CARLO FELICE, duca del Genevese, poi re di Sardegna
Undecimo figlio di Vittorio Amedeo III e di Maria Antonia Ferdinanda dei Borboni di Spagna, nacque a Torino il 6 aprile 1765. Nel 1798 seguì Carlo Emanuele IV in Sardegna e, quando questi e il duca d'Aosta, dopo le vittorie austro-russe, tornarono nel continente, assunse, come viceré, il governo dell'isola, che tenne per obbedienza, poiché preferiva la vita quieta e solitaria, dal settembre 1799 al febbraio 1806 con non comune accorgimento politico, con severa giustizia, con viva sollecitudine per i bisogni di quelle popolazioni ch'egli amava e che lo riamarono sopra ogni altro principe della famiglia reale. Nell'aprile 1807, sperando di dare un erede alla dinastia - il nuovo re Vittorio Emanuele I non aveva figli maschi ed erano morti intanto il duca di Monferrato (2 sett. 1799) e il conte di Moriana (29 ottobre 1802) - sposò Maria Cristina di Sicilia; ma quell'unione, che fu peraltro felicissima, rimase sterile. Nel 1814 non accompagnò il re in Piemonte perché, dopo le prove di fedeltà e di affetto che i Sardi avevano prodigate per tanti anni alla casa di Savoia, non gli parve bello, così scrisse, che tutti se ne andassero appena si riaprivano le vie della terraferma. Erano infatti in lui, sotto una certa brusca durezza di modi, che qualche volta lo fece apparire in pubblico persino crudele, delicatezze e sentimentalità quasi femminili. Sulla fine del 1815, partita anche la regina Maria Teresa, riprese l'ufficio di viceré e lo conservò sino al 1821; ma dal giugno 1816 fu assente dall'isola, il cui governo rimase effettivamente in altre mani. Dopo un viaggio a Roma dove, in un convento, viveva l'ex-re Carlo Emanuele IV, tornò in Piemonte verso la metà del 1817. Ma non amava più il suo paese. Lo rattristavano i ricordi del 1798 e il nuovo spirito ond'era animata gran parte dell'aristocrazia, non escluso l'erede presuntivo della Corona, Carlo Alberto. Per questo anzi, e affinché non si sospettasse ch'egli volesse ingerirsi delle cose del regno approfittando della vera o supposta debolezza di Vittorio Emanuele I, preferì alla reggia di Torino la sua villa di Govone o anche la piccola corte di Francesco IV di Modena, suo nipote.
Si trovava appunto a Modena quando, in seguito all'abdicazione di Vittorio Emanuele I (13 marzo 1821), dovette salire, a malincuore, sul trono. Il Piemonte era allora nelle mani dei Federati, e Carlo Alberto aveva concesso la Carta costituzionale di Spagna: dappertutto coloro che avrebbero dovuto difendere risolutamente la vecchia monarchia s'erano mostrati deboli, vacillanti e incerti. La diritta coscienza di C. F. non dubitò un istante. Come tutti quelli della sua casa, odiava l'Austria e la riteneva capace di qualsiasi perfidia, ma chiese tuttavia il suo aiuto dacché il farlo gli parve un dovere. Così, partito Carlo Alberto per Novara e Firenze, i Federati furono dispersi dalle truppe del De La Tour e del Bubna. Seguirono processi e condanne, ma dei colpiti con la pena di morte 68 erano in salvo, e perciò soltanto due, il capitano Garelli e il tenente Laneri, subirono realmente l'estremo supplizio (luglio-agosto 1821). C. F. fece il suo ingresso in Torino il 18 ottobre 1821. Non volle feste, e al governatore Thaon di Revel, il quale gli presentò le chiavi della città, rispose severe parole che fece poi pubblicare integralmente nelle gazzette. A Moncalieri, nelle vuote stanze di Vittorio Emanuele I, s'era sentito "serrare il cuore". A Torino non ebbe la forza, né allora né in seguito, di metter piede nel grande appartamento del palazzo reale dov'era avvenuta l'abdicazione del 13 marzo. Ogni cosa all'intorno gli riusciva penosa: molti tra coloro di cui doveva servirsi gl'ispiravano "ripugnanza o disprezzo". Fedele allo spirito dei suoi avi che avevano regnato "per nove secoli con gloria e senza macchia", attese a preservare la legittimità da nuovi attentati. Non richiamò gli esuli, ma ai ravveduti diede qualche sussidio e permise che le loro famiglie conservassero in qualche modo i beni di cui avrebbe dovuto impadronirsi lo stato. Pensava di lasciare la corona, anziché a Carlo Alberto, al piccolo Vittorio Emanuele II, e a questo scopo, prima, dopo e durante il congresso di Verona, trattò con le potenze, in special modo con l'Austria; ma, quando vide che il suo disegno non era bene accolto, non insistette e decise invece d'imporre a Carlo Alberto stesso la solenne promessa che, appena asceso al trono, avrebbe formato un Consiglio di stato "per tutelare e mantenere intatte le forme organiche della monarchia". Non volle però che di questa questione s'ingerisse l'Europa poiché, se desiderava incatenare il proprio successore di fronte alla sua coscienza, non voleva dimezzarne la sovranità con una specie di protettorato della Santa Alleanza. Così, dopo l'impresa del Trocadero, Carlo Alberto poté tornare a Torino, l'8 febbraio 1824. Un mese innanzi era morto Vittorio Emanuele I, e solo d'allora C. F. si considerò legittimamente re.
Il suo breve regno non fu senza opere egregie. Migliorò l'amministrazione civile e giudiziaria, soprattutto nella Sardegna, alla quale diede un apposito corpo di leggi (1827). Con società agricole, Camere di commercio e pubbliche esposizioni favorì lo sviluppo della vita economica, mentre a promuovere i buoni studî fu munifico con l'Accademia delle scienze e fondò il Museo egiziano, come già a Cagliari aveva fondato quello di storia naturale e di archeologia. Splendidissimo nelle opere pubbliche, aprì nuove strade, gettò un ponte sul Ticino a Buffalora e un altro sulla Dora a Torino, dove fece inoltre la piazza che porta ancora il suo nome, costruì a Genova, sua residenza preferita, un magnifico teatro, e in Savoia restaurò la chiesa di Altacomba con l'annesso cenobio. Nella politica estera difese con regale dignità la propria indipendenza ugualmente di fronte all'Austria e alla Francia, strinse vantaggiosi trattati commerciali con la Turchia e col Marocco (1825), con parecchi paesi ottenne la soppressione delle leggi d'albinaggio, istituì consolati lungo le coste mediterranee dell'Africa e negli scali del Levante. Trascurò l'esercito, che gli ricordava i fatti del 1821, ma diede forte addestramento all'armata, la quale, nel 1825, sotto la guida del capitano Sivori, costrinse i Tripolini a rinnovare i patti dell'antica amicizia, brillante impresa che servì anche di efficace ammonimento alla vicina Tunisi. Nel 1829, rivendicando antichi diritti, cercò di far salire sul trono di Grecia il principe Eugenio di Carignano, ma il tentativo fallì.
I suoi ultimi giorni furono rattristati dalla rivoluzione parigina del luglio 1830 e dai moti italiani del febbraio 1831. Avendo accettato la corona per un profondo sentimento del dovere, ma senza nessun desiderio di grandezza, non volle essere sepolto a Superga, tanto più che avrebbe dovuto prendere, secondo la consuetudine, il posto d'onore ch'era allora occupato dal suo diletto fratello Vittorio Emanuele I. Più volte nella vita s'era sentito chiamare alla solitudine del chiostro: morendo, il 27 aprile 1831, ordinò che la sua salma fosse inumata, come avvenne, nell'abbazia d'Altacomba, accanto a quelle degli antichi conti sabaudi, coi quali era vissuto spiritualmente, ultimo del ramo primogenito della sua Casa, in stretta solidarietà di pensiero e di azione.
Bibl.: G. Manno, Note sarde e ricordi, Torino 1868; Charles Félix de Savoye, roi de Sardaigne, restaurateur d'Hautecombe. Sa vie intime, par un religieux de cette Abbaye, Altacomba 1881; D. Perrero, Gli ultimi reali di Savoia del ramo primogenito e il principe Carlo Alberto di Carignano, Torino 1889; id., I reali di Savoia nell'esiglio, Torino 1898; A. Lattes, Le leggi civili e criminali di Carlo Felice pel regno di Sardegna, in Studi economico-giuridici pubblicati dalla università di Cagliari, 1909; E. Prasca, L'ammiraglio Giorgio Des Geneys e i suoi tempi, Pinerolo 1926 (per la spedizione di Tripoli; ma anche e soprattutto: Memorie storiche militari, 1912).
Vedi inoltre le voci: carlo alberto e vittorio emanuele i.