SPINELLI, Carlo Filippo Antonio
– Nacque il 1° ottobre 1641 dal secondo matrimonio di Scipione principe di Cariati con Carlotta Savelli, figlia di Paolo, principe di Albano e militare al servizio di pontefici e imperatori, e vedova del duca di Carpineto Pietro Aldobrandini, pronipote di Clemente VIII e fratello del cardinale Ippolito.
Dopo le nozze, la signora visse in parte nei feudi calabresi del coniuge – insieme al quale, tra l’altro, fondò un casale, chiamato Savelli in suo onore, per soccorrere le popolazioni terremotate – in parte a Napoli, ove intrecciò saldi rapporti con l’élite della capitale, senza recidere quelli con la nobiltà romana.
Nel 1656 la rinuncia alla primogenitura di Carlo, il figlio maggiore di Scipione, intenzionato a prendere i voti, aprì la successione a Filippo Antonio che, alla morte del padre, nel 1659, antepose al proprio nome quello del fratello e divenne quinto principe di Cariati, terzo duca di Seminara e settimo di Castrovillari, quinto conte di Santa Cristina e signore di Oppido. Intestatario di un vasto complesso territoriale tra le province di Calabria Citra e Ultra, il principe da un lato si adoperò a tutela dei propri feudi, senza esitare a intraprendere feroci dispute confinarie con i titolari di terre limitrofe come i Serra; dall’altro si disinteressò della loro amministrazione e tra il 1668 e il 1684 ne alienò alcuni. Reinvestì parte dei proventi in beni suntuari quali argenteria e gioielli di grande valore e quali i palazzi di Cariati e di Napoli, ove i suoi antenati avevano eretto sulla collina comprata dalla certosa di S. Martino un immenso edificio con giardino, bisognoso di continui interventi.
Alla scomparsa del padre si stabilì nella capitale e cementò solidarietà e amicizie, aprendo la sua casa alla nobiltà con cui condivideva valori culturali e stile di vita. Puntigli d’onore lo indussero a cimentarsi nei duelli che funestavano la vita napoletana e, costituendo una sorta di surrogato alla guerra, esercitavano forti attrattive su gentiluomini smaniosi di dar prova di coraggio e destrezza. Non si sottrasse ai riti celebrati nella città, come avvenne nel 1662 quando, al comando di una quadriglia di cavalieri, intervenne nei giochi equestri organizzati per la nascita dell’infante Carlo.
Nel 1673 ottenne il primo incarico di rilievo e, probabilmente in virtù dei legami familiari con gli ambienti romani, fu nominato ambasciatore straordinario per presentare la chinea a papa Clemente X. Di lì a poco fu insignito del Toson d’oro e del titolo di grande, a fine secolo convertito in grandato perpetuo. Sposò una dama spagnola, Artemisia Borja Aragón y Centelles, figlia di Francesco duca di Gandia e di Maria Ponce de Léon, nata dall’unione del duca d’Arcos Rodrigo con Francesca de Aragón Folch de Cordoba y Cardona. Prelevata in Spagna dal fratello del principe e accolta dal coniuge a Gaeta, la sposa, appena giunta nella capitale, rese omaggio a Maria Juana Aragón Folch de Cardona, sua parente e moglie del viceré Pedro Fajardo marchese de los Vélez, buona conoscitrice del contesto napoletano e forse pronuba delle nozze, stando i cordiali rapporti di Spinelli con la corte vicereale, i ruoli di rappresentanza in essa degnamente assolti, le mansioni ottemperate anche con gran riserbo.
Oltre a partecipare alla vita mondana, i coniugi, forti delle loro reti di relazioni, non disdegnarono gli affari, talvolta condotti ai margini della legalità, come testimonia un traffico di merci di contrabbando intercettate da uno zelante commissario di campagna, costretto poi a fare ammenda per la sua condotta, incurante della qualità dei personaggi osteggiati. Nel 1683, al termine del mandato di los Vélez e nonostante l’apertura del successore verso la nobiltà, decisero di trasferirsi a Madrid, in cerca di incarichi e onori che speravano di lucrare grazie ai loro appoggi a corte. Il principe raggiunse il risultato più rilevante nel 1687, quando fu nominato per il triennio successivo viceré d’Aragona, ruolo prestigioso e remunerativo, saltuariamente concesso a italiani già ben integrati nell’élite transnazionale della Monarquía. Nell’aprile di quell’anno Spinelli, presentato dal duca d’Arcos e dal marchese di Villafranca, in segno di gratitudine baciò la mano al re al cospetto dei grandi, rimasti a capo scoperto per rispetto nei suoi confronti, non essendosi risolta la vertenza per il grandato perpetuo, rivendicato dal principe come discendente del duca di Castrovillari insignito del titolo da Carlo V.
Concluso l’incarico, Spinelli rimase a Madrid in attesa di nuove opportunità e nel 1696 fu annoverato in una ristretta rosa di candidati alla carica di ambasciatore cattolico a Vienna. Si trovava ancora nella capitale spagnola alla morte di Carlo II e all’ascesa di Filippo V e di lì mosse alla volta di Barcellona, per rientrare nel 1702 in Italia al seguito del Borbone. All’instaurarsi degli imperiali a Napoli, aderì con convinzione al nuovo regime, a giudicare dall’assidua frequentazione della corte vicereale. Il repentino slittamento di fedeltà e i successi conseguiti nel corso della carriera pregressa consentirono al principe, nel febbraio del 1710, l’ingresso nel Consiglio di Stato istituito a Barcellona da Carlo d’Asburgo, allora all’apice della sua fortuna nella penisola iberica.
Congedatosi dal viceré Vincenzo Grimani, Spinelli non riuscì a partire da Napoli prima di agosto, per la difficoltà di ottenere credito in una fase di confusione politica internazionale; giunse a destinazione solo in dicembre, mentre le sorti del pretendente asburgico volgevano al peggio, e prestò giuramento insieme al duca di Parete Francesco Moles. Rimase in Catalogna dopo la partenza per Vienna di Carlo, chiamato a cingere la corona imperiale; servì nella corte della reggente Isabella Cristina di Brunswick e rientrò in Italia con altri reduci napoletani nel 1713, prima della definitiva resa asburgica.
Si spense a Napoli il 13 febbraio 1725 senza lasciare discendenza diretta.
Aveva istituito erede Scipione, figlio del fratello Gian Battista, che aveva rinunciato a una brillante carriera curiale e, assunto il titolo di duca di Seminara, aveva sposato Giovanna Caracciolo di Torella per impedire l’estinzione del casato. Il nipote, che in onore dell’ava aggiunse il cognome Savelli al proprio, nel 1726 fece erigere per il defunto zio, nella chiesa di S. Teresa degli Scalzi, un monumento funebre decorato da un pregevole busto di Domenico Antonio Vaccaro.
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