FEA, Carlo
Figlio di Giuseppe e di Margherita Guarini, nacque a Pigna, allora nella contea di Nizza (oggi in prov. di Imperia), il 4 giugno 1753 (la data esatta è in d'Ossat, che pubblica il certificato di battesimo, contenente anche le altre generalità e il nome dei padrini, i marchesi di Dolceacqua Carlo e Lucrezia Doria; molti biografi, a partire dal Visconti, riportavano la data di nascita del 2 febbraio).
Il F. compì la sua prima istruzione a Nizza, dove frequentò il ginnasio e il liceo. Poi, per gli studi universitari, si trasferì a Roma, ove poteva contare sull'aiuto di diversi zii, uno dei quali era rettore della Pia Casa degli orfani, un altro cantore nella cappella pontificia. Seguì i corsi di filosofia e teologia nel Collegio Romano e quelli di legge alla Sapienza, ove frequentò assiduamente le lezioni di storia romana del vallombrosano Rodesindo Andosilla. Laureatosi in utroque iure nel 1776 (Lodolini) e proseguiti gli studi di diritto con Francesco Mazzei (il rinomato giurista che qualcuno pretese fosse un altro suo zio), fu annoverato fra gli avvocati della Curia romana, ma, essendo ben presto attirato dalla passione per le antichità, non esercitò a lungo l'avvocatura. Nel 1781 fu ordinato sacerdote.
I biografi citano questa circostanza senza però poterla basare su una prova documentaria, affermando - incredibilmente - che il suo nome non compare negli elenchi delle ordinazioni conservati nell'Archivio del Vicariato di Roma (Ord. Soc., t. 40, pp. 115, 117). Il F. stesso annota in uno dei suoi scritti (Difesa di S. Maria..., Roma 1816, p. 16) di celebrare "la messa nella Chiesa di S. Maria della Pace nella famosa cappella di Agostino Chigi".
La sua prima opera fu giuridica (Vindiciae et observationes iuris..., Romae 1781); seguì una delle sue molte edizioni di opere di altri autori (Lo studio amico della religione, Roma 1782-1784, di T. V. Falletti). Una svolta decisiva nella sua carriera avvenne però nel 1783, quando il principe Sigismondo Chigi lo nomino assistente del suo bibliotecario E. Q. Visconti, per consentire a quest'ultimo di dedicarsi ai propri studi. Fu la fortuna del F., che ottenne così, al tempo stesso, un impiego intellettuale con enormi mezzi a sua disposizione e un potente mecenate. Redasse subito un Progetto per una nuova edizione dell'Architettura di Vitruvio (Roma 1783), primo di un lunghissimo elenco di autori dei quali meditò di pubblicare edizioni che poi non sarebbero mai apparse. Vi dedicò due anni di lavoro, in cui - secondo una pretesa del F. - avrebbe riscontrato oltre 500 lezioni varianti di Vitruvio.
La sua fama fu però assicurata dall'edizione, in tre volumi, della Storia delle arti del disegno presso gli antichi (Roma 1783-84) di J. J. Winckelmann, un'opera di una cura e di un'erudizione sorprendenti.
La prima traduzione italiana era stata effettuata dall'abate C. Amoretti e pubblicata a Milano nel 1779 dai monaci cistercensi di S. Ambrogio. Il F. la corresse confrontandola con l'originale tedesco e anche con una versione in lingua francese, vagliò tutte le note del Winckelmann, ne aggiunse molte proprie (distinte da una numerazione diversa) e incluse una traduzione della Architettura degli antichi dello stesso autore. In una nota (II, n. 221f) il F. fece sua la tesi di Giambattista Visconti, secondo cui il Discobolo scoperto sull'Esquilino nel 1781 (ora al Museo nazionale) non era l'originale di Mirone, ma una copia. Suo contributo originale fu la Dissertazione sulle rovine di Roma, III, pp. 267-416, in cui, sulla scorta di Pietro da Barga (1587), scagionò le invasioni barbariche e i cristiani dall'accusa di aver distrutto o danneggiato i monumenti dell'antica Roma e ne attribuì la responsabilità alle calarnità naturali, alla trascuratezza seguita al trasferimento della capitale in Oriente, alle guerre civili e ai saccheggi; al tempo stesso riconobbe le contraddizioni del Rinascimento, quando i monumenti venivano ammirati e nel contempo depredati.
L'edizione suscitò una polemica furibonda, condotta in modo aspro da entrambe le parti, con Onofrio Boni. Questi tacciò il F. di incompetenza, perché avvocato e semplice letterato, e gli rimproverò la preferenza accordata al Winckelmann rispetto ad architetti italiani quali S. Serlio, il Palladio e L. B. Alberti. Il F. replicò con la Risposta alle osservazioni del sig. cav. Onofrio Boni sul tomo III della Storia delle arti del disegno di Giovanni Winckelmann... (Roma 1786). A mo' di continuazione egli curò poi l'edizione degli scritti del pittore e critico tedesco A. R. Mengs (Opere..., Roma 1787), traducendone molti dal francese, dallo spagnolo e dal tedesco.
Nel 1789 curò a Roma un'edizione della Descrizione dei circhi particolarmente di quello di Caracalla di G. L. Bianconi, opera che si riteneva perduta fin dalla morte dell'autore (1781). L'argomento principale di questo trattato, lo studio del circo di Massenzio, venne però integrato dal F., che attribuì il circo a Caracalla. Un'altra edizione di scritti di altri autori, la Miscellanea filologica, critica e antiquaria (Roma 1790; un secondo volume, postumo, fu curato da Antonio Fea, ibid. 1836), rappresenta una delle più preziose opere del F., contenente documenti archivistici e memorie inedite, che erano per lui di grande utilità come puntello storico di molti dei suoi lavori (soprattutto le memorie di F. Vacca e F. Ficoroni) e mantengono ancora oggi un notevole valore.
Gli anni tra il 1790 e il 1796 videro la pubblicazione nella Antologia romana di una serie di lettere su diversi problemi, specialmente intorno agli scavi nel Lazio. Il F. dimostrò che il cosiddetto Arrotino (ora agli Uffizi) apparteneva al gruppo di Marsia e Apollo (Antologia romana, XVI [1790], p. 233). Ancor più significativamente egli presentò le sue prime osservazioni su un argomento per il quale doveva manifestare interesse per tutta la vita, il Pantheon (ibid., XVII [1791], p. 321): in questa comunicazione sostenne che l'edificio aveva avuto origine come parte delle terme di Agrippa. Fece inoltre un rapporto sugli scavi da lui diretti ad Ariccia nel 1791, insieme con l'ambasciatore di Portogallo, A. de Sousa. Nel 1792 accompagnò quest'ultimo a Napoli, dove lavorò nella Biblioteca Reale sui manoscritti di P. Ligorio. Nello stesso anno, con un'altra lettera. il F. fu il primo a pubblicare la scoperta del sito di Gabii antica fatta da Gavin Hamilton, con le iscrizioni ivi trovate; riferì poi sugli scavi del 1794 ad Ardea, diretti da Robert Fagan per il principe Augusto d'Inghilterra, nel corso dei quali furono rinvenute molte sculture.
Nel 1791 apparve per i tipi del Bodoni a Parma la prima delle sue tre edizioni dell'Opera di Orazio (2 ediz., Roma 1811; 3 ediz., ibid. 1827).
La prima edizione consistette quasi esclusivamente nella pubblicazione del testo, corredato dalle varianti attinte al gran numero di codici da lui consultati; mentre quelle successive furono accompagnate da un esauriente commento antiquario e vennero ristampate in Germania dal Wolff.
Le maggiori fatiche di questi anni furono però spese dal F. nella pubblicazione di alcune grandi opere di consultazione: una traduzione dal francese, con aggiunte del F. stesso, del Dizionario ragionato universale di storia naturale (5 voll., Roma 1791-92) di Valmont de Bomare e la riedizione del Dizionario universale economico-rustico (24 voll., Roma 1793-97) di G. Fontana e V. Pini.
Quando nel 1796 le armate rivoluzionarie francesi invasero lo Stato della Chiesa, occuparono le Legazioni e costrinsero Pio VI all'armistizio di Bologna, che prevedeva condizioni particolarmente onerose, il F. - nei mesi che precedettero il trattato di Tolentino (febbraio 1797), che doveva segnare la fine delle speranze di riscossa dei Papalini -partecipò attivamente all'aspra propaganda controrivoluzionaria. Scrisse prima la Parenesi agli Italiani (Petropoli 1796), denunciando l'ateismo e la tirannia dei Francesi, definendo il generale Bonaparte un "impresario atrabiliare", mettendo in guardia gli Italiani contro la rapacità degli invasori e facendo appello ai popoli delle Legazioni perché insorgessero a sostegno del proprio legittimo sovrano. A questo fece seguire il Motivo di conforto agli Italiani nel venturo anno MDCCXCVII (ibid. 1796), nel quale, dopo aver minuziosamente elencato tutti gli aiuti forniti in passato dagli Italiani agli Ungheresi e all'Impero, particolarmente contro i Turchi, incitò i beneficati a ripagare il debito. A lui è attribuibile un terzo libello, mai riconosciuto dal F. nelle sue bibliografie, Lo sprone d'oro al patriottismo romano (s. n. t.), in cui invitava l'aristocrazia romana a ricambiare, mediante generosi contributi all'Erario, i benefici ricevuti dallo Stato in tempo di pace.
Dopo l'assassinio del generale L. Duphot (28 dic. 1797), il 10 febbr. 1798 le armate francesi al comando del generale L. Berthier occuparono Roma e il 15 febbraio fu proclamata la Repubblica; cinque giorni dopo Pio VI fu costretto a lasciare la città. Coinvolto in questi avvenimenti il F., esiliato da Roma come tutti gli ecclesiastici "stranieri" (aprile 1798), si stabilì per breve tempo a Firenze: rientrato a Roma, nel novembre, mentre le truppe napoletane si avvicinavano alla città, fu imprigionato come controrivoluzionario. Nuovamente arrestato dopo la partenza dei Napoletani, nel marzo 1799 fu condannato all'esilio in Dalmazia. Il suo più noto imprigionamento in Castel Sant'Angelo avvenne, però, dopo la ritirata dei Francesi, quando fu arrestato per un'insussistente accusa di giacobinismo e detenuto per alcune settimane fino al processo che si concluse con una piena assoluzione.
In questi anni tumultuosi il F. aveva trovato il tempo per prender parte a una disputa dai toni accesi con Nicola Ratti sulla data di fondazione di Genzano e sui rapporti di questa con Ariccia (Lettera al sig. ab. N. Ratti intorno alla di lui Storia di Genzano..., Roma 1798). Egli aveva pubblicato, inoltre, un lungo scritto su Virgilio (Saggio di nuove illustrazioni filologico-rustiche sulle Egloghe e Georgiche di Virgilio, ibid., anno VII repubbl., 1799), ricco di interpretazioni delle Georgiche basate sulla propria conoscenza dell'agricoltura italiana.
Con la Restaurazione del governo papale sotto Pio VII (1800), il F. venne confermato commissario delle Antichità (10 apr. 1801), posto che egli aveva occupato dall'inizio del 1801 e che doveva occupare per il resto della vita, mantenendolo più a lungo di qualsiasi altro titolare. L'ufficio, istituito da Paolo III nel 1534, aveva annoverato tra i predecessori del F. il Winckelmann, G. B. Visconti e il figlio di questo Filippo Aurelio.
Non v'è dubbio che la caduta in disgrazia della famiglia Visconti e l'influenza del protettore del F., Agostino Chigi, abbiano favorito tale scelta. L'unica allusione fatta dal F. alla propria nomina colloca la data sul principio del 1800 (Roma, Bibl. Angelica, ms. 1601, f. 300). Il suo stipendio mensile era di 20 scudi, oltre a 2 scudi al giorno nel caso di trasferte extraurbane; egli aveva, inoltre, a disposizione una carrozza, un assistente (suo nipote Luigi Calderari) e due assessori per stimare le opere d'arte che dovevano essere esportate. Subito dopo la nomina egli, infatti, per poter finanziare la manutenzione dei monumenti e ostacolare l'esportazione di opere d'arte, fece introdurre una tassa del 15% sul valore dei quadri antichi e del 18% sul valore delle sculture esportate.
Nel maggio 1801 il F. fu nominato presidente del Museo Capitolino, con un mensile supplementare di 7 scudi, succedendo a E. Q. Visconti (che era fuggito a Parigi). Mantenne questo posto fino alla riorganizzazione francese del i 809, dalla quale data rimase come presidente onorario fino alla morte. Sempre nel 1801 succedette allo stesso Visconti anche nell'ufficio di prefetto della Biblioteca Chigiana e da allora in poi abitò in un appartamento al terzo piano di palazzo Chigi; in ragione della sua funzione, il F. esercitava anche l'ufficio di cappellano nella cappella Chigi di S. Maria della Pace.
Una delle prime iniziative archeologiche prese dal F. fu il sopralluogo a Ostia, sul quale egli riferì nella sua Relazione di un viaggio ad Ostia (Roma 1802). Ben più significativo fu il chirografo pontificio del 10 ott. 1802 sulle antichità, che doveva molto al nuovo commissario.
Al pari di tanti editti precedenti, esso vietava ogni esportazione di reperti antichi dagli Stati pontifici, salvo speciale licenza, e proibiva qualsiasi loro danneggiamento. Tutti gli oggetti antichi in mani private dovevano essere dichiarati e ogni nuova scoperta denunciata; tutti gli scavi dovevano essere preventivamente autorizzati: venivano assegnati 10.000 scudi annui per acquisti a favore dei musei e per la promozione delle belle arti. Con lo stesso editto veniva nominato ispettore generale di tutte le Belle Arti per Roma e lo Stato pontificio lo scultore Antonio Canova.
Sebbene fossero coinvolti vari architetti, il nuovo impulso dato all'attività archeologica, dentro e attorno al Foro, doveva molto al F.: l'arco di Settimio Severo (1803: G. Camporese e T. Zappati), l'arco di Costantino (1805: Zappati), lo sterro dell'area del Colosseo e la costruzione dello sperone (1805-1808: R. Stern, Camporese e G. Palazzi). Il F. stesso, con Giuseppe Valadier, diresse scavi sull'angolo a destra della facciata del Pantheon (1804), impiegando dei condannati ai lavori forzati (L'integrità del Pantheon di Menenio Agrippa, Roma 1807).
Le sue tesi, fatte valere in varie polemiche, erano semplici: l'edificio era stato concepito come un complesso unico (opinione sulla quale si tende ancora a concordare) e il suo autore era stato Menenio Agrippa (a partire dagli anni '90 dell'Ottocento, però, il Pantheon, nella sua versione attuale, è stato riconosciuto come opera del periodo di Adriano).
Nel 1805 il F. sfrattò un negozio di barbiere dalla base della colonna di Marco Aurelio e ne liberò le fondamenta. Nel 1806 diresse gli scavi di S. Costanza, dimostrando che quello era stato veramente il luogo della sepoltura della santa e che accanto a lei erano stati sepolti altri membri della sua famiglia. Tutti questi scavi erano stati motivati dall'intenzione di preparare una nuova edizione di Les édifices antiques de Rome di A. Desgodetz.
Il Pantheon fu oggetto di uno dei più noti interventi compiuti dal F. a difesa dei monumenti: il processo contro Cuccumos (1805-1807), col quale egli tentò di far rimuovere un grande forno situato a destra della Rotonda mentre erano in corso lavori di restauro e ampliamento di esso. Poiché questo era stato autorizzato dal papa, il F. perse la causa, ma uno dei risultati fu il suo grande "manifesto" Dei diritti del Principato sugli antichi edifizj publici sacri e profani... (Roma 1806), in cui proclamò che la S. Sede era "la continuatrice ed erede dei patrimonio edilizio del Impero Romano". Nel 1809 egli dovette difendere la sua stessa chiesa S. Maria della Pace contro le rivendicazioni presentate dai creditori dei canonici regolari lateranensi per debiti da questi contratti durante le crociate.
Il 2 febbr. 1808 le truppe francesi, al comando del generale S.-A. Miollis, occuparono nuovamente Roma, dando inizio ad una dominazione francese che doveva durare cinque anni e che condusse alla prigionia e deportazione di Pio VII. Il F. continuò a occupare il suo posto di commissario, anche se i Francesi istituirono nuovi enti per sovrintendere all'archeologia e al piano regolatore della città. I nuovi regolamenti relativi alle antichità, pubblicati il 20 dic. 1809 e 9 luglio 1810, dovettero molto al Fea. Questi era divenuto membro della Commission des monuments e consigliere del Miollis (il cui ambiente culturale il F. frequentava), di J.-M. de Gerando, del prefetto C. de Tournon. Insieme con il Valadier il F. sovrintese allo sgombero del tempio di Vesta nel foro Boario (1809-10) e della Domus aurea (1810). Rifondata nel 1810 l'Accademia di archeologia, egli fu accolto fra i soci fondatori e ne ideò l'emblema e il motto ("In apricum proferret"). In una relazione, della quale diede lettura il 4 ottobre di quell'anno, dimostrò che il tempio rotondo del foro Boario non poteva appartenere a Vesta, il cui tempio si trovava nel foro Romano, e lo attribuiva invece ad Ercole. Nel 1810 non riuscì a ottenere la cattedra di storia e mitologia presso l'Accademia di S. Luca, assegnata a G. A. Guattani. In un'altra relazione letta all'Accademia di archeologia il 10 sett. 1812 (Osservazioni intorno alla celebre statua detta di Pompeo..., Roma 1812) il F. dimostrò, in polemica con il Guattani, che la cosiddetta statua di Pompeo della raccolta Spada non aveva alcuna rassomiglianza con Pompeo Magno, e che in realtà la testa non apparteneva al corpo, che egli attribuiva invece a Domiziano: tale tesi venne universalmente accolta soltanto un secolo dopo.
Il 1813 fu uno degli anni più attivi nella vita del Fea. In un'opera divisa in due parti, che recano rispettivamente le date del 25 gennaio e del 18 febbraio (Osservazioni sull'arena e sul podio dell'Anfiteatro Flavio... discusse e confutate..., ibid. 1813), rispose alla relazione presentata all'Accademia da L. Re e P. Bianchi sulla scoperta dell'arena nel Colosseo. Con ironico atteggiamento di superiorità il F. cercò di confutare la loro ipotesi che l'arena fosse sostenuta dai muri scoperti negli scavi e pretese invece - a torto - che essa fosse situata a livello del terreno e che tali muri fossero di epoca più tarda. In seguito al ritrovamento di molte nuove iscrizioni nel Colosseo (di Lampadius e Basilius) nel foro Traiano e nel foro Romano (in particolare quella della colonna di Foca), il F. pubblicò due brevi opere per metterle a disposizione di tutti gli studiosi. Le unanimi confutazioni delle sue opinioni sul Colosseo diedero origine alle Ammonizioni critico-antiquarie... a vari scrittori del giorno (Roma 1813), rivolte in particolare allo spagnolo J. F. Masdeu, continuando un conflitto che presto degenerò in una delle più rissose polemiche della storia dell'erudizione classica.
Dopo la restaurazione pontificia (maggio 1814), il F. ebbe presumibilmente minori difficoltà della maggior parte di quanti avevano collaborato con il governo francese nel provare la sua lealtà alla S. Sede e nel farsi perdonare. Ad ogni modo egli fornì poco dopo una delle sue abituali dimostrazioni di ortodossia nella Nullità delle amministrazioni capitolari abusive (Roma 1815), contestando la legalità dell'interferenza del potere statale nell'amministrazione dei beni dei vescovadi (soprattutto riguardo ai trasferimenti), particolarmente frequente in Francia. Dal nuovo regime il F. fu nominato tra i primi membri della Commissione generale consultiva di belle arti (1816), insieme con A. Canova (presidente), B. Thorvaldsen, Antonio D'Este e F. Visconti (segretario).
La mole di lavoro era enorme: si trattava, tra l'altro, di controllare le domande di autorizzazione per l'effettuazione di scavi e di stimare i reperti offerti in vendita ai musei. Il Canova intanto aveva negoziato il ritorno in Italia delle opere d'arte portate via dai Francesi. Sorse una disputa se esse dovessero essere ricollocate nei loro siti originari o raccolte in musei. li F. era strenuamente a favore della prima soluzione: "tutta Roma è, e deve essere una galleria", mentre i musei erano angusti e malsicuri. Ma la sua tesi fu respinta e i quadri furono raccolti nella Pinacoteca Vaticana.
L'anno 1816 diede avvio a una nuova fase di intensa attività archeologica del Fea. Egli riprese lo scavo del tempio dei Dioscuri, iniziato sotto i Francesi, mettendone a nudo i gradini e risolvendo una volta per tutte la questione della sua pianta: ottastilo, con undici colonne su entrainbi i lati. Fatto estremamente importante, il F. identificò con sicurezza i resti, precedentemente detti di Giove Stator, come quelli del tempio dei Dioscuri (in precedenza solo il Piranesi aveva sostenuto questa identificazione). Il lavoro fu finanziato dall'ambasciatore francese, il conte, poi duca de Blacas, che voleva tracciare una pianta particolareggiata di tutti gli edifici esistenti dal Campidoglio fino al Colosseo. Una delle ragioni di questo lavoro fu anche la rimozione dal foro del famoso abbeveratoio, per fame una fontana al Quirinale. Venne scavata la cosiddetta grotta di Egeria sulla via Appia e il F. poté dimostrare che la statua che vi si trovava era maschile, e non era altro che la personificazione della fonte, e che la grotta era artificiale. Un resoconto di tutte queste nuove scoperte fu presentato nel Prodromo di nuove osservazioni e scoperte... (Roma 1816), nel quale egli concludeva attribuendo a Raffaello gli affreschi della cappella Chigi di S. Maria della Pace e respingendo le supposizioni dei Vasari circa l'influsso di Michelangelo (era l'inizio di un costante interesse per il pittore urbinate). Tra la fine del 1816 e l'inizio dell'anno successivo vennero alla luce in prossimità dei Dioscuri vari frammenti dei fasti consolari capitolini, e il F. invitò B. Borghesi a pubblicarli. Egli stesso li ripubblicherà nel 1820 (Frammenti di fasti consolari e trionfali..., Roma), pretendendo di aver fatto delle copie più esatte. Nello stesso anno, sotto la sua supervisione, vennero montati i nuovi frammenti accanto ai vecchi nel Museo Capitolino.
Dal 1817 al 1819 il F. aiutò Elisabeth Hervey, duchessa di Devonshire, e il suo architetto, David Akerblad, nei nuovi scavi della colonna di Foca e nel 1817 collaborò con l'ambasciatore di Portogallo, conte D.A. de Sousa Continho Funchal negli scavi nella zona sottostante il Campidoglio, che portarono alla scoperta del clivo capitolino (aprile) e del vero tempio della Concordia (maggio). Da ciò ebbe inizio una polemica molto accesa con Stefano Piale sull'identificazione del tempio di Saturno (allora detto della Concordia e ribattezzato dal F. con il nome di Juno Moneta) e di quello di Vespasiano (a quel tempo detto di Giove Tonante). Questa intensa attività di scavo culminò in una tensione nei rapporti con il cardinale camerlengo, B. Pacca, il quale accusò il F. di concedere licenze senza la sua autorizzazione. Per giustificarsi il F. si appigliò alla necessità di curare la nuova edizione del Desgodetz con il patrocinio del papa e al fatto che la maggior parte delle spese era sostenuta dai mecenati.
Nel gennaio 1819 il F. lesse all'Accademia una relazione in cui difese Gregorio Magno dall'accusa di aver gettato nel Tevere tutti i resti pagani di Roma (Novelle del Tevere. Discorso particolarmente in difesa di s. Gregorio Magno..., Roma 1819), difesa fondata sui lavori di dragaggio del fiume iniziati nell'anno precedente da una grande macchina, la "Medusa", appartenente a una società privata: nulla d'importante fu trovato, tranne un cippo sepolcrale di certa Cornelia vicino a Fidene (estate 1819), che il F. fece confiscare poiché era stato ripescato fuori dai limiti stabiliti dalla licenza. Nell'estate successiva la "Medusa" affondò.
Nel 1819 apparve, inoltre, una delle opere più utili del F., la Nuova descrizione de' monumenti antichi... (Roma), una guida turistica di maneggevole formato, piena di note dettagliate sulla basilica di S. Pietro, sul Campidoglio e sul foro.
Stendhal la fece oggetto del proprio scherno, perché non citava alcuno scavo condotto dai Francesi, insinuando che, altrimenti, l'autore non avrebbe ottenuto il permesso di pubblicarla (Promenades, 15 giugno 1828). Lo stimolo a scriverla era nato nel F. dall'aver fatto da guida all'imperatore Francesco I durante la visita da questo compiuta a Roma (2 apr.-11 giugno 1819).
Nello stesso anno il F. stilò il testo di un editto per impedire il deperimento e la distruzione dei libri e dei manoscritti e fu impegnato in una controversia, senza esclusione di colpi, con Antonio Nibby: oggetto ne era l'identificazione della basilica di Massenzio, modificata da Costantino e a questo attribuita. Il Nibby era stato il primo a riconoscere il monumento, ma il F., cercando di porlo in ridicolo con atteggiamento di superiorità, sostenne la denominazione tradizionale di tempio della Pace di età flaviana (La basilica di Costantino sbandita dalla Via Sacra..., Roma 1819). In questo periodo invece, per i suoi tentativi di impedire l'esportazione del Fauno Barberini in Baviera, il F. cadde in disgrazia presso il papa.
Nel 1820 il duca de Blacas rivolse il proprio interesse al rilevamento topografico del tempio di Venere e Roma, sotto la direzione dei F., dimostrando che la ricostruzione del Palladio era del tutto errata. Si cominciarono ad avanzare proposte per risolvere il problema delle fosse aperte intorno ai principali monumenti, rimuovendo la terra che si era accumulata intorno. E, poiché la Commissione delle belle arti non approvò questo progetto, non attendendosi nuove scoperte, il F. la criticò aspramente.
L'apertura della tomba posta sotto l'altare della basilica inferiore di S. Francesco ad Assisi (dicembre 1818), con il ritrovamento di resti umani che si attribuivano al santo, spinse quindi il F. a pubblicare uno scritto di S. Ranghiasci (Descrizione ragionata della sagrosanta patriarcal basilica e cappella papale di S. Francesco, Roma 1820), di cui egli compose soltanto un'introduzione in cui fece un'appassionata difesa dell'autenticità della maggior parte delle tombe dei santi sulla base della tradizione e venerazione continua ad esse tributata.
Il 7 apr. 1820 venne emanato l'editto del cardinale B. Pacca sulle opere d'arte, un ulteriore tentativo di salvaguardare il patrimonio culturale di Roma.
La sua gestazione era stata travagliata per le lotte di competenza sorte all'interno della Curia. Esso affermò la piena giurisdizione del camerlengo in materia. I diciassette articoli dell'editto del 1802 erano diventati ora sessantuno: per lo più veniva sviluppata in maniera più dettagliata la precedente normafiva, ma importanti innovazioni riguardavano le competenze della Commissione delle belle arti e l'elevazione della tassa d'esportazione delle opere artistiche al 20%. Il F. era contrario alle innovazioni del nuovo editto e al tempo stesso egli, inspiegabilmente, con grande disappunto del Pacca, incoraggiò i conservatori di Roma nella pretesa di conservare i loro diritti sui monumenti cittadini.
Nel 1820 vide la luce una raccolta di articoli già pubblicati dal F. su Notizie del giorno e sul Diario negli anni 1815-20 (Varietà di notizie economiche, fisiche, antiquarie sopra Castel Gandolfo Albano Ariccia Nemi loro laghi ed emissarii. Sopra scavi recenti di antichità in Roma, e nei contorni..., Roma).
In una conferenza alla Accademia, l'11 genn. 1821, il F. riferì sulle terme di Tauro, da poco scoperte presso Civitavecchia, sul tempio di Venere e Roma (con un lungo attacco ad A. Uggeri) e sul foro di Augusto, che egli pretese fosse quello di Domiziano ritenendo che quello di Augusto si trovasse sotto S. Martina (Ragionamento... sopra le Terme Taurine..., Roma 1821). Nel giugno di quell'anno dette avvio a una serie di scritti apologetici del potere papale, che si inserivano nell'offensiva aperta da Roma contro il gallicanismo: nacque così il Saggio di nuove osservazioni sopra i decreti del concilio di Costanza (ibid. 1821), che confutava la tesi della superiorità del concilio ecumenico sul pontefice, fondata sulla seconda proposizione della quarta sessione di quel concilio; essa - sosteneva il F. - era valida solo in tempo di scisma, quando non esisteva un papa legittimo. Sulla stessa linea, l'anno seguente nella Difesa istorica del papa Adriano VI (ibid. 1822), difese la tesi dell'infallibilità pontificia, sostenendo che gli scritti contrari di Adriano VI (più volte polemicamente utilizzati da giansenisti e gallicani), pubblicati prima della sua elevazione al soglio, non erano riferibili alle affermazioni papali ex cathedra.
Nel 1822 la Commissione delle belle arti decise che i lavori per rimettere in luce la valle del foro (erano stati presentati vari progetti, tra cui quelli del Valadier e dell'Uggeri insieme con il Canina) dovessero cominciare dal Tabulario e richiese una sistemazione dei frammenti architettonici del tempio della Concordia, contro la quale il F. protestò vibratamente. Egli diede però piena approvazione alla costruzione dello sperone del Valadier sul Colosseo, i cui lavori ebbero inizio nel giugno. In questo mese lesse all'Accademia la relazione storica Sopra quattro basiliche romane dette costantiniane (in Atti dell'Accademia romana di archeologia, III [1822], pp. 73 ss.). I suoi legami con la famiglia Chigi lo spinsero a pubblicare le Notizie intorno Raffaele Sanzio da Urbino ed alcune di lui opere (Roma 1822, già lette all'Accademia tra il dicembre 1821 e il gennaio 1822), il cui interesse principale resta nell'elenco - estratto dagli archivi - degli architetti che avevano lavorato nella basilica di S.Pietro; l'opera termina con un confronto provocatorio tra Giulio II e Leone X come promotori dell'arte del Rinascimento, nel quale egli dà la preminenza assoluta al primo. Sotto la direzione del F. vide anche la luce la tanto attesa nuova edizione bilingue (francese e italiano) di Les édifices antiques de Rome del Desgodetz (ibid. 1822) corredata di 137 tavole (il Supplemento, con le correzioni rese necessarie da successive scoperte, sarebbe uscito nel 1843 ad opera del Valadier e del Canina). Nel 1822 iniziò uno dei processi più celebri intentati dal F., quello contro la famiglia Giorgi, la quale nel 1811-12 aveva scoperto le rovine di Veio: il commissario sostenne con successo che gli scavi avevano esorbitato dalle condizioni stabilite nella licenza, in quanto effettuati su terreno appartenente alla Camera apostolica (le Vignacce) e che, quindi, i reperti dovevano essere confiscati (le sculture si trovano ora nei Musei Vaticani).
Mentre collaborava con il duca di Blacas negli scavi intorno ai templi di Saturno e Vespasiano, il F. continuava l'attività erudita apologetica contro le tesi conciliari (Pius II P. M. a calumniis vindicatus, Romae 1821 che comprendeva la prima edizione dell'Epistola retractationis, in cui il Piccolomini sconfessava l'azione da lui svolta al concilio di Basilea contro Eugenio IV). Tornò poi al suo primo interesse per Gabii (Discussione... sulla città di Gabio, s. l. né d. [1824]), distinguendo con precisione il suo lago dal molto più piccolo Regillo, nei pressi di Tuscolo, illustrando dettagliatamente la storia della zona dal XII secolo sulla base di una vasta ricerca d'archivio e di una profonda familiarità con la storia locale civile ed ecclesiastica, e proponendo rimedi per risanare il lago (poi prosciugato nel 1838).
Il primo contributo di rilievo a un problema che d'ora innanzi sarà caro al F. fu la relazione presentata in luglio all'Accademia (Alcune osservazioni sopra gli antichi porti d'Ostia, ora di Fiumicino..., Roma 1824).
Egli dimostrò che il Tevere nell'epoca repubblicana aveva una sola bocca, che Claudio aveva costruito il porto due miglia più a nord e che Traiano aveva aggiunto la darsena e un canale dal fiume al porto, la qual cosa - secondo il F. - era stata un errore perché aveva provocato l'insabbiamento di tutto il porto. Egli illustrò pure con precisione la storia successiva del porto e i vari progetti poco pratici e costosi per la costruzione di ulteriori canali e l'estensione interminabile delle passonate, proponendo di riaprire il porto e ripopolare Ostia.
In quell'anno la diatriba sulla fossa traiana culminò in un'altra accesa polemica con L. Linotte (La fossa Traiana confermata al sig. cav. Ludovico Linotte..., Roma 1824), che si placò soltanto con la morte dei due rivali. Lo scritto del F. spinse il Nibby e il Canina a pubblicare in proposito osservazioni molto più approfondite.
Il F. esaurì il suo interesse per le primitive basiliche cristiane con una relazione sulla basilica di S. Paolo (Aneddoti sulla basilica ostiense di S. Paolo riuniti nel 1823, dopo l'incendio..., Roma 1825), letta all'Accademia il 27 genn. 1825, nella quale ne illustrò la storia fino al secolo XIV. La relazione era, in effetti, un appassionato appello affinché la basilica fosse ricostruita esattamente com'era, senza cedere alle ambizioni e ai capricci degli artisti; per il motivo che "le belle arti servono alla religione, non la commandano". Tra.marzo e giugno del 1825 J.-F. Champollion visitava Roma, con l'intenzione di pubblicare con l'aiuto del F. i testi dei geroglifici dei tanti obelischi egizi esistenti nella città, progetto che era stato procrastinato a causa delle altre numerose iniziative del grande egittologo e che fu poi impedito dalla sua morte tragicamente prematura. Nell'aprile il F. scoprì la sorgente da lungo tempo sconosciuta dell'acqua di Mercurio, in prossimità di S. Giorgio in Velabro.
Frattanto, con l'ascesa al soglio di Leone XII, che segnava una ripresa dello zelantismo e maggiore spazio per l'ultramontanismo, il F. riprendeva la pubblicazione di scritti apologetici del potere papale con i due opuscoli Riflessioni storico-politiche sopra la richiesta del ministro dell'Interno di Parigi ai vescovi ed arcivescovi della Francia di far insegnare nei loro seminarj le IV proposizioni dell'Assemblea del clero gallicano nel 1682 e Ultimatum per il dominio indiretto della Santa Sede apostolica sul temporale de' sovrani (entrambe Roma 1825), che suscitarono vibrate proteste diplomatiche da parte delle potenze europee.
Del 1826 sono due pareri legali, il primo (Parere sull'aumento delle pigioni delle case di Roma, Roma 1826), in difesa degli inquilini, per lo più artigiani e bottegai, contro l'esosità dei proprietari, che con l'anno santo del 1825 avevano riscoperto l'utilità di affittare stanze ammobiliate ai pellegrini; il secondo, contro il conte di Velo, che due anni prima aveva scoperto il famoso mosaico degli atleti nelle terme di Caracalla e ne aveva reclamato la proprietà; il F., anche contro la posizione della Commissione delle belle arti, combatté queste pretese negando che il mosaico fosse una decorazione mobile non facente parte dell'architettura. Il F. vinse la causa e il mosaico venne trasferito al Laterano (ora si trova nel nuovo Museo Vaticano).
L'alluvione di Tivoli del 16 nov. 1826, che quasi spazzò via la città, spinse il F. a scrivere un saggio sui resti romani e sui disastri provocati dalle continue manomissioni delle cascate (Considerazioni... sul disastro avvenuto in Tivoli..., Roma 1827).
Ripresi i lavori nel foro Romano, inaugurati da Leone XII il 27 sett. 1827, con l'obiettivo di riportare l'intera area al livello esistente nell'età romana, il F. pubblicò una Indicazione del Foro Romano e sue principali adjacenze... (Roma 1827). una mappa corredata da una legenda di otto pagine. I lavori, progettati dal Valadier e diretti dal Nibby, ebbero inizio al Colosseo, con costo enorme, nel tentativo di trovare gli antichi canali di scolo. Ne nacquero controversie interminabili: il F. poté poi asserire che, fino al 1829, si erano sprecati 40.000 scudi su uno stanziamento totale di 50.000.
Nel gennaio 1828 presentò all'Accademia una relazione sul mosaico di Palestrina (L'Egitto conquistato da Cesare ottaviano Augusto, rappresentato nel celebre mosaico di Palestrina..., Roma 1828), Oggi attribuito al II secolo a. C.
Nel 1829, in occasione della fondazione dell'Istituto di corrispondenza archeologica, il F. fu il solo italiano accolto fra i cinque soci fondatori: "C'était lui dont la présence animait nos réunions et leur imprimait une sanction qui fut sentie par tous" (Bunsen, 1829).
Un tema dominante negli ultimi anni del F. fu il tentativo di formulare una nuova interpretazione della storia romana, nella quale il concetto di provvidenza aveva un'importanza preminente. Nelle Nuove osservazioni... sopra la Divina Commedia (Roma 1830), originariamente presentate all'Accademia, egli sostenne che Dante, nella Commedia, si era lasciato trascinare da pregiudizi ghibellini, ma nella Monarchia e nel Convito aveva rivelato una comprensione molto più profonda della storia romana come preparazione al cristianesimo. Secondo il F., che rovesciava gran parte delle tesi della storiografia illuministica, i due personaggi più grandi della Roma antica erano stati Romolo e Augusto; dopo il declino dell'Impero romano, il potere era tornato a Roma e all'Italia nel 772, dopo il crollo dell'esarcato, con la nascita del dominio dei papi anche nel temporale.
Di quest'anno sono diversi pareri legali: l'Esame storico-legale-idraulico dei sifoni impiegati nei condotti dell'acqua Paola (Roma 1830), con cui il F. - su incarico del presidente delle Acque - dimostrava l'illegalità della pretesa di alcuni aristocratici di attingere acqua dai condotti pubblici; il Compendio di ragioni per la ill.ma Comunità di Frascati sulla controversia che la medesima sostiene coll'eccellentissimo signor principe Aldobrandini intorno alla proprietà libera dell'acqua che ivi serve alle pubbliche fontane ed altri usi della città... (ibid. 1830), contro la pretesa degli Aldobrandini di revocare la donazione dell'approvvigionamento idrico di Frascati; il Voto... o sia Compendio di ragioni per la R. C. A. nella causa Alban. Restaurationis Moenium colla Comunità di Nettuno (ibid. 1830), in cui demoliva le ragioni, già accolte dalla Sacra Rota, in favore della richiesta della città di Nettuno di addossare alla Camera apostolica le spese di riparazione delle antiche mura della città, in quanto questa doveva considerarsi fortezza dello Stato; la Storia delle saline di Ostia (ibid. 1831), in cui, pur ammettendo la proprietà statale delle saline, che, in seguito a un'inondazione, avevano causato danni ai terreni dell'affittuario Giuseppe Vitali, ne respingeva la richiesta di un risarcimento di 40.000 scudi a carico della Camera apostolica, in ragione del principio che "il diritto pubblico deve prevalere al privato".
L'interesse del F. per le antichità etrusche era nato fin dal tempo della sua edizione dei Winckelmann, ma il suo contributo personale era rimasto piuttosto limitato fino a quando non avvennero i cospicui ritrovamenti di ceramiche a Vulci (1828). Respingendo lo scetticismo di B. G. Niebuhr, egli sostenne con fervore l'immigrazione dei Lidi provenienti in Italia dall'Asia, ma distinse questi dagli Etruschi. Pertanto insistette sul fatto che le ceramiche scoperte (che oggi sono individuate come attiche a figure rosse e nere) dovessero essere definite come "lidio-etrusche" (Storia dei vasi fittili..., Roma 1832).
Allo stesso modo in cui aveva esortato a ripristinare il porto romano alle foci del Tevere, il F. fornì valide ragioni per il ripristino del porto neroniano di Anzio, nuovamente in contrasto con il Linotte (Cenni di storia del Porto neroniano nella città d'Anzio e modo facile di ristabilirlo, Roma 1832). Nello stesso anno combatté la proposta fatta dall'architetto P. Belli, nel pieno della ricostruzione di S. Paolo, di rialzare il pavimento della basilica di oltre mezzo metro per proteggerlo dalle inondazioni del Tevere (Riflessioni sopra l'innalzamento che si è progettato del pavimento della basilica di S. Paolo, ibid. 1832). La demolizione con esplosivi della torre Cartularia, vicino all'arco di Tito (1830), spinse il F. a presentare una relazione all'Accademia nel maggio 1832, nella quale ipotizzò che le fondamenta della torre facessero parte del complesso neroniano che si estendeva dal Palatino all'Esquilino. Nel settembre, come preludio a nuovì scavi nel foro Traiano, egli rivendicò la zona come proprietà statale, basandosi su una sterminata legislazione dell'età romana (I reclami del Foro Traiano..., ibid. 1832). Ma la più importante pubblicazione del 1832 fu la Storia delle acque antiche sorgenti in Roma perdute, e modo di ristabilirle. Dei condotti antico-moderni delle acque Vergine, Felice, e Paola e loro autori... (Roma), quasi trecento pagine di documenti in 4º.
Nel 1833 sostenne giustamente l'identificazione di Bernardo Quaranta del mosaico trovato a Pompei, nella casa del Fauno, come raffigurazione della battaglia di Isso. Il suo interesse di lunga data per il Pantheon e per Raffaello, la cui tomba fu aperta in quell'anno, lo spinse a scrivere un resoconto dell'esumazione (Per la invenzione seguita del sepolcro di Raffaello Sanzio, compendio di storia e di riflessioni, Roma 1833). Sollecitò poi il ripristino della via Appia (Osservazioni sul ristabilimento della via Appia da Roma a Brindisi per il viaggio ad Atene e nuovo mezzo di seccare le Paludi Pontine per le quali passa quella via, ibid. 1833). Nel 1834, dopo aver rivendicato la sovranità papale sulle Valli di Comacchio e sulla Repubblica di San Marino (Il diritto sovrano della Santa Sede sopra le Valli di Comacchio e sopra la Repubblica di San Marino..., ibid. 1834), partecipò al processo intentato da Lorenzo Montani per ottenere il riconoscimento di figlio naturale del duca Sforza Cesarini: il F. sostenne le ragioni del duca contro il Montani (Parere medico-legale…, ibid. 1834), ma il tribunale emise un verdetto favorevole a quest'ultimo. L'ultima opera del F. fu una riaffermazione delle sue idee sul ruolo provvidenziale dell'Impero romano (Considerazioni sull'Impero romano da Romolo ad Augusto, e da questo per l'epoca cristiana fino all'anno 757, ibid. 1835), che - per l'impegno a sostenere il primato di Roma - poteva servire come base della dottrina neoguelfa.
Il F. morì a Roma nella notte fra il 17 e il 18 marzo 1836. Il suo funerale fu celebrato a spese dello Stato in S. Lorenzo in Lucina, alla presenza dei membri dell'Accademia di archeologia.
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