GESUALDO, Carlo
Nacque a Venosa, in Basilicata, l'8 marzo 1566 da Fabrizio e da Geronima Borromeo.
Scarse e assai imprecise sono state, fino ad anni recenti, le notizie sulla data e il luogo di nascita del G., terzo principe di Venosa, signore di Conza, Laino e Caggiano e - come già il nonno Luigi e il padre Fabrizio - grande di Spagna. Per lungo tempo è stato indicato il 1560 o 1561 come probabile anno di nascita, senza tener conto tuttavia che solo il 13 febbr. 1561 era stato siglato il patto di nozze tra il padre e Geronima Borromeo (figlia di Margherita de' Medici, nipote di papa Pio IV Medici e sorella del cardinale Carlo Borromeo; dal matrimonio nacquero Luigi, Carlo, Vittoria e Isabella), e che la nascita del primogenito Luigi era sicuramente databile attorno al 1563.
Solo recentemente (Watkins, 1991; 1ª ed. 1973) è stato possibile indicare come sicura data di nascita del G. quella dell'8 marzo 1566. Anche il luogo di nascita, che si supponeva fosse lo splendido palazzo del principe di San Severo, in largo S. Domenico Maggiore a Napoli, dove la famiglia risiedeva per lunghi periodi, solo da poco è stato identificato con il castello di Venosa, non lontano da Potenza.
Secondo alcune cronache del tempo i Gesualdo "vennero di Francia…" mentre altre, più correttamente, propendono per la discendenza da un Guglielmo - figlio naturale di Ruggero il Normanno: come del resto è testimoniato dall'iscrizione che ancor oggi si può leggere sulle mura del castello di famiglia nella cittadina di Gesualdo: "Carolus Gesualdus ex nobilissimi Rogerii nortmanni Apuliae et Calabriae ducis genere Compsae Comes Venusii Princeps …".
Luigi, nonno del G., fu "consigliere ascoltato ed intimo collaboratore di Filippo II" (Iudica, 1993, p. 33), dal quale nel maggio 1561 ricevette - grazie anche all'intercessione di Pio IV - il principato di Venosa (la Venusium dei Romani). È sotto la guida di Luigi che il casato raggiunse prestigio politico e potenza economica, e cominciò a manifestare interesse per le arti (famosa, per es., l'amicizia e la protezione di Luigi nei confronti di B. Tasso), e per la musica in particolare.
Poche e frammentarie sono le notizie relative ai primi vent'anni di vita e attività del Gesualdo. È noto però che, pur appartenendo a un "ceto di altissima aristocrazia napoletana", e godendo inoltre del prestigio e dell'autorità che gli derivava dallo zio paterno card. Alfonso - dal 1596 arcivescovo di Napoli e decano del S. Collegio -, cominciò prestissimo a dedicarsi agli studi e alla pratica musicale: con risultati notevoli, se prestiamo fede a testimonianze come, per es., quella del Pitoni, che lo definiva eccellente "sonatore di molti stromenti, del leuto ha passato il segno" (1725; ed. mod. 1988, p. 204), o di J. de Macque, il quale lo definiva "gran amatore di questa scienza", aggiungendo inoltre: "è riuscito tanto perfetto in essa, che nel sonare di liuto et nel componere ha pochi pari" (in Lippmann, 1978, p. 263).
Altre fonti ci dicono ancora che - come era consuetudine per molti aristocratici del suo tempo - ebbe rapporti di familiarità con alcuni dei più importanti esponenti della vita artistica napoletana cinquecentesca, in ciò seguendo le orme del padre Fabrizio che "intendentissimo della musica" era solito circondarsi di letterati e musicisti. Lo storico-cronista Lellis affermava, non sappiamo se riferendosi al padre o confondendolo col G., che il principe di Venosa teneva "continua academia in sua casa di tutti i musici della città, a' quali tutti egli sovvenne, e favorì cortesissimamente" (1654-71, pp. 19 s.), mentre il Modestino attribuiva al G. la fondazione di una "Camerata di propaganda per l'affinamento del gusto musicale": di certo, tuttavia, non di una vera e propria accademia si trattava, bensì solo della cerchia stabile ma informale di musicisti "alli stipendi o favori" dei Gesualdo. Nel 1601 anche S. Cerreto, riferendosi ai "Musici eccellenti della città di Napoli" e certo tenendo ben presente il rango di appartenenza del G., lo mette al primo posto non solo come "raro sonatore", ma come autore che "nella compositione non è meno degli altri compositori eccellente", aggiungendo come a un tal principe "di più non basta, che si diletti della musica, ma ancora per suo gusto et intertenimento tiene in sua corte, à sue spese, molti compositori, sonatori, e cantori eccellenti" (Cerreto, 1969, pp. 155 ss.).
Compositori in gran parte napoletani e "nati di nobilissimo sangue", tra i quali ricordiamo F. Filomarino, F. Carafa, Ettore Gesualdo, E. Della Marra, S. Dentice "del Cimbalo", A. Grifone "della Viola d'arco", l'organista e "peritissimo compositore" S. Stella (entrato al servizio del G. nel 1593, vi rimase per circa dieci anni), l'anziano G.L. Mollica "dell'Arpa", e G.D. Montella. Molti anche i musicisti baresi, o d'origine pugliese, come R. Rodio, G.B. di Paola, G.L. Primavera (dedicò a Fabrizio Gesualdo i suoi primi madrigali e al G., nel 1585, il settimo libro di madrigali quale "debito della servitù mia verso l'ill.mo padre vostro"), M. Effrem (entrato al servizio del G. nel 1593 circa, vi rimase fino alla sua morte; nel 1626 dedicò a Eleonora d'Este il libro postumo di Madrigali a 6 voci del principe), il prolifico S. Felis - versione latinizzata del cognome Gatto - uno dei compositori di maggior spicco tra quelli attivi presso il G., e forse suo maestro (la presenza nel suo Liber secundus motectorum, 1585, del primo brano sicuramente attribuibile al principe, il mottetto Delicta nostra ne reminiscaris, Domine, confermerebbe questa ipotesi). Di particolare rilievo P. Nenna, gentiluomo quasi coetaneo del principe, che rimase al suo servizio dal 1593-94 circa alla fine del 1599, stringendo con il G. un rapporto tra i più fecondi "fra tutti quelli intrattenuti dal principe con altri musicisti", come è testimoniato tra l'altro dalla scelta comune di nove testi da musicare (Pompilio, 1983, p. 12). Il G. ebbe stretti rapporti anche con Macque che, secondo il Lippmann, fu probabilmente uno dei suoi pochi, veri maestri: ipotesi ritenuta in precedenza improbabile, per ragioni di stile, dall'Einstein (1949, p. 698). Dal 1585 al servizio del padre Fabrizio, nel 1586 passò alle dipendenze del G. (dove - in diverse lettere ad amici romani - scriveva di trovarsi benissimo: "io me ne sto qua fora alegram.te spendendo la magior parte del tempo a studiare sonando, componendo et legendo"), dedicandogli la raccolta delle Ricercate et canzoni francesi del 1586 (oggi perdute; Sartori, 1973), in cui troviamo un riferimento a musiche composte dallo stesso principe: "In questo libro… tengono principal luogo tre ricercate composte da lei" (in Lippmann, pp. 262 ss.).
Tra i letterati che furono in contatto con i Gesualdo, un ruolo di primo piano spetta a T. Tasso, che il G. conobbe per il tramite della famiglia d'Avalos e frequentò in occasione dei primi due soggiorni napoletani del poeta (1588 e 1592): "Visitava ancora assai sovente don Carlo Gesualdo … col quale avea stretta due anni innanzi una particolare servitù" - scriveva l'abate Serassi - "allorché volendo questo signore mettere in musica … alcuni madrigali secondo l'uso del tempo, ebbe ricorso al Tasso, perché gliene scrivesse qualche numero, siccome fece" (1858, II, pp. 299 s.). E il Tasso "fece", scrivendo e inviandogli con insistente regolarità numerosi testi, senza però riuscir davvero a stabilire una fruttuosa e duratura collaborazione con il principe, il quale infatti, degli oltre 40 madrigali inviatigli dal poeta, ne musicò solo uno (Se così dolce è il duolo, Libro I), scegliendone altri dieci - e solo per i primi due libri - tra componimenti già noti e musicati da altri compositori.
Dopo la morte del fratello primogenito Luigi, esigenze dinastiche e la preoccupazione paterna "di dar moglie al secondo affinché sì ampia ed antica eredità non venisse ad uscire dalla casa" (Ammirato, I, 1580; II, 1651, p. 13), spinsero il G. a unirsi nel 1586 in matrimonio - previa dispensa papale, trattandosi di cugini primi - con Maria d'Avalos, figlia della zia paterna Sveva e di Carlo d'Avalos, e già vedova, seppur giovanissima, di Federico Carafa. Nacque Emanuele, l'erede desiderato ("Lieto presagio di leggiadra vista" - lo cantò il Tasso), che sposatosi nel 1607 con Maria Polissena di Fürstenberg sarebbe poi morto ancora giovanissimo il 20 ag. 1613, a soli pochi giorni di distanza dalla scomparsa del padre.
Le nozze legarono il casato dei Gesualdo a una delle più potenti famiglie dell'aristocrazia napoletana ma portarono, nella notte tra il 16 e 17 ott. 1590, a un drammatico e fin troppo celebre epilogo - l'uccisione della moglie e del suo amante Fabrizio Pignatelli Carafa, duca d'Andria: soggetto "nel quale piange e canta tutta Napoli", che per lungo tempo, e fino ai nostri giorni, commosse e accese la fantasia spesso morbosa di cronisti, cantastorie e letterati di mezza Europa (Consiglio, 1967, pp. 224 ss.). Subito dopo la tragedia, senza aspettare l'apertura del processo, che venne subito archiviato dal viceré di Napoli, J. de Zuñiga, conte di Miranda "stante la notorietà della causa giusta dalla quale fu mosso don Carlo Gesualdo principe di Venosa", motivi di opportunità "politica" e di rispetto nei confronti delle famiglie delle vittime (la cui indignazione era dovuta soprattutto al fatto che a compiere il delitto non era stato in prima persona il marito tradito bensì la mano plebea di servitori) spinsero il G. a ritirarsi nel castello di Gesualdo, dove rimase per circa un anno dedicandosi alla caccia e alla sua ormai quasi ossessiva passione per la musica e la composizione: quando infatti nel febbraio 1594 raggiunse Ferrara per le nuove nozze con Eleonora d'Este - nipote del duca Alfonso II e sorella di Cesare d'Este - sappiamo che recava con sé diverse composizioni che vennero pubblicate pochi mesi dopo il suo arrivo alla corte estense.
Era stato il card. Alfonso suo zio a tessere in prima persona la tela di questa nuova e prestigiosa unione che, se da un lato mirava a sottrarre il G. a un isolamento sin troppo lungo e intellettualmente sterile, inserendolo in un ambiente culturalmente vivacissimo come quello ferrarese, dall'altro corrispondeva alle aspettative - andate poi deluse - di Alfonso II d'Este di impedire con l'appoggio del potente cardinale napoletano che Ferrara tornasse alla Chiesa dopo la sua morte (bolla pontificia del 23 maggio 1567: Prohibitio infeudandi et alienandi civitates et loca Sanctae Romanae Ecclesiae; cfr. Pastor, 1934, p. 382).
Nel lento viaggio verso la città estense il G. fece, alla fine del 1593, una sosta a Roma, dove incontrò Jacopo Corsi e quel celebre "fiorentino che canta sul chitarrone", F. Rasi: "Hora è giunto il principe di Venosa, et lo ha sentito, et procura di haverlo a suoi servitii" - scriveva a Ferdinando I granduca di Toscana E. de' Cavalieri, che mostrò di essere buon profeta, visto che il principe, offertogli un cospicuo compenso, riuscì a trattenere il cantore al suo servizio per circa 2 anni (Newcomb, 1968, p. 422).
Sempre il Cavalieri, nella stessa lettera (cfr. Palisca, 1963, p. 347), faceva notare come gli unici interessi del principe fossero per il canto e per far musica, e come, con quel suo continuo discorrere di cose musicali, lo avesse talmente estenuato da fargli desiderare di non sentire parlare di musica per almeno due mesi.
Più o meno le stesse parole e gli stessi concetti espressi poco tempo dopo dal conte Alfonso Fontanelli nel primo (18 febbr. 1594) dei molti dispacci inviati al duca d'Este, che lo aveva incaricato di accogliere l'illustre sposo ai confini dello Stato estense per accompagnarlo a Ferrara, studiandone discretamente gusti e personalità: "Raggiona molto et non dà segno alcuno, se non forse nell'effigie, di malenconico. Tratta di caccia e di musica et si dichiara professore dell'una et dell'altra. Sopra la caccia non s'è esteso meco più che tanto, […] ma della musica m'hà detto tanto ch'io non ne hò udito altretanto in un anno intiero" (cit. in Durante - Martellotti, 1979, pp. 192 s.). Al seguito del G., oltre a nobili accompagnatori come C. Caracciolo e il conte della Saponara, il Fontanelli ricorda anche alcuni dei musicisti della sua cerchia napoletana, tra cui lo Stella, F. Filomarino, S. Dentice ed Ettore Gesualdo.
Abbiamo inoltre notizia degli svaghi musicali del principe durante il viaggio (suonava il liuto e la chitarra spagnola e non esitava a sostituire un cantore nell'esecuzione di suoi madrigali), della accoglienza "con grandissimo onore" a Ferrara il 19 febbr. 1594, delle cene, tornei e festeggiamenti (fra gli altri, la favola "boscareccia" I fidi amanti di E. Pasquini), predisposti dalla corte estense "per occasione della cui venuta tutti li musici … ebbero occasione di mostrar il loro valore, essendo che quel Principe era intendentissimo di quella nobilissima facoltà proporzionata solo agli animi nobili" (cronaca di A. Faustini, in Durante - Martellotti, 1979, p. 193).
In particolare del temperamento, interessi e abitudini del principe napoletano siamo ampiamente informati dai dispacci periodicamente inviati al duca di Ferrara dal già ricordato conte Fontanelli (Arch. di Stato di Modena), il cui compito non fu solo quello di scortare il G. a Ferrara, ma di rimanere al suo fianco per circa un anno, e seguire quindi la moglie Eleonora nelle molte e dolenti peregrinazioni che dovette affrontare nel corso di una vita coniugale tormentata e infelice.
Estremamente positiva fu la personale esperienza ferrarese del principe di Venosa, che rimase fortemente colpito dalle pratiche musicali di Ferrara (il "santuario più geloso di una musica reservata, oggetto di veri e propri spionaggi da parte di corti rivali"), e in particolare da L. Luzzaschi, che certamente conosceva già da Napoli, dove le sue composizioni erano talmente stimate "che con tutto ch'io preghi che mi facciano sentir opere nuove, tutti però vogliono che si cantino cose di lui perché lo nominano per lo maestro" (lettera di A. Fontanelli da Napoli, 16 sett. 1594).
È quest'ammirazione che portò il G. a confessare, messa per una volta da parte la sua aristocratica arroganza, "d'haver lasciato quel primo stile et d'essersi messo all'imitazione del Luzzasco" (lett. di Fontanelli) e di volerne studiare le arditezze formali, l'intensa espressività melodica e quel nuovo approccio a un diverso e più stretto rapporto tra testo e musica. Tanto che può non essere azzardato ipotizzare che si riconoscesse pienamente in quella specie di "manifesto di consapevolezza artistica" (Bianconi, 1986, p. 319) rappresentato dalla dedica a Lucrezia d'Este duchessa d'Urbino del sesto libro di madrigali del Luzzaschi (1596), scritta da A. Guarini: "Sono […] la musica e la poesia tanto simili, e di natura congiunte, che ben può dirsi […] ch'ambe nascessero ad un medesimo parto in Parnaso" (Durante - Martellotti, 1979, pp. 197 s.).
Fu proprio questa antica consuetudine e ammirazione, solo in parte incrinata da un pizzico di rivalità, che spinse il principe a far pubblicare dal suo stampatore personale Carlino, quattro anni dopo la morte del compositore ferrarese, una Prima scelta di madrigali di Luzasco Luzaschii et altri autori (1611) e - dopo solo due anni - la Seconda scelta delli madrigali di Zasco Luzzaschi: cortesia anticipata dallo stesso Luzzaschi che, nel 1594, gli aveva dedicato il Quarto libro de' madrigali.
Nel corso dei suoi soggiorni ferraresi il G. rimase colpito dalla bellezza dei canti delle monache di S. Vito e, soprattutto, dalle esecuzioni del famoso - anche se ormai in declino - Concerto delle dame; in particolare ammirava quel modo così diverso di cantare, i virtuosismi, l'abilità nel far intendere appieno le parole e quel loro repertorio di musiche scritte in larga misura da Luzzaschi, non più destinate solo al "diletto" riservato delle esecutrici, bensì al piacere dell'ascolto da parte di un pubblico vasto e competente.
La vivacità della corte estense e la nascita del figlio Alfonsino non riuscirono tuttavia a placare l'umore "malinconico" e l'irrequietezza del "Napuletanissimo" principe il quale, dopo solo pochi mesi di soggiorno ferrarese - felicissimo come si è visto dal punto di vista della creatività musicale, assai meno per le crescenti incomprensioni con i membri della corte estense ("un covo di vipere" arrivò a definirla in una lettera allo zio cardinale, eccezion fatta per il vecchio e gentile Alfonso II) e per i pettegolezzi che circondavano la sua vita privata - con grande sconcerto dei parenti acquisiti e umiliazione della moglie, abbandonò improvvisamente Ferrara per rifugiarsi, nel maggio 1594, nella solitudine di Gesualdo. Fece una breve sosta a Padova, dove conobbe C. Porta, e quindi a Venezia dove incontrò alcuni famosi stampatori veneziani e - forse - G. Gabrieli, e dove continuò incessantemente a comporre: "et à quest'hora fabricati due madregali nuovi; pensa dic'egli di venir a Ferrara con tanti belloardi d'opere […] che bastino a difendersi contro il Luzzasco" (lett. del Fontanelli, Venezia 23 maggio 1594). Anche a Gesualdo si dedicò alle consuete "recreationi" preferite "che sono di caccia […], et di musica, havendo di già composto cinque o sei madrigali artificiosissimi, un motteto, un'aria et ridotto a buon segno un dialogo a trè soprani fatto, credo io, per coteste signore" (lett. del Fontanelli da Gesualdo, 25 giugno 1594).
Il riferimento è forse a un'aria "alla napolitana" non meritevole, a giudizio del principe, di esser pubblicata, e a brani come All'ombra degli allori e Come vivi cor mio, piccole arie o canzonette a 3 v., che compariranno infatti solo nell'VIII libro di madrigali a 5 v. di P. Nenna del 1618. Il dialogo invece potrebbe corrispondere a Donna, se m'ancidete, vera eccezione nel corpus dei madrigali gesualdiani in quanto concepito per tre soprani.
Sempre accompagnato dal Fontanelli tornò per periodi più o meno lunghi a Ferrara ma, all'inizio del 1596, si stabilì definitivamente nel suo feudo meridionale, ancora una volta senza la moglie, che si rifiutò per lungo tempo di seguirlo. Alle insistenti preghiere che gli giungevano da Ferrara perché vi facesse ritorno e, riavvicinandosi a Eleonora (i maltrattamenti verso la quale erano diventati ben presto oggetto dei malumori della corte), rimediasse alla sua fuga, il G. oppose sempre giustificazioni di salute, sollecitando a sua volta la consorte a raggiungerlo con il figlio. Alla fine la ebbe vinta: il 3 dic. 1597 la principessa di Venosa, accompagnata dal conte della Saponara, da F. Sanseverino e dall'immancabile conte Fontanelli, raggiunse con il figlio il castello di Venosa, accolta con "honori infiniti" dal marito, con il quale poi - nel maggio successivo - mosse alla volta di Gesualdo. Seguirono anni di sofferenze, per il pessimo trattamento riservatole dal marito e per la perdita del figlio Alfonso (che morì nell'ottobre del 1600), vivendo come "martire volontaria in Regno, a patire il Purgatorio in questa vita, per godere il Paradiso nell'altra" (lett. di R. Arlotti, cit. in Watkins, 1973, p. 80).
Ferrara fu comunque la città dove vennero pubblicati anonimi, com'era consuetudine per compositori di nobile estrazione, ma a cura dell'"affettionatissimo servitore" S. Stella e per i tipi prestigiosi dello stampatore ducale V. Baldini, i primi due libri gesualdiani di madrigali a 5 voci, pieni "di molto artificio e di contraponto esquisito, con fughe difficili e vaghe" (Giustiniani, cit. in Solerti, 1969, p. 109), che il G. aveva con ogni probabilità composto prima dell'arrivo a Ferrara ("Porta seco due mute de libri a cinque tutte opere sue" - è scritto nel primo dispaccio inviato dal Fontanelli al duca).
La prima stampa del 10 maggio 1594, corrisponde in realtà al secondo libro, mentre la seconda, con dedica del 2 giugno 1594, corrisponde al primo: come si deduce dalla dedica del 2 giugno, nella quale si accenna a una stampa precedente "in alcuni errori trascorsa" (curata da un certo G. Piloni), e come risulta dall'ordine seguito nella Partitura delli sei libri de madrigali a cinque voci del 1613.
Sempre a Ferrara vennero pubblicati, dal Baldini, il terzo e il quarto libro di madrigali, nei quali ancora una volta il nome del G. compare solo come destinatario delle dediche (scritte questa volta da Ettore Gesualdo), nelle quali viene fornito un particolare illuminante sull'aristocratico e un po' affettato distacco del principe per il destino "pubblico" delle sue musiche: "mentre, che da lei ad altri più gravi pensieri intenta, erano lasciati andare per le tavole trascurati, gli hò con infinita avidità raccolti, et studioso in ciò più tosto dell'utilità commune che del gusto particolar di V. E. alle stampe ne li mando".
Nell'isolamento di Gesualdo il principe continuò a comporre, a discutere quasi ossessivamente di musica, a rielaborare stimoli e suggestioni dell'esperienza ferrarese. Scrisse lavori anche di carattere religioso, che sembrano interrompere "come una parentesi ascetica il lungo intervallo di silenzio apparente tra i madrigali pubblicati a Ferrara e quelli degli ultimi due libri" (Pirrotta, 1987, p. 176): nel 1603 uscì, a cura di G.P. Cappuccio e per i tipi di C. Vitale, la stampa napoletana in due volumi delle Sacrarum cantionum; nel 1611, a Gesualdo e a cura dello stampatore Carlino, vennero quindi stampati i Responsoria, esempio piuttosto raro e notevole per l'epoca di un intero ciclo del Triduo sacro musicato da un unico compositore (Watkins, prefazione al vol. VII dei Sämtliche Werke).
Nello stesso anno, sempre a Gesualdo, venne pubblicato anonimo il quinto libro di madrigali a cura di G.G. Carlino, l'editore-stampatore che il principe di Venosa - forse nell'inconscio desiderio di rivaleggiare con le prestigiose edizioni ferraresi del Baldini - aveva voluto operante e al suo esclusivo servizio in un locale del castello adibito a tipografia.
Nella dedica al G. del Cappuccio (20 giugno 1611) troviamo preziose indicazioni sulla reale data di composizione, oltre a un accenno alla consuetudine del compositore di "tener' le sue rare compositioni musicali quanto più si possa celate alli publichi applausi", e al malcostume della pratica musicale del tempo: "à pena uscito il parto à luce, e gustata solo domesticamente la gran vaghezza di esso, senza aspettarsi il beneficio della stampa […], hà cagionato che alcuni […] habbino usata sottile industria per haverne qualche ritratto […] (e) habbino voluto supplire con fraudolente arte alla scarsezza del loro proprio ingegno, attribuendo à se stessi molti belli passi delle opere, e inventioni di V.E. […] La onde dopo essere stati il mondo avidissimamente aspettandoli per lo spatio di quindici anni, da che sono stati composti, […] mosso da compassione […] mi son risoluto di voler' meritare con l'essercitio della carità, e della giustitia per mezo della stampa […]".
Un solo mese di distanza intercorre tra la stampa del quinto libro e i 23 madrigali del sesto, composti infatti "nelli medesimi anni, che furono quelli della quinta": a distanza di 15 anni dal quarto libro "ferrarese", il principe rivela appieno la carica innovativa della sua scrittura musicale e "patrocinando egli stesso la pubblicazione delle sue ultime opere sembra voler consacrare una propria aristocratica autonomia di giudizio e d'azione" (Piccardi, 1974, p. 83).
Nel 1613 venne stampata a Genova ("Fatica di Simone Molinaro maestro di capella nel duomo di Genova") la celeberrima Partitura delli sei libri de' madrigali a cinque voci, non sappiamo se autorizzata dall'autore prima della morte, ma di certo esempio rarissimo per l'epoca di una raccolta di polifonia vocale in partitura, che conobbe per tutto il Seicento - soprattutto per motivi didattici - una straordinaria fortuna, in Italia e nel resto d'Europa, consentendo di apprezzare alla sola lettura le qualità de "gli artificiosissimi madrigali del principe napoletano (che) diventarono oggetto di studio del contrappunto florido e licenzioso, del cromatismo pervadente, e intorno a essi si cristallizzò l'immagine del madrigale seicentesco" (Bianconi, 1982, p. 7).
Nel 1626, tredici anni dopo la sua morte, venne infine pubblicata a Napoli l'ultima fatica del principe-compositore, quei Madrigali a sei voci curati dal fedelissimo M. Effrem, che li dedicò a Eleonora d'Este, probabilmente promotrice e finanziatrice dell'opera, con parole di orgogliosa rivendicazione del ruolo preminente svolto presso il principe ("non essendo stata quella Eccellenza solita di confidare con altri che meco l'esatto giudicio, ch'ella facea intorno alle sue cose di musica").
Anni dunque di febbrile ma fertilissimo lavoro, quelli dell'ultimo lungo periodo trascorso a Gesualdo. Anni però anche di cupa solitudine, di ossessioni religiose, di continue "indipositioni" e tensioni psicologiche, rispecchiate come una sorta di confessione autobiografica in madrigali come "Resta di darmi noia/ Pensier crudo e fallace" o quello ancor più drammaticamente espressivo che recita: "Io pur respiro in così gran dolore,/ E tu pur vivi, o dispietato core", che costituirono la ragione prima dell'isolamento nella sua fortezza campana e che alla fine condussero il G. a uno stato di completa instabilità fisica e mentale.
L'8 sett. 1613 sopraggiunse la morte, preceduta solo di pochi giorni (20 agosto) dalla tragica scomparsa per una caduta da cavallo del figlio di primo letto Emanuele, che forse ne accelerò la fine poiché "non havendo il signor Prencipe di Venosa altro figliolo, sentette assai et in modo ch'oltre al suo male ancho s'aggravò" (in Piccardi, 1974, p. 80).
Secondo le sue volontà venne sepolto nella chiesa del Gesù Nuovo a Napoli, ai piedi dell'altare dedicato a S. Ignazio di Loyola: estrema ma forse non casuale conseguenza degli stretti rapporti esistenti tra i gesuiti e la famiglia Gesualdo. Si estinse così il glorioso e secolare casato dei Venosa: la moglie Eleonora morì a Modena nel 1637, ultima discendente fu Isabella (primogenita del figlio Emanuele) che andò sposa al principe Nicolino Ludovisi.
Con la morte del G. non si spense né l'eco né la diffusione della sua opera, che anzi per tutto il secolo continuò a essere ammirata, presa a modello ed eseguita: basti ricordare, per esempio, E. Schutz, che nel 1623 scriveva a un libraio italiano di inviargli lavori del G.; le frequenti esecuzioni romane di suoi madrigali presso i Barberini e, più tardi, alla corte di Cristina di Svezia (v. lettera di A. Scarlatti del 1706, in Fabbri, 1961); o la presenza di composizioni del G. in archivi romani come quello dei Doria Pamphili (Annibaldi, 1982). Molti madrigali gesualdiani vennero inseriti come esempi nelle opere di numerosi teorici e compositori secenteschi, come, per es., il Banchieri e Kircher; o soltanto citati da autori come P. Della Valle: "Quando io era giovanetto mi piacevano assai quei (madrigali) del Marenzio, … di Ruggero Giovannelli, e per affetto pietoso e compassionevole "Resta di darmi noia" del Principe di Venosa, famoso madrigale…" (in Solerti, pp. 170 s.). Successivamente, come avviene per gran parte della produzione cinque-secentesca, se ne perse la memoria, con l'eccezione del Walther (1738), di Rousseau (1768), di padre Martini (1773) e del Burney. Salvo qualche raro caso nel XIX secolo, è solo nei primi decenni del Novecento che comparvero le prime, non sempre rigorose, edizioni di composizioni del G., generalmente curate da italiani (I. Pizzetti, L. Torchi, G. Pannain, ecc.), anche se solo nella seconda metà del XX sec. è cominciata quella che può esser definita una sorta di "Gesualdo Renaissance": non solo riscoperta di uno tra i tanti musicisti dimenticati del passato, quanto ammirata attenzione per un linguaggio musicale nel quale si è creduto di cogliere - con qualche esagerazione e, comunque, con ottica antistorica - elementi di una sensibilità atonale ante litteram. Al fiorire di un gran numero di studi e alla ricomparsa di composizioni gesualdiane nel repertorio internazionale, si è accompagnato il rinnovato interesse anche di compositori di grande rilievo che al G. hanno reso omaggio e si sono ispirati, come, per es., Stravinskij (Monumentum pro G., 1960; trascrizione strumentale di tre madrigali e tre Sacrae cantiones, completate nelle parti mancanti), o J. Baur (Meditazione sopra G., 1977, e Symfonische Metamorphosen über G., 1982).
Se il nome del G. è per lo più legato a quello di Luzzaschi, è indubbio che anche la produzione del Macque e di G. de Wert costituiscono un primo, quasi obbligato precedente per la corretta comprensione dello stile gesualdiano, rappresentando - nel loro insieme - una più avanzata concezione di "musica pathetica" e del "cantar d'affetto", cioè "quella maniera di canto che presta attenzione al testo" (Bernhard, in Bianconi, 1982, p. 7).
Da questo punto di vista, di grande interesse sono le "scelte poetiche" operate dal G. con aristocratica indifferenza alle mode, alla fama dei loro autori e al valore intrinseco delle rime da musicare. Ai suoi rapporti con il Tasso si è già fatto cenno. Del napoletano Marino sembrò quasi disinteressarsi, per accogliere - con scelta sicuramente eccentrica, seppur condivisa con Monteverdi - il solo testo di O chiome erranti, mentre di gran lunga maggiore fu l'attenzione prestata a G.B. Guarini, del quale il G. musicò otto testi (talora in forma abbreviata: per es. Tirsi morir volea), e il rapporto, peraltro limitato a una sola lirica (Non è questa l'aurora), con A. Guarini, del quale condivideva la concezione poetica (dedica al sesto libro di madrigali del Luzzaschi) e dal quale veniva accomunato al Luzzaschi nel parallelo Petrarca-Marenzio/Dante-Luzzaschi (dialogo Il Farnetico savio ovvero Il Tasso, 1610) per il comune approccio a un innovativo rapporto musica-poesia:
"Voi udite ne' dottissimi madriali di quell'eccellentissimo musico, quando le parole sopra le quali è composta la sua musica hanno concetto, o di pianto, o di riso, o d'allegrezza, o di dolore, o di grido, o di silenzio, o d'aspro, o di dolce, o di alto, o di basso o d'altro simile, ch'egli sì ben addopra colle sue note, che il lor canto piagne, ride, s'allegra, si duole, grida, tace, s'inasprisce, si radolcisce, s'alza, s'abassa, e finalmente rappresenta tutti quegli affetti, ed effetti, come se naturalmente si sentissero, e s'operassero" (cit. in Degrada, 1965, pp. 268 s.).
Il G. non tenne in gran conto la qualità poetica del testo, che per lui era "merely the occasion, the necessary and indispensable raw material of his aristocratic music" (Einstein, 1949, p. 691). Come Luzzaschi - al quale lo accomuna la scelta di numerosi testi - rivolse piuttosto la sua attenzione a poeti "dilettanti", di incerto valore poetico, che scrivevano versi su ordinazione, facendoli circolare manoscritti, o si limitavano ad accorciare e rielaborare testi di altri e più famosi autori, per renderli funzionali a un linguaggio musicale che si proponeva di intensificare il significato della parola e da questa ricevere in cambio "una motivazione e una direzione per la sua cieca forza" (Pirrotta, 1975, p. 295). Del resto non è un caso "che la crisi del madrigale coincida con il tentativo di musicare un nuovo tipo di poesia … lo squilibrio espressivo che ha evidenziato la crisi del linguaggio polifonico nasce proprio dall'accostamento di componimenti letterari e tecniche musicali eterogenee tra loro, squilibri da cui nasce anche il fascino ambiguo di certi madrigali come quelli di Gesualdo" (Fubini, 1984, p. 84).
Molte delle liriche musicate dal G. sono ancor oggi anonime ma, a parte una loro ipotetica, ma non del tutto improbabile, attribuzione alla penna del principe stesso, in alcuni casi è possibile individuarne gli autori, scelti magari per un solo madrigale.
È questo il caso del conte pesarese G. Bonarelli, l'umbro F. Alberti, la ferrarese Orsola Bertolai (meglio conosciuta come Orsina Cavalletta), il piacentino L. Cassola, il veneziano A. Gatti, il lucano L. Tansillo, il reggiano R. Arlotti, il ferrarese A. Pocaterra, o l'abate benedettino genovese A. Grillo, che recentemente è stato identificato con L. Celiano (pseudonimo sotto il quale pubblicò componimenti profani).
Sempre nella forma poetica del madrigale (con l'unica eccezione - a parte le canzonette - del sonetto Mentre madonna il lasso fianco posa), i testi del corpus gesualdiano sono in genere brevissimi, in qualche caso suddivisi in due parti, sintatticamente contorti e di una straordinaria, quasi epigrammatica concisione, che ben si concilia a contenuti drammaticamente espressivi e di notevole efficacia immaginifica, centrati su tematiche eminentemente amorose (ma di un amore tormentato, quasi mai corrisposto e più spesso correlato all'idea della morte).
La fedeltà di fondo della sua altrettanto concisa scrittura musicale ai caratteri "metrici, sintattici e semantici del testo poetico" lo porta a frammentarlo, a conferire alle singole voci del tessuto polifonico una più intensa identità emotiva, a manifestare una particolare sensibilità per le irregolarità ritmiche e le sfumature timbriche. Il G. enfatizza in funzione espressiva i contrasti, passando di continuo da una piana scrittura diatonica (generalmente nei passaggi veloci), a momenti di cromatismo esasperato (passaggi lenti), da blocchi intensamente omofonici a momenti di grande animazione contrappuntistica, ricorrendo di frequente a dissonanze "stravaganti" (come ebbe a definirle Macque) che non erano estranee alla scrittura di Arcadelt, Marenzio, Wert o Luzzaschi, ma che con il G. raggiungono un grado estremo di esasperazione.
Se nei primi due libri si rivela già la piena padronanza della tecnica contrappuntistica e di regole e moduli linguistici della tradizione madrigalistica del suo tempo, tanto che difficilmente le sue opere si potrebbero comprendere "al di fuori di un determinato ambiente, di un ben definito contesto culturale e mondano" (Degrada, 1965), è nei libri successivi che si manifesta quella "maniera dai primi alquanto differente" (come scrisse D. Mazzocchi nella dedica dei suoi Dialoghi e sonetti del 1638), l'emancipazione cioè da regole e convenzioni, fino ad arrivare - in casi estremi - alla loro violazione o superamento, cioè a quel delicatissimo passaggio che porta, come è stato osservato, al punto di saturazione del cromatismo.
Ma se in alcuni momenti il G. sembra distorcere, intensificare o allontanarsi dalle regole della polifonia rinascimentale con risultati di incertezza tonale e inquietudine armonica, che lasciano intravedere percorsi musicali dell'immediato futuro (e che tanto affascinarono i musicisti del nostro secolo), nel complesso rimase tuttavia saldamente e coerentemente legato alla tradizione polifonica modale, rispetto alla quale le sue licenziose irregolarità e "audacie" compositive si configurano come trasgressioni temporanee e, come tali, ammesse e ampiamente utilizzate nella pratica musicale del tempo.
Come scriveva Dahlhaus a proposito del cromatismo espressivo del G. e della sua supposta sensibilità "atonale", sarebbe "davvero una forzatura vedere nella "atonalità" di Gesualdo la negazione della rudimentale tonalità che si può osservare in più d'una danza o canzonetta del Cinquecento: la tradizione su cui si staglia la tecnica cromatica di Gesualdo è quella del contrappunto modale" (1967; trad. it. 1988, p. 207).
Nel contesto di quello che il Newcomb definisce lo stile "espressivo" degli anni Novanta, il G. si presenta dunque come uno sperimentatore e innovatore, come colui che "diede forse luce a tutti gli altri nel cantare affettuoso" (P. Della Valle, in Solerti, cit.) e che s'avventura per strade nuove riaffermando la validità di uno stile musicale che nel testo poetico trova un riferimento preciso, senza però che la sua certezza nel valore supremo del contrappunto venga mai incrinata.
È indubbio che il G. abbia sentito il fascino delle musiche destinate al Concerto delle dame ferraresi, così come fu certamente colpito anche dai primi esperimenti monodici ("Non cessa mai questo Serenissimo di esaltare le arie di Firenze": lett. di Fontanelli, 21 maggio 1594). Altrettanto sicuro è però che da queste esperienze non si fece influenzare che in modo del tutto occasionale; e anche la circostanza, pur significativa, che avesse tenuto al suo servizio quel F. Rasi "cantore dei monodisti", non può e non deve indurre a fraintendimenti di stile e di tempi. Perché il G. è solo un precursore (e come tale ricordato nel 1607 nella prefazione agli Scherzi musicali di Monteverdi), e non l'iniziatore o uno dei protagonisti della Seconda pratica che anzi, quando si afferma pienamente, vede anche concludersi la vicenda compositiva del G. e allo stesso tempo "the fulfillment and the end" della gloriosa tradizione madrigalistica di un passato recentissimo (Einstein, 1949, p. 608).
Anche nelle composizioni religiose del G. troviamo slanci innovativi insieme con caratteri di una fedeltà ancor più accentuata alla tradizione polifonica cinquecentesca: scrittura fortemente cromatica, alternarsi di brani in perfetta omofonia e momenti in imitazione contrappuntistica; uso frequente di madrigalismi (per es., una fuga in corrispondenza della parola "fugam"); rispetto per i valori espressivi di un testo che mette ancora una volta in primo piano il tema della morte e del dolore; uso frequente di ripetizioni nelle diverse voci al fine di conferire chiarezza e intellegibilità al testo sacro - secondo i dettami della chiesa postconciliare.
Come le Sacrae cantiones del 1603, tanto ammirate dall'Einstein (p. 692), o i 27 Responsoria del 1611, concepiti per l'ufficio notturno del giovedì, venerdì e sabato santo (preceduti solo di pochi anni dall'analoga raccolta di P. Nenna Responsori di Natale e di Settimana santa a 4 voci, Napoli 1607), che rispecchiano in pieno le ossessioni religiose e misticheggianti degli ultimi anni del G., e la sua adesione profonda al tema della Passione, ma anche la volontà del compositore di renderli perfettamente funzionali alle esigenze del rito liturgico.
Al G. vengono attribuite anche delle canzonette di virtuosistica eleganza, che però non furono mai pubblicate dall'autore - direttamente o indirettamente -, forse perché non le ritenne rispondenti al rango e alla sua fama.
Quelle che rimangono sono contenute infatti in raccolte di altri autori (P. Nenna, VIII libro, 1618: forse un estremo omaggio alla memoria del principe; F. Lambardi, Canzonette a tre,et a quattro et a cinque voci, 1616), o in antologie manoscritte (come la canzonetta spirituale Dove s'intese mai d'un cor dolente e Il leon infernal pien di furore: Bibl. Queriniana di Brescia; cfr. Kurtzman, 1979). Sulla base di considerazioni meramente stilistiche è stato inoltre ipotizzato che anche la canzonetta L'amoroso delfino, unico brano anonimo nella raccolta Lodi della musica, stampata a cura di S. Verovio a Roma nel 1595 e comprendente composizioni di Macque, Giovanelli, Anerio e dei due Nanino, sia attribuibile al G. (Mondolfi Bossarelli, 1969; il Vogel invece la indica come seconda parte del brano Al tremolar de l'onde di F. Anerio, II, p. 757).
Di notevole interesse sono anche le pochissime composizioni strumentali del G., in particolare la Canzon francese del principe, nella quale si riscontra l'influenza sia della musica per tastiera ferrarese (Luzzaschi, Wert, Ercole Pasquini, ecc.), sia di quella napoletana di fine Cinquecento, che vide tra i suoi protagonisti molti di quegli stessi autori che furono in contatto o al servizio del principe, come Filomarino, Stella, Macque, ecc.
Per quanto riguarda, infine, la questione assai complessa del "manierismo" del G., così come complessa e controversa è più in generale la definizione di manierismo musicale nelle composizioni di questo periodo, non solo vocali ma anche strumentali, ci si limita a rinviare al numero della rivista Studi musicali, III (1974), interamente dedicato all'argomento, nel quale viene riportata anche un'ampia bibliografia.
Composizioni: l'edizione critica dell'opera completa - Sämtliche Werke - del G., a cura di W. Weismann (madrigali: voll. I-VI) e G.E. Watkins (mottetti, responsori, salmi, canzonette e musiche strum.: voll. VII-X), è stata pubblicata ad Amburgo 1957-67.
Madrigali e canzonette: 6 voll. di madrigali a 5 v.: Libro I (16 madrigali), Ferrara, V. Baldini, 1594; Libro II (14 madr.), ibid., id., 1594; Libro III (17 madrig.), ibid., id., 1595; Libro IV (15 madrig.), ibid., id., 1596; Libro V (20 madrig.), Gesualdo 1611; Libro VI (23 madrig.), ibid. 1611 (poi riuniti nella Partitura delli sei libri de' madrigali a cinque voci…, a cura di S. Molinaro, Genova 1613); Primo libro delli madrigali à 6voci (13 madrig.), a cura di M. Effrem, Napoli 1626 (solo la parte del "Quinto").
Ristampe: Libro I (1594): Venezia 1603, 1607 e 1616; Libro II (1594): ibid. 1603, 1608 e 1617; Napoli 1604 e 1617; Libro III (1595): Venezia 1603, 1604, 1611 e 1619; Libro IV (1596): ibid. 1604, 1611, 1616; Libro V (1611): ibid. 1614; Napoli 1617; Libro VI (1611): Venezia 1616 (non comprende Già piansi nel dolore e Quando ridente e bella); Napoli 1617.
Per l'elenco completo dei madrigali e delle canzonette ordinati per incipit, con indicazione del vol. e l'eventuale autore del testo poetico, si rimanda alle voci in The New Grove Dict. of music and musicians, e in Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti.
Musica sacra (mai ristampata; per l'elenco completo vedi voce in The New Grove Dictionary): Sacrarum cantionum quinque vocibus liber primus, Napoli 1603 (19 brani); Sacrarum cantionum liber primus quarum una septem vocibus, caetere sex vocibus, ibid. 1603 (20 brani; mancano le parti del Bassus e del Sextus; i mottetti Assumpta est Maria, Da pacem Domine, e Illumina nos, a 7 voci, vennero completati nelle parti mancanti da I. Stravinskij, Tres sacrae cantiones, London 1960); Responsoria et alia ad officium hebdomadae sanctae spectantia sex vocibus, Gesualdo 1611: Feria quinta. In coena Domini (9 pezzi); Feria sexta. In Parasceve (9 pezzi); Sabbato sancto (9 pezzi); di questa raccolta, che comprende altre due composizioni a 6 voci del G.: Benedictus Dominus Deus Israel e il salmo Miserere mei, Deus, rimane un unico esemplare presso la Bibl. dell'Oratorio dei filippini di Napoli; inoltre il salmo In te Domine speravi, a 4 v. e basso continuo (in Salmi delle compiete de diversi musici napoletania 4 voci, … raccolti per M. Magnetta, Napoli 1620; il mottetto Delicta nostra ne reminiscaris, Domine, a 5 v., in S. Felis, Liber secundus motectorum, 1585).
Musica strumentale: Londra, British Library, Add.Mss. 30491, cc. 34b-38b: Canzon francese del principe (per strum. a tastiera); Napoli, Bibl. del Conservatorio, ms. 55 [già 4.6.3]: Gagliarda a 4, in Raccolta di composiz. varie per 4 strum. o per voci del sec. XVI (1629 circa); tre ricercari a 4 parti, in J. de Macque, Ricercate et canzoni francesi, Roma 1586 (perdute).
Raccolte e antologie antiche contenenti composizioni del G. (oltre a quelle cit. nel testo): Teatro de madrigali a cinque voci. De diversi excellentiss. musici napoletani, Napoli 1609 (con il madrigale T'amo mia vita); Novi frutti musicali…, Anversa 1610. Nuova scelta di madrigali di sette autori, raccolti da M. Magnetta, Napoli 1615. Per quanto concerne le raccolte manoscritte: Oxford, Christ Church Library, Add. Mss. 510-514 (risalenti al 1595-1605, attribuiti a F. Tregian jr., con circa 80 composizioni del G.); Londra, British Library, Add. Mss. 30491 (dopo il 1607, copiato da L. Rossi, comprende la Canzon franzese del principe); Egerton 3665 (inizio XVII sec.); Add. Mss. 31407 (XVIII sec.); Add. Mss. 11588 (circa 1783, ms. di Ch. Burney, contiene 13 madrigali del G.); Brescia, Bibl. Queriniana, ms. L.IV.99: Canto di canzonette e madrigaletti spirituali à 2. e 3. voci. d'auttori diversi. Libro VIII, Mich. Parius scribebat Parmae 1610 (contiene due unica del G., le canzonette Dove s'intese mai e Il leon'infernale).
Edizioni moderne: oltre alla già citata ed. critica, curata da Weismann e Watkins, si ricordano: L. Torchi, L'arte musicale in Italia nei secc. XIV-XVII, IV, Milano 1901; Madrigali a 5 voci di C. G., per canto e pianoforte, a cura di I. Pizzetti, Milano 1919; I classici della musica italiana, XIV, Milano 1919-21; Sacrae cantionesa 5 v., in Istituzioni e monumenti dell'arte musicale italiana, V, Milano 1934; I madrigali di C. G., a cura di F. Vatielli - A. Bizzelli, Roma 1942-58; I. Stravinskij, Monumentum pro G. da Venosa ad CD annum.Three madrigals recomposed for instruments (Asciugate i begli occhi e Ma tu, cagion di quellaatroce pena, dal V libro, e Beltà poiché t'assenti, dal VI), London 1960.
Fonti e Bibl.: Napoli, Bibl. nazionale, Mss. X-C-19: S.E.A. Corona, La verità svelata à principi ovvero Successi diversi tragici e amorosi occorsi in Napoli o altrove a napolitani; X-C-32: idem con Aggiunta à fatti tragici…; Archivio di Stato di Modena, Cancelleria ducale, Ambasciatori, bb. 11 (2769) e 88 (3345/72): A. Fontanelli, Carteggio con Alfonso II e Cesare d'Este; Carteggio con principi esteri, Napoli; bb. 1251/7 e 1251a/8: C. Gesualdo, Lettere; ibid., bb. 1252/9, 1253/11 e 1254a/12: Leonora d'Este, Lettere; Casa e Stato, b. 376, fasc. 2011/3: Testamento di C. G., 1613; Modena, Bibl. Estense, ms. alfa.G.1.7 (Ital. 699), e ms. alfa.G.1.8 (Ital. 700): A. Fontanelli, Lettere autografe a Ridolfo Arlotti; L. Contarini, La nobiltà di Napoli in dialogo (1569), Napoli 1680, pp. 54-71; S. Ammirato, Delle famiglie nobili napoletane, I, Firenze 1580; II, ibid. 1651; S. Cerreto, Della prattica musica vocale, et strumentale (1601), Bologna 1969, pp. 154 ss.; A. Guarini, Il farnetico savio ovvero Il Tasso, Ferrara 1610, pp. 13 s.; R. Micheli, Musica vaga et artificiosa, Venezia 1615, pp. 35 ss.; A. Kircher, Musurgia universalis (1650), Hildesheim-New York 1970, I, pp. 599, 602, 608 e 672; C. Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli, Napoli 1654-71, II, pp. 2 s.; C. Celano, Notizie del bello, dell'antico e del curioso della città di Napoli (1692), Napoli 1970, II, p. 709; G.O. Pitoni, Notitia de contrapuntisti e compositori di musica (1725 c.), Firenze 1988, p. 204; G.B. Martini, Esemplare, ossia Saggio fondamentale… (1775), Bologna 1965, pp. 94 s., 101; Ch. Burney, A general history of music (1776-89), Dover-New York 1964, II, pp. 177-181; J. Hawkins, A general history of the science and practice of music (1776), Dover-New York 1961, I, p. 437; P. Serassi, La vita di T. Tasso (1785), Firenze 1858, II, pp. 299 s.; C. Modestino, G., Eclano, Bonito. 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