GAMBINO, Carlo Felice
Nacque a Catania nel 1724 da una famiglia di umili origini. Avviato agli studi di giurisprudenza, conseguì la laurea nel 1747 presso l'Università della propria città. Stimato avvocato, fu nominato professore di diritto presso la stessa università e ricoprì incarichi nell'ambito della magistratura. Sposò Antonietta Calabrò.
Soltanto verso i quaranta anni manifestò interessi letterari e, soprattutto, la propria vena poetica. Infatti, assiduo frequentatore di allegre brigate, il G. durante le adunanze improvvisava rime in dialetto, prendendo quasi sempre bonariamente spunto dagli aspetti comici e grotteschi della società a lui contemporanea. Compositore di ispirazione bernesca e popolare, fu amico del poeta Giovanni Meli. Nonostante avesse ottenuto una certa notorietà, lasciò le sue rime inedite. Soltanto nel 1816 vide la luce a Catania, per opera di Francesco Pastore, la raccolta intitolata Poesie siciliane, comprendente gran parte della sua produzione.
Nel volume furono inclusi componimenti di vario tipo; tra gli altri, un Coronale (quarantatré ottave legate a corona, come i sonetti), una serie di trenta ottave sopra diversi soggetti, centotrentadue ottave su argomenti occasionali riferiti allo sguardo o agli occhi di qualche bella donna, il poemetto Canto. I componimenti di maggior rilievo sono però La Ninazzeide, poemetto giocoso in quarantacinque ottave, il poemetto comico-satirico in quartine Lu visalocu di l'agghiastru e la sua Appendice. Nella Ninazzeide il G. ridicolizza fin quasi a toccare l'oscenità una sua cameriera che, brutta e vecchia, dopo due vedovanze decide di sposarsi per la terza volta con un uomo anziano. Nel Visalocu egli si ispira a un fatto realmente accaduto con cui pone in luce la malafede della propria categoria professionale: due anziani confinanti avviano una causa per la proprietà di un ulivo selvatico nato sul confine dei loro possedimenti, e solo dopo essere stati beffati dai rispettivi avvocati decidono di risolvere la questione amichevolmente sradicando l'albero. L'Appendice narra in cinquantasei quartine il caso di un eccesso giudiziario molto simile al precedente. Una certa risonanza ebbero anche le Ottave sacre, espressione rozza ma sincera di una religiosità di stampo medievale, in cui prevale lo spirito di sofferenza, il senso del disfacimento, la fugacità del tempo e delle gioie terrene, tematiche che lo accomunarono al poeta conterraneo Domenico Tempio. In generale, nella raccolta il G. si configura quale poeta arguto, caratterizzato da uno spiccato senso della natura, formalmente teso verso un linguaggio figurato e metaforico e verso l'utilizzo di motti e proverbi di origine popolare all'interno di un tessuto fortemente dialettale.
Il G. morì a Catania il 9 marzo 1801.
Fonti e Bibl.: F. Ferrara, Storia di Catania sino alla fine del secolo XVIII, Catania 1829, pp. 509 s.; L. Scuderi, Le biografie degli illustri catanesi del secolo XVIII, Catania 1881, pp. 101-106; G. Noto, Di un poeta vernacolo catanese del secolo XVIII (C.F. G.), in Archivio storico per la Sicilia orientale, IX (1912), 1, pp. 71-84; S. Reitano, La poesia in Sicilia nel secolo XVIII, I, Palermo 1920, pp. 151-153, 257-265; G. Natali, Il Settecento, I, Milano 1955, pp. 620 s.