia per sterile esibizione. Invece di soffocare la forza della argomentazione, tanta ricchezza di cultura al contrario la potenzia, la valorizza. E si pone come testimonianza, la più rara e nobile, della civiltà del diritto.
Appartengono al periodo genovese anche opere eminenti di storia del diritto, capaci di fare stato su questioni le più tormentate. Sull'Appello penale romano (in Digesto italiano, IV, I, Torino 1885), ove il vincolo rigoroso delle fonti assurge a canone esegetico contro le tendenze critiche prevalenti nella storiografia tedesca. Su L'azione popolare (ibid. 1894): istituto restituito proprio in quegli anni alla attualità (peraltro molto parziale) dopo antica desuetudine, per la più stretta connessione fra cittadino e comunità che le idee liberali venivano a secondare.
Alle linee ricostruttive proposte in dottrina da C. G. Bruns nel 1864, che erano motivo di un fervido dibattito, il F. diede l'apporto originale di analisi e di revisioni, e l'afflato di una potente visione storica (così da ottenere l'elogio più alto, nel riconoscimento di "perfezione", dal giudice più difficile, V. Scialoja, principe dei romanisti italiani). Tema (e ispirazione) comune alle due opere è da cogliere nel concetto romano di libertà, che presiede alla unità indissolubile fra cittadino e popolo.
Magistrale anche lo studio Dell'origine dei legati (in Studi giuridici e storici... per l'8º centenario della Università di Bologna, Roma 1888), ove la dogmatica dell'istituto (il quale "del diritto romano trasfuso nelle moderne legislazioni è davvero pars magna") tiene saldamente le fila del discorso storico e ne promuove con logica stringente le novità. Ma la produzione del F. è sterminata, con ritmo incalzante. Basti ricordare, negli Studi giuridici offerti per il 35º anno d'insegnamento di F. Serafini (Firenze 1892), Le servitù prediali sopra od a favore di fondi nullius (ripreso, con approfondimenti e precisazioni, in Il Filangieri, XXI [1896], pp. 801-806), ove un tema di ardua e astratta teoria pandettistica, quello dei diritti senza soggetto, mette per converso in evidenza nel F. un limpido senso dell'equilibrio. E contributi di vario diritto, dal 1889 al 1894, nell'Annuario critico di giurisprudenza pratica, diretto da P. Cogliolo.
Dal 1895, chiamato a succedere a N. De Crescenzio (morto nel gennaio di quell'anno), il F. ebbe la cattedra di pandette nella università di Napoli. Autentico signore della scienza, qui ne diede manifestazione possente. In primo luogo nelle lezioni, pubblicate, secondo una consuetudine del tempo, da allievi, con l'autorizzazione espressa o tacita dell'autore (memorabili anche quelle, coeve, di V. Scialoja a Roma). Esse spaziano fra i massimi problemi del diritto romano (già in parte trattati a Genova in corsi litografati). Aprono la serie prestigiosa nell'anno accademico 1895-96. Le servitù prediali e la chiudono nel 1912-13. Poi, a tacere di altre, La teoria della proprietà nel diritto romano (Napoli 1906-07, a cura di G. Cugusi); La teoria della proprietà, parte speciale (ibid. 1907-08, a cura di G. Are, che sempre sarà vicino al maestro e ne sposerà una figlia); la Teoria generale del negozio giuridico (ibid. 1908-09); Ildiritto delle persone e della famiglia (ibid. 1909-10); Il possesso (ibid. 1910-11). Dominio della materia, nella dottrina e nelle fonti. Solido, ma non mai rigido, l'impianto dommatico; nitida, forte, articolata l'esegesi che in esso si iscrive. Incentrato strettamente nel giuridico l'esercizio della ragione storica. Tenace, per intima forza di coerenza, l'avversione ai metodi di mera critica filologica e storica, in cui veniva a risolversi l'interpolazionismo.
Alieno dalle nuove tendenze della romanistica, nondimeno il F. conservava un ruolo "dominante, per riconoscimento unanime. Con enfasi motivata E. Albertario, il quale dell'interpolazionismo fu il maggiore interprete italiano, ebbe ad asserire che la cattedra pandettistica di Napoli era veramente una cattedra che parlava al mondo. Del professore, dell'avvocato, dell'uomo nei primi anni del secolo si ha la rievocazione del più insigne fra i suoi allievi, V. Arangio-Ruiz, nelle celebrazioni tenute a Cagliari per il centenario della nascita. Austero, grave, misurato, scevro di eloquenza. Tuttavia capace in sommo grado di attrarre giovani e suscitare la tensione della scienza. Avvinceva l'uditorio con l'autorità di un ragionamento ampio, severo, ininterrotto. Egualmente nel foro, che proprio a Napoli aveva ripreso a praticare. E qui veniva spesso in contraddittorio con altri celebrati maestri dell'ateneo napoletano, E. Gianturco, A. Marghieri, e per qualche tempo L. Mortara.
Nascono ancora dalle lezioni due opere eminenti. Quella sugli Istituti commerciali del diritto romano (Napoli 1903), purtroppo incompiuta, tratta dei problemi generali nella introduzione, e nella parte interrotta (a p. 208) degli argentarii e del commercio bancario. E se la trattazione può dirsi in molti punti nuova, nuovo appare soprattutto l'oggetto, il diritto commerciale romano, che il F. ritaglia nelle fonti con sovrana sicurezza: interno al diritto privato comune, e nondimeno munito di una singolare autonomia (presupposto necessario, a ben guardare, alle rielaborazioni dottrinali che conducono alla età moderna). E poi, capolavoro assoluto, Concetti fondamentali del diritto ereditario romano (in due volumi, ibid. 1900 e 1902). Modello di educazione giuridica, nel giudizio di V. Arangio-Ruiz.
Alta e complessa la concezione dell'opera, sulla materia più ardua (le cattedre tedesche di pandette ne prevedevano un corso separato). Un'arte logica sembra modellare le linee degli istituti. Senza tuttavia decadere nella astrazione, per l'incessante nutrimento di vita apportato dalle fonti. Ebbe a scrivere, di lui e dell'opera, P. Bonfante, pur da posizioni per molti aspetti antagonistiche, che nessuno sviluppa e approfondisce più largamente in ogni parte il soggetto preso a trattare, nessuno riallaccia meglio il diritto romano al diritto moderno, nessuno è più atto a proseguire in tutti i particolari più sfuggevoli l'indagine critica delle costruzioni giuridiche e armonizzare il tutto in un insieme sistematico.
È metodo costante del F. "studiare la evoluzione storica degli istituti, fermandosi in particolar modo nello studio dei giuristi classici e cercando nella analisi esegetica dei loro scritti quell'indirizzo logico che forma il loro pregio immortale e li fa vivere di gioventù sempre rinnovantesi". Fin qui la influenza della scuola storica. Ma egli se ne allontana nel seguito: "Non bigotti del diritto romano, siamo ben lungi dal trovare in esso tutto buono o da scorgervi concreta la fantasia utopistica della ratio scripta" (Istituti commerciali, pp. 3 s.). Ed è da aggiungere che mai la visione evoluzionistica si piega negli schemi di un piatto positivismo.Nella collaborazione a Il Filangieri, molto intensa fra il 1894 (quando ne prese la direzione insieme con A. Brunialti, P. Cogliolo, A. Vedani) e il 1899, spiccano gli studi su Il diritto romano nella pratica, in gran parte raccolti in volume, accanto ad articoli più prettamente romanistici (Studi e questioni di diritto, I, Napoli 1910, pp. 395-553). Vi convivono un robusto senso della traduzione ed il moderno principio dello statualismo legislativo. Reiterata la critica di applicazioni pedisseque del diritto romano nel presente. Compete al romanista, come suo ufficio precipuo, misurarne continuità e distanza. E se cesure molteplici sono nella stessa tradizione, la cesura maggiore sta nello statualismo. Decaduto dal rango di legge, estromesso dal diritto positivo, il patrimonio giuridico dei Romani conserva invece valore di diritto scientifico e rango di scienza. E solo da tale dimensione, oltre che primariamente per la logica del metodo, esso può e deve, secondo il F., dispiegare ancora la sua efficacia nella pratica.
Tutti gli scritti del F., anche i più brevi, portano impresso il segno di una mente poderosa, di una raffinata cultura. Ed è motivo di suggestione autentica, immutata nel tempo. Innumerevoli gli scritti. Impossibile, inutile, darne conto. Basti ricordare alcune memorie preziose, lette alla R. Accademia di scienze morali e politiche della Società Reale di Napoli (di cui era socio dal 1898, chiamato a succedere a L. Capuano). Le res religiosae nel diritto romano (1899, in Atti della R. Acc. di scienze morali e pol., XXXI [1900], pp. 257-340), il maggiore fra i numerosi studi di argomento sepolcrale. Il buon padre di famiglia nella teoria della colpa (ibid., XXXII [1901], p. 1, pp. 141-191), ove il concetto romano è difeso contro censure ingiuste e valorizzato per la ricchezza dei suoi significati e delle sue applicazioni. Il limite di tempo all'usufrutto delle persone giuridiche (1902, ibid., XXXIV [1903], pp. 53-99), ove lo strumento della critica testuale si rende necessario, coessenziale alla argomentazione giuridica, per ristabilire la logica di un assetto sistematico.
Alla morte di F. Serafini, nel 1897, il F. prese la direzione (insieme con P. Cogliolo) della versione italiana del Commentario alle Pandette di F. Glück, fatica collettiva che coinvolgeva i migliori romanisti del tempo; tradusse e corredò di ulteriore commento la parte relativa a D. 11-7 (de religiosis et stimptibus funerum). Diresse (insieme con E. A. Porro, A. Vedani e altri) la Prima raccolta completa della giurisprudenza sul codice civile, disposta sistematicamente articolo per articolo, con l'aggiunta della bibliografia (in dieci volumi e un supplemento, Milano 1909-39).
L'impresa di maggior momento peraltro, promossa sul finire del secolo da V. Scialoja, fu l'edizione critica dei Digesto, da porre accanto a quella classica di Th. Mommsen (1870). Vi collaborarono C. Ferrini (fino alla scomparsa precoce nel 1902), S. Riccobono (che si dissociò poi per ragioni scientifiche) e P. Bonfante, che insieme allo Scialoia la portò a compimento nel 1931. Più rapida l'esecuzione di una prima parte (Digesta, libri IXXVIII, Mediolani 1908): la sola cui il F. poté dare il proprio apporto. Quel che è notevole, l'edizione aveva anche un intento pratico; destinata, per il suo formato tascabile, all'uso precipuo dei forensi.
Copiosi, importanti i riconoscimenti. Il 24 febbr. 1906, appena assunto alla carica di rettore della università (che tenne nel biennio 1905-07), ebbe una celebrazione solenne per il venticinquesimo anno del suo insegnamento. E gli furono consegnati sei volumi di studi in onore, con i contributi di. quasi novanta giuristi (e taluni stranieri) versati in ogni ramo della scienza del diritto. Della attività di rettore scrisse un consuntivo puntiglioso, e lo arricchì di proposte e critiche (Un biennio di rettorato, 1905-07, Napoli 1907). Da menzionare inoltre, al di fuori del mondo accademico, la presidenza dell'Ente autonomo Volturno.
Infine senatore del Regno, per designazione di G. Giolitti (17 marzo 1912). Riconoscimento tardivo, a ben guardare. Dovette avervi un peso la ostilità di F. S. Nitti (e forse il rifiuto orgoglioso dei F. di appartenere alla massoneria). In Senato erano stati due suoi maestri, A. Loru e F. Serafini. Vi ritrovò G. Carle (il vecchio maestro di Torino), V. Scialoja (dal quale sempre lo divise un sentimento di rivalità, seppure temperato dalla più alta stima) e gli amici carissimi P. E. Bensa e G. P. Chironi (entrambi nominati il 3 giugno 1908).
Spirito forte e libero. Avido di giustizia, com'è nell'anima dei sardi. Pervaso da fiera passione per la civiltà del diritto. Queste caratteristiche portò anche nella vita politica, senza tuttavia legarle ad un partito o un gruppo. E se gli valsero fama di "radicale", fu solo per un facile schematismo. È vero invece che fra i suoi amici a Napoli contava uomini della Sinistra liberale, pur diversi fra loro, come E. Pessina, G. Bovio, G. Semmola, R. Presutti, e ne condivideva talvolta le iniziative politiche.
Il 1912 segna un limite. L'impegno nei lavori parlamentari lo allontana da Napoli e dalla cattedra (nelle lezioni viene spesso sostituito da R. De Ruggiero). Si esaurisce la grande stagione scientifica, anche per il declinare delle energie intellettuali. L'ultima opera di vasto respiro si colloca su quel limite; accresciuta nelle due successive edizioni, raccoglie i frutti migliori della sua attività consulente: Pareri giuridici (Torino 1912, 1915, 1928). Trattano di diritto moderno (attraverso i casi più vari proposti dalla esperienza). Il romano ne sembra quasi assente, ma solo per i contenuti particolari. Presente invece, e mirabilmente, nel metodo, nell'equilibrio di teoria e prassi, nella forma antica e fascinosa del respondere. Autentico giurista romano, per vocazione di vita, il F. governa saldamente la prassi con la teoria scientifica, ma sempre espone la teoria al vaglio imperioso della prassi.
Nel dopoguerra le condizioni di salute peggiorarono. Preferì lasciare la cattedra, con un anticipo di cinque anni, nel 1923. Gli successe R. De Ruggiero, fra i pochi nella nuova generazione capace di congiungere in sé qualità insigni di romanista e di civilista. Lasciò anche Napoli definitivamente, ed il grande appartamento a piazza Carità, ove tanti studiosi, e soprattutto giovani, avevano trascorso ore operose, attingendo alla sua ricchissima biblioteca.
Membro della Commissione per la revisione dei codici, creata con regio decreto del 3 giugno 1924, nella prima sottocommissione (per il codice civile) presieduta da V. Scialoja, non poté darvi contributo alcuno. Ma la situazione politica proprio in quei giorni precipitava. Venne il delitto Matteotti. Fra i primi il F. appose la sua firma al manifesto di B. Croce. Ebbe parte nell'Aventino. Fu chiamato a presiedere l'adunanza costitutiva dell'Unione nazionale delle forze liberali e democratiche nel novembre 1924, e nel febbraio 1925 il Comitato per la difesa delle libertà civili di fronte alla magistratura. Tributo di onore, al quale egli non poté purtroppo corrispondere con un impegno fattivo. Solo una presenza stanca, dolente, nel ricordo di V. Arangio-Ruiz. Nondimeno orgogliosa, fervida. Poi, anche sulla vita politica, scese il silenzio.
Visse i suoi ultimi anni a Roma. Anni difficili, di grave afflizione. Aveva rifiutato sdegnoso di ritornare in Senato (ne avrebbe rifiutato anche la commemorazione: nella seduta del 13 nov. 1931 il presidente dichiarava di doversene astenere). Si ritrasse in una solitudine crescente. Morì a Roma il 31 ag. 1931.
Fonti e Bibl.: Quaranta volumi di memorie forensi, stampati nelle sole copie occorrenti all'autore, sono conservati, insieme con la ricchissima biblioteca, nello studio romano del professor Mario Are, nipote del F. in linea materna.
Necrologi e ricordi in E. Albertario, in Rivista di diritto civile, XXIII (1931), pp. 495 ss.; V. Arangio-Ruiz, in Archivio giuridico, CVIII (1932), pp. 110 ss.; Id., in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, III (1955), pp. 603 ss., e poi in Congresso giuridico naz. in mem. di C. F., Milano 1968, pp. 3 ss.; E. Levy, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung, LII (1932), pp. 561 s.; M. Lauria, in Labeo, I (1955), pp. 129 s., e poi in Studii e ricordi, Napoli 1983, pp. 743 s.; F. Maroi, in Temi emiliani, VIII (1931), pp. 3-39 (con elenco degli scritti), e poi in Scritti giuridici, II, Milano 1956, pp. 555 ss.; M. Rotondi, in Rivista di diritto privato, II (1932), pp. 63 s.; G. Scherillo, in Studia et documenta historiae et iuris, XIX (1953), pp. 440ss. Brevi informazioni in F. Loddo Canepa, I giuristi sardi del secolo XIX, Cagliari 1938, pp. 12, 59 s.; L. Mossa, Giuristi di Sardegna, in Scritti in on. di F. Mancaleoni, Sassari 1938, p. 537; D. Uras, L'avvocatura sarda, in IlPonte, VII (1951), pp. 1282 s.; A. Landuyt, Le sinistre e l'Aventino, Milano 1973, pp. 249, 317; R. Bonini, I romanisti e il I libro del codice civile, in Problemi di storia delle codificazioni e della politica legislativa, Bologna 1973, pp. 174 ss.; P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, pp. 55 s. Ampie (ma talora erronee) in P. Marica, La Sardegna e gli studi del diritto, I, Roma 1953 (interamente dedicato al F., con elenco degli scritti). Ottime informazioni ed elenco degli scritti (fino a quella data) in Ricordo delle onoranze a C. F. pel 25º anno del suo insegnamento, Napoli 1906 (qui, a p. 8, l'osservazione anonima sul valore delle note a Windscheid).
Analisi delle opere in P. Bonfante, rec. al I volume dei Concetti fondamentali del diritto ereditario romano, in Giurisprudenza italiana, LIII (1901), IV, cc. 280 ss.; E. Albertario, rec. a La teoria del negozio giuridico, in Rivista di diritto civile, (1910), pp. 138 ss., e poi in Studi di diritto romano, VI, Milano 1953, pp. 503 ss.; Id., rec. a Studi e questioni di diritto, in Monitore dei tribunali, LI (1910), pp. 600 s., e poi in Studi, pp. 513 ss.; F. Casavola, F. e la dottrina delle azioni popolari, in Labeo, I (1955), pp. 131 ss.; L. Bove, Nota di lettura alla ristampa degli Istituti commerciali, Napoli 1987, pp. IX ss. L'elogio di V. Scialoja sta in Procedura civile romana, Roma 1894, p. 520.