Carlo Goldoni: Opere
Lo storico registra il giorno 25 febbraio 1707 come data di nascita di Carlo Goldoni, e, per scrupolo d'informazione, rammenta il nome del padre, Giulio, di professione medico, e della madre, Margherita Salvioni. Ma meglio di questa notizia d'anagrafe, per il lettore del Goldoni riesce illuminante quello che l'autore stesso scrisse in vecchiaia su questo «primo episodio» della sua vita: «Ma mère me mit au monde presque sans souffrir: elle m'en aima davantage; je ne m'annon^ai point par des cris, en voyant le jour pour la première fois; cette douceur semblait, dès-lors, manifester mon caractère pacifique, qui ne s'est jamais démenti depuis.» È questo il primo tratto col quale il Goldoni volle con segnarsi alla posterità, e di esso, come degli altri particolari desunti dai Mémoires., intesi a rilevare la sua naturale bonomia, si deve tener conto non per semplificare la spiegazione del genio comico dello scrittore, facendo tutt'uno della psicologia dell'uomo e della fantasia del poeta, ma per aderire alla natura della commedia goldoniana, strettamente legata, nelle sue riuscite e nei suoi errori, a una visione della vita non mordente e polemica, ma sorridente e condiscendente. Perciò nella giovinezza dello scrittore, tra vicende che in altro uomo, in quel secolo, avrebbero potuto determinare una vocazione di avventuriero, siamo disposti a seguire con inte ressata simpatia i vari fatti che meglio denotano in lui la capacità di vivere con abbandonata serenità le sue diverse esperienze: da quelle degli anni di scuola a Perugia, a Rimini, a Pavia, alle altre della sua irregolare carriera di funzionario della Cancelleria criminale a Chioggia e a Feltre, di avvocato in patria, di gentiluomo di camera e segretario del Residente veneto a Milano, di console della Repubblica di Genova a Venezia. A chi legge la storia di quegli anni nei Mémoires. non sfuggono tuttavia altri particolari, fatti e fatterelli sui quali l'autore venne ricostruendo la sua precoce passione per il teatro: la parte avuta a Perugia nella recita della Sorellina di don Pilone, la scoperta della Mandragola, lo spettacolo di marionette inscenato a Gorizia con lo Sternuto d'Ercole di P. J. Martello, le due prime azioni sceniche composte a Feltre - Il buon padre e La contatrice -, la composizione della tragedia lirica Amalasunta. Anzi non poche pagine dei Mémoires relative a questa stagione formativa, vanno considerate per ciò che adombrano di futuri motivi e tonalità, simpatie o ripugnanze per tipi morali ed ambienti. Così la ribellione del ragazzo alla pedantesca disciplina scolastica; la prudenza, quasi pruderie, del racconto quando gli episodi narrati sfiorano argomenti scabrosi; la prima crisi d'ipocondria - quella di specie mistica con la decisione di farsi frate; le ragionevoli considerazioni che lo indussero a non fidanzarsi con una fanciulla di Feltre che pure amava ma che «était une de ces beautés délicates que l'air flétrit, que la moindre peine dérange», avvertono che la sensibilità del Goldoni non si apre a turbamenti preromantici, se pure argomenti ispirati da una nuova sensiblerie potranno poi divenire anche suoi argomenti.
Ma soprattutto importante è l'amorosa conoscenza di Venezia, perfezionata nel periodo di pratica nello studio legale dell'Indric; una Venezia che incantava il giovanetto con lo spettacolo vivacissimo della sua vitalità, e gli offriva sette teatri contemporaneamente aperti. Egli frequentava quanto più spesso poteva quello di San Samuele; e questa appassionata frequenza agli spettacoli dei comici va considerata come la maggior esperienza culturale della giovinezza del Goldoni, che ne ebbe ben poche altre al di là degli studi scolastici, delle conoscenze giuridiche svogliatamente assorbite a Pavia, delle scarse e casuali letture di drammi e commedie ricordate nei Mémoires. cui si aggiungono per induzione Zeno, Metastasio, Maffei. Non vi è cenno nei Mémoires. a interessi culturali d'altra natura né a contatti con l'ambiente letterario veneziano, che era, del resto, un ambiente arcadicamente classicistico e tale che al nostro autore avrebbe potuto proporre soltanto lo studio e l'imitazione dei trecentisti e dei cinquecentisti. La cultura letteraria e generale del venticinquenne autore dell'Amalasunta è sostanzialmente quella che sarà sempre poi la cultura goldoniana: approssimativa, più orecchiata che meditata, non accademica anche quando negli scritti apologetici farà sfoggio di citazioni accademiche; affidata a un'intelligenza duttile e curiosa e, soprattutto, a una rapidissima capacità di cogliere in aria le idee, le nozioni, i gusti di volta in volta più attuali, e di assimilarli con disinvoltura e insieme con prudenza, sempre accettandone l'espressione media, e sempre e solo per quel tanto che essi possono giovare al suo teatro.
Ma dopo la composizione dell 'Amalasunta (1732), prima di arrivare al Momolo cortesan (1738), nel contatto con i comici e nei vari lavori per il teatro il Goldoni si venne anche formando quella «praticaccia» che non consistette solo in una conoscenza scaltrita della tecnica teatrale, ma per l'assiduo commercio con i comici sviluppò in lui un senso acuto della vita di teatro, un senso, si direbbe, del teatro come vita e della vita come teatro, che doveva fornire abbondante materia alle sue invenzioni. Tra la Amalasunta e il Momolo stanno l'intermezzo II gondoliere veneziano, la tragicommedia in versi Belisario, che procurò all'autore la stima del capocomico Giuseppe Imer e il suo ritorno a Venezia quale poeta di quella compagnia al Teatro San Samuele; e dopo il successo veneziano del Belisario (24 novembre 1734), altri intermezzi (La birba, L'amante cabala), e rimaneggiamenti del vecchio repertorio popolare (Griselda, Don Giovanni Tenorio, Rinaldo di Montalbano). Se però negli intermezzi già si fa valere la conoscenza dell'ambiente veneziano, solo col Momolo cortesan il Goldoni rivela un suo caratteristico processo inventivo: sotto la maschera del Pantalone Golinetti l'autore scopriva qualità psicologiche e fisiche atte a impersonare un caratteristico tipo di giovanotto della borghesia mercantile veneziana, appunto il cortesan; in questo carattere, rinnovando il presumibile procedimento originario delle maschere dell'arte, egli coglieva i tratti essenziali utili alla raffigurazione di un tipo e ne ricavava una sintesi psicologica definitiva, tale da poter essere rinnovata per una serie indefinita di riproduzioni: come infatti avvenne nelle due commedie di poco posteriori che riportavano in scena Momolo: Momolo sulla Brenta (1739-40), Il mercante due volte fallito (1741). Perciò, anche se noi non leggiamo il Momolo nella prima stesura ma nel tardo rifacimento del 1755-56, per il quale fu riscritta anche la parte del protagonista, il valore della commedia è rilevantissimo; tanto più che quell'avviamento che essa segnava verso modi tipici della matura arte goldoniana trovava di lì a qualche anno una bella conferma nella prima commedia «disegnata e interamente scritta, senza lasciare a' comici libertà di parlare a talento loro»: La donna di garbo (1743). Pensata e scritta per la «servetta» Baccherini, lavorata con assidua, amorosa attenzione al modello, la commedia voleva riportare nella mobile realtà una figura irrigidita ormai dall'abuso. A questo punto insomma era bene in atto la riforma come la spiegava il nostro autore, ma era in atto anche quella che è la parte non tecnica ma artistica della riforma: la nuova intuizione del rapporto tra vita e teatro che differenzia il Goldoni sia dagli autori di scenari sia dai letterati riformatori che lo precedettero.
Ma proprio in quell'anno 1743, quando la consapevolezza dei suoi mezzi artistici era raggiunta, fra il maggio e il giugno debiti e disavventure costringono nuovamente il Goldoni a lasciare Venezia. Va a Bologna; di lì a Rimini, occupata allora dagli Austriaci, per i quali, durante il carnevale del '44, organizza e dirige spettacoli teatrali; da Rimini, con un lento viaggio attraverso la Toscana, arriva a Pisa verso la fine dell'anno; in quella città si stabilisce e per tre anni vi esercita l'avvocatura. Tra i fatti di questo periodo, notissimi perché affidati a capitoli tra i più belli dei Mémoires, il Goldoni dà rilievo alla composizione di due scenari su richiesta del famoso Truffaldino Antonio Sacchi: Il servitore di due padroni, elaborato nell'autunno del '45, e Il figlio d'Arlecchino perduto e ritrovato, dell'anno seguente. Quest'ultimo ebbe grande popolarità anche fuori d'Italia, e ad esso, tanti anni dopo, il Goldoni dovrà l'invito a dirigere gli spettacoli della Comédie-Italienne di Parigi; ma solo il Servitore di due padroni ha un proprio luogo nella storia della commedia goldoniana: è, non meno del Momolo, un proto tipo. Sia detto anche questa volta con cautela, perché il Servitore da scenario divenne commedia scritta solo nel 1753; ma le parole, la qualità del dialogo contano meno di ciò che nella più matura rielaborazione non dovette - si pensa - subire modifiche: dico la velocità dell'azione, la successione febbrile di incidenti provocati dallo sciocco eppure accorto Truffaldino, il ritmo, il rapidissimo, incalzante ritmo scenico nel quale soltanto sta la virtù della com media. È una prova di virtuosismo, un compiaciuto gioco inventivo; senza nemmeno l'ombra di quell'interesse morale che nelle commedie precedenti e in alcune delle prime della prossima ripresa ha un tal quale rilievo nella netta opposizione di buoni e cattivi, secondo il gusto popolaresco tradizionale degli spettacoli dell'arte fra i quali il Goldoni s'era formato. Ma il Servitore di due padroni riproduce e tramanda anche un aspetto della commedia dell'arte, forse il più genuino e caratteristico: la così detta «comica artificiosa», tutta affidata al moltiplicarsi delle invenzioni, alla velocità della progressione e all'intelligenza mimica delle maschere. Il Servitore mostra che il Goldoni già nel suo esordio ha interpretato e assimilato l'essenza di questa forma dell'arte. Muove di qui un filone dell'arte sua, che mette capo al Ventaglio; ma di qui anche ha origine la tipica sensibilità goldoniana del ritmo scenico e dia logico.
A Pisa, l'agosto del 1747, l'avvocato Goldoni riceve la visita del D'Arbes, Pantalone nella compagnia di Gerolamo Medebach, che gli richiede di comporgli uno scenario, ma che soprattutto (chi non ricorda la bella pagina dei Mémoires) gli riporta l'amore del teatro, gliene acuisce la nostalgia. Nel settembre, a Livorno, conosce il Medebach e stringe un impegno con lui; nell'aprile del seguente anno 1748 abbandona Pisa e si avvia a raggiungere i suoi comici al Teatro Sant'Angelo di Venezia, dove giunge nell'ottobre, all'aprirsi della stagione teatrale.
Il triennio avvocatesco a Pisa è l'ultima evasione del Goldoni dal teatro. D'ora in avanti egli sarà soltanto uomo di teatro, vi farà con fluire tutta la sua esperienza di vita; continuerà a farne parte, al meno col desiderio, nell'evocazione dei suoi Mémoires anche negli anni vuoti della tarda vecchiaia. Quattordici anni filati, dal 1748 al 1762, dura la piena attività teatrale del Goldoni; e bisogna pure ricordare che è attività essenzialmente professionale, pratica, in cui sopperire alle richieste dei comici e secondare i gusti del pubblico e precorrerne o anche provocarne i nuovi orientamenti è necessità di mestiere. I mutamenti nelle compagini delle compagnie con le quali via via lavora, i teatri diversi, le mutevoli reazioni del pubblico, avranno sempre un peso non trascurabile nello svolgimento dell'arte goldoniana, in quel suo corso irregolare, contraddittorio, soggetto ad involuzioni e compromessi che non si possono spiegare soltanto con la sempre scarsa consapevolezza critica dell'autore. D'altra parte non si tenti d'immaginare il Goldoni in una di versa, riposata o libera, condizione di vita: che sarebbe, anzitutto, anacronistica, ma più ancora aliena dal «genio comico» goldoniano, dalla formazione artistica compiuta sulle tavole del palcoscenico, dal carattere antiaccademico della sua cultura. La rapidità o, più spesso, la fretta compositiva è una necessità di mestiere che diventa una caratteristica costante della sua ispirazione comica, comporta un particolare modo di osservare la realtà circostante, coincide, insomma, o può coincidere con la più schietta natura del Goldoni, come stanno a provare i capolavori che in quegli anni nacquero contemporaneamente e alle stesse condizioni di opere mediocri.
Tornato dunque al teatro, il Goldoni si propone di riprendere gli esperimenti riformatori tentati dieci anni avanti (del Momolo e della Donna di garbo non si era ancora spento il ricordo), e di svolgerli metodicamente, progressivamente, fino alla piena attuazione di un suo programma di riforma della commedia; programma che i Mémoires e ogni altro scritto autobiografico vogliono presentare ai lettori come implicito originariamente nel «genio comico» dello scrittore, e via via corroborato e confermato dalle sue reazioni infantili e giovanili di spettatore, dai suoi primi contatti diretti col teatro, dalle prime prove di scrittore, e infine da ogni esperienza di vita. Nella idealizzazione autobiografica goldoniana la riforma è concreta e chiara fin dalle origini; le incertezze, le contraddizioni, le provvisorie involuzioni che si osservano nel corso del suo svolgimento sono attribuite soltanto a resistenze e necessità esterne. In realtà non è così; non almeno quando si consideri il progresso della riforma per ciò che criticamente conta di più, vale a dire come il cauto, irregolare, oscillante progresso della coscienza artistica del Goldoni. Ma indubbiamente la riforma teatrale goldoniana fu anche, o soprattutto, un atto pratico, esercitò un'azione sul teatro del suo tempo con un suo valore eversivo di novità che le polemiche contemporanee testimoniano abbondantemente; e - non si dimentichi, né le affermazioni goldoniane di originalità lo facciano di menticare - venne ad inserirsi in un moto culturale, ne approfondì e ne svolse le premesse. Per quanto estraneo all'attività di circoli letterari, il Goldoni tuttavia assorbì lo spirito di rinnovamento infuso dall'Arcadia, fin dal principio del secolo, nella cultura italiana, venuta allora nuovamente a contatto con la cultura europea, con la francese specialmente. E proprio nel campo del teatro le aspirazioni riformistiche dell'Arcadia si erano venute concretando in alcune fondamentali richieste, formulate in opere teoriche e sperimentate in opere sceniche; le une e le altre non ignote al Goldoni che nei Mémoires. ed altrove ricorda lo Zeno, il Metastasio, P. J. Martello, il Maffei, e il Gigli, il Fagiuoli, il Nelli.
Per il teatro comico l'ideale arcadico di riforma, stimolato dal l'esempio del Molière e dalla fortuna della commedia molieriana in Italia, si ispirava a una doppia esigenza, moralistica e letteraria, ambedue informate a una mentalità classicistica: correggere la commedia dall'oscenità e volgarità ormai tradizionali nella decaduta pratica dell'arte, e ridarle la classica funzione educativa; ricondurre gli stravaganti soggetti dell'arte sotto le leggi aristoteliche delle unità e della verisimiglianza; e, d'altra parte, purgare la commedia dal linguaggio secentesco che i comici vi perpetuavano ripetendo le battute ereditarie dei loro prontuari. I corollari pratici di queste esigenze sono: commedia tutta scritta, commedia senza maschere, come appunto vuole e fa il Goldoni. Ma anche ad altri punti della idea arcadica di riforma si adegua la riforma goldoniana: anch'essa si preoccupa di restituire alla commedia il compito di correggere i vizi della società contemporanea, deridendoli moderatamente sulla scena; e indubbiamente il punto di maggior contatto fra il Goldoni e la corrente letteraria della sua età giovanile sta nella esigenza di verità, di osservazione diretta della realtà circostante che è implicito nell'assunto moralistico sopra ricordato. Ma i propositi arcadici di riforma della commedia si erano formati in ambienti ristretti di cultura accademica; le commedie che più o meno consapevolmente vi si attennero furono scritte per teatri privati, di corte, di accademie, di famiglie patrizie, e recitate da dilettanti. La riforma goldoniana (la si consideri qui tanto come formulazione della coscienza artistica dello scrittore, quanto come pratica nuova opposta alla tradizione dell'arte) si formò invece sul palcoscenico di teatri pubblici, fra attori professionisti, davanti a pubblici eterogenei: avvenne sul teatro, contro quel fenomeno secolare che era il teatro dell'arte, ma dall'interno di esso, ripercorrendo spesso il cammino che riconduce alle sue origini creative, rinnovando, abolendo, modificando, assimilando, mai dunque ignorando questo teatro, e nemmeno mai dimenticando che esso era nato in funzione antiaccademica, quale reazione popolare del buon senso di fronte alla noia del teatro classico.
Ha ragione il Goldoni di insistere, cominciando dalla Prefazione alla prima raccolta di commedie (1750), nel presentare i suoi argomenti non come il risultato di elucubrazione dei precetti rettorici degli antichi, ma come il frutto di una diretta esperienza della scena. E il suo realismo va ben oltre il generico bisogno di concretezza dell'età arcadica; non solo per il nativo vigore della natura artistica goldoniana, ma perché fra il proposito e l'atto non si frappone uno schermo letterario, un obbligato rispetto di canoni rettorici e di modelli, l'abito di una disciplina letteraria e linguistica; si frappongono invece esigenze teatrali di ordine pratico, e la resistenza che modi e schemi vecchi fanno al contenuto nuovo. La reazione dei contemporanei alla riforma goldoniana, per la parte che in essa ha interesse storico e critico, è essenzialmente una reazione di natura rettorica, si formula in accuse di inverisimiglianza, di violazione della seconda unità (il prudente Goldoni, rispettoso delle altre due leggi, per questa si era limitato a un compromesso: variare il luogo dell'azione, ma sempre entro le stesse mura cittadine); accuse di immoralità, rivolte non ai frequenti casi di apatia, evasività, ambiguità di giudizio etico, ma a volgarità, plebeità di espressioni e di situazioni troppo aderenti al vero; accuse di insufficienza linguistica. Una reazione insomma che non si appunta contro le affermazioni teoriche del riformatore, ma contro la geniale estemporaneità del commediografo, contro la povertà di sapienza linguistica e di educazione classicistica con cui egli si avventurava ad esprimere il suo nuovo sentimento del vero. L'insofferenza critica del suoi due maggiori avversari, Carlo Gozzi e il Baretti, è essenzialmente di questa natura; ma si pensi che persino l'abate Chiari entrerà in campo denunciando l'inverisimiglianza della Vedova scaltra. Per il resto la battaglia contro la riforma goldoniana fu anzitutto questione di concorrenza teatrale, di cassetta; si alimentò della insufficienza e della pigrizia di attori cresciuti, diremmo, con la maschera sul volto, e del conservatorismo sentimentale di chi vedeva minacciata la sopravvivenza del mondo comico dell'arte, di tradizione secolare e gloriosa, e tipicamente italiano.
La prima vera affermazione della riforma goldoniana si ebbe dunque con La vedova scaltra che trionfò la sera del 26 dicembre 1748 al Teatro Sant'Angelo. Per le sue velleità di definizione psicologica dei caratteri, per l'intreccio complicato trattato però con limpidezza e rapidità, dovette sembrare una novità agli spettatori veneziani. Noi vi ammiriamo piuttosto la rara capacità costruttiva e, se mai, ricerchiamo nella vedova Rosaura il vago precorrimento di Mirandolina; al modo stesso che nell'Uomo prudente, di quello stesso anno, pur dentro alle goffaggini e alle complicazioni romanzesche dell'intreccio, ci interessiamo all'approfondimento del carattere di Pantalone, che per la prima volta cessa di ripetere il tipo del vecchio mercante fallito e libertino per dar luogo al personaggio più intimamente, più autobiograficamente goldoniano. Pantalone comincia di qui ad impersonare il vecchio mercante fatto ricco da onesti traffici e saggio dalla lunga esperienza; generoso, ma prudente; sensibilissimo agli affetti familiari e all'amicizia, ma un poco ruvido; sobrio, ma non alieno da semplici piaceri; dotato in ogni occasione del senso ben chiaro del limite: nell'Uomo prudente è insomma il germe di quante altre più vigorose e concrete incarnazioni subirà il personaggio di Pantalone, fino ai Rusteghi, a Sior Todero, e, addirittura, al Bourru bienfaisant.
Ma su un'altra commedia di quel periodo vuole fermarsi la nostra attenzione: La putta onorata (1748), che è la prima commedia goldoniana in dialetto e di costumi popolari - se si bada che il rifacimento del Momolo è più tardivo -, ed è già ben significativa del valore che ebbe per il nostro autore il dialetto veneziano. Ancora con non poco di rozzo e di programmaticamente realistico, il dialetto della Putta onorata è già tuttavia capace di sfumature, di allusioni, di asprezze, di gentile o grossolana festosità che l'italiano del Goldoni né allora né poi seppe raggiungere. Cominciando dalla Putta onorata il dialetto, non per un'astratta virtù della parlata veneziana, ma per la perfetta adeguazione ad essa della fantasia dello scrittore, ha una sua evoluzione estetica che la lingua goldoniana non conosce. Non c'è vero progresso linguistico dalla Vedova scaltra agli Innamorati, alle Smanie per la villeggiatura, al Ventaglio, ma soltanto un più accorto ed elegante contrappunto dialogico: la sostanza lessicale è immutata, mentre dal dialetto corposo della Putta onorata si giungerà a quello dei Rusteghi, a quello così ricco di capacità evocative delle Baruffe chiozzotte.
In questo momento della prima maturità venne anche ad inserirsi la rivalità col Chiari. L'episodio, famoso e senza dubbio importante oltre che come fatto di cronaca come segno di un interesse critico da parte del pubblico che si divise allora in chiaristi e in goldoniani, non va peraltro sopravalutato. Nonostante certi argomenti critici puntigliosamente ripetuti - gli appelli ad Orazio del Chiari o le accuse di inverisimiglianza a lui mosse dall'avversario -, fu quella una lotta di concorrenza, un'aspra contesa per assicurarsi e conservare gli spettatori, una gara per lusingarne i gusti e solleticarne la brama di novità. L'abate Pietro Chiari aveva cominciato in quel l'autunno del '49 la sua carriera di autore comico. Dotato com'era d'ingegno vivace e stravagante, fornito d'una cultura affastellata ma non priva di fondamenti classicistici, portato dalla sua pratica d'improvvisatore di romanzi all'avventuroso, all'esotico, al grossa mente patetico, il Chiari non ebbe nessuna vera dote d'artista; e per questo abbiamo rinunciato a scegliere dal suo teatro qualche scena di commedia - come pur s'era pensato di fare -, in quanto la soddisfazione di una marginale curiosità dei lettori avrebbe condotto a gravare il nostro volume di pagine inerti e interessanti piuttosto l'aneddotica che non la storia del teatro goldoniano. La rivalità col Chiari determinò comunque, insieme con le deviazioni intese ad indulgere al gusto del pubblico, un intensificarsi dell'attività del Goldoni: appunto l'anno 1750-51 fu l'anno delle sedici commedie nuove, ed è notevole che, per ribadire garbatamente i princìpi della sua riforma, il Goldoni inaugurasse la serie con il Teatro comico, bella affermazione programmatica, cui tennero dietro commedie quali La bottega del caffè, Il bugiardo, la Pamela, I pettegolezzi delle donne, che se non possono annoverarsi tra gli autentici capolavori contengono tuttavia motivi essenziali per l'opera futura: specialmente la Pamela con la sua accentuazione del patetico, ma anche con il prevalere del buonsenso sulla passione, resta un importante documento dei limiti entro i quali il Goldoni seppe accettare la moda della «commedia lagrimosa». L'ideale goldoniano della femminilità doveva però trovare di lì a qualche tempo una ben più schietta ed artistica espressione nella Locandiera, che, recitata la sera del 26 dicembre 1752 al Teatro Sant'Angelo, fu il migliore frutto della collaborazione col Medebach.
L'anno seguente, mentre il Medebach assumeva come suo poeta il Chiari, il Goldoni passava al Teatro San Luca di cui era proprie tario il patrizio Francesco Vendramin. Ebbe allora inizio una stagione delle meno felici per il nostro autore. L'inasprirsi della polemica col Chiari e le pressioni del Vendramin lo portarono ancor più ad assecondare i gusti del pubblico: gli anni dal '53 al '58 rappresentano un periodo di stasi nel quale non solo si moltiplicano commedie di carattere in cui i personaggi, anziché trovare una loro mobilità di creature vive, tendono sempre ad irrigidirsi in tipi (La donna di testa debole, Il filosofo inglese, La madre amorosa, L'avaro, Il cavaliere di spirito, ecc.), ma si succedono quelle tragicommedie di soggetto esotico che ebbero fortuna presso il pubblico d'allora ma che a un lettore spassionato scoprono tutta la falsità di un romanzesco cerebrale: basta ricordare la trilogia d'Ircana, La sposa persiana (1753), Ircana in julfa (1755), Ircana in Ispahan (1756). Le prove più felici, e più interessanti soprattutto per gli approfondimenti che ne dovevano venire nei capolavori posteriori, furono in quegli anni le commedie dialettali, nelle quali anche il verso, accettato dal Goldoni contro i presupposti del suo realismo, arriva ad effetti musicali gustosi: nelle Donne di casa soa (1753), nelle Massere (1755), nelle Morbinose (1758), ma soprattutto nel Campiello (1756), nel quale lo spunto carnevalesco di altre commedie dialettali veniva artisticamente riscattato da una felice vena di ilarità, di festevolezza, di grazia musicale.
Ma due episodi biografici non vanno qui trascurati: la polemica di Carlo Gozzi che, iniziatasi nel 1755 con attacchi al Goldoni insieme e al Chiari, venne in quegli anni via via inasprendosi; e il viaggio a Roma nel '58-59. Gli argomenti del Gozzi erano ben altra cosa che i pretesti del Chiari: si direbbe che, prese ad una ad una, le sue obiezioni contengono tutte un fondamento di verità, ma il tono acre, l'intemperanza delle accuse riducono di molto il significato della sua critica. È notevole poi che mosso dal proposito di colpire insieme il Chiari e il Goldoni, il Gozzi si accanisse vieppiù contro quest'ultimo per l'implicito riconoscimento della sua grandezza. Anche dalla statura dell'avversario il Goldoni ricevette dunque lo stimolo a rafforzarsi nei suoi propositi: dietro la bona rietà del suo carattere c'era in lui una persuasione profonda nella bontà delle sue idee, e quella stessa indulgenza per la quale nei Métnoires egli non proferirà mai il nome del rivale è un segno della sua forza. Il viaggio a Roma poi, se fu per se stesso come esperienza di uomo di teatro un fatto poco concludente, lo portò a rinnovare il suo repertorio e lo dispose, al ritorno a Venezia, ad affrontare il pubblico con la serena sicurezza dell'artista giunto al vertice del suo svolgimento spirituale. Il rinnovamento ebbe inizio con Gl'innamorati, composti a Bologna nel settembre del '59 nel viaggio di ritorno da Roma. A Venezia, nel breve periodo fra il '60 e il '62, seguirono, per ricordare solo le opere eccellenti, I rusteghi, Un curioso accidente, La casa nova, Le smanie per la villeggiatura, Sior Todero brontolon, Le baruffe chiozzotte e Una delle ultime sere di carnevale, che recitata alla fine della stagione teatrale del '62 fu il congedo dell'autore dal pubblico veneziano.
Non per facile saggezza di storici che giudicano le cose post eventum diremmo tuttavia che anche in questi capolavori non vi è nulla che non potesse essere preveduto, e ben c'intenderà il lettore che abbia seguito questa rapida ricostruzione dell'opera del com mediografo attraverso i suoi temi vitali e che voglia considerare le brevi note introduttive da noi premesse a Gl'innamorati, ai Rusteghi, alle Smanie per la villeggiatura, al Sior Todero e alle Baruffe chiozzotte. Non solo personaggi e situazioni di queste commedie hanno loro anticipazioni in opere più giovanili; ma i modi tipici dell'arte goldoniana in quanto essa attingeva dal teatro dell'arte e in quanto per il suo fondamentale gusto realistico riprendeva dalla vita, trovano qui la loro più perfetta orchestrazione. Non osservava Gasparo Gozzi a proposito dei Rusteghi che il pregio maggiore della commedia stava nel saper tenere sulla scena quattro figure di rusteghi, ognuno con un carattere suo, sì che questa reincarnazione del tipo di Pantalone portava alla ricostruzione, in parte nostalgica in parte distaccata, di tutto un ambiente e un costume della vecchia Venezia? Non potremmo, spostando di poco l'osservazione del Gozzi, soggiungere che le varie incarnazioni dei personaggi femminili, compresa Mirandolina, si concludono nelle Smanie per la villeggiatura, nelle quali le situazioni di due commedie precedenti - I malcontenti del 1755 e La villeggiatura del 1756 - trovano la pienezza dell'espressione artistica grazie al personaggio di Giacinta, o meglio all'antagonismo di Giacinta e Vittoria? E non diciamo delle Baruffe chiozzotte. il più alto capolavoro goldoniano, che dal Campiello deriva la sua felice natura di commedia corale, ma che sa anche portare a una forza drammatica senza pari quel mondo popolano di donnette e pescatori, e a un vigore magnifico quel dialetto che non è l'autentico chioggiotto ma un impasto originale di chioggiotto e veneziano, un impasto che non conosce altra regola che il genio inventivo del poeta.
Nonostante il successo che Carlo Gozzi aveva riportato con la rappresentazione della prima delle sue Fiabe, recitata nel '61, quando il Goldoni si congedò dal pubblico veneziano e lasciò la sua città per andare a Parigi a lavorare per la Comédie-Italienne, non partiva dunque come un vinto. Ma a Parigi le difficoltà oppostegli in parte dai comici mediocri in parte dal pubblico impreparato a comprendere la commedia riformata, finirono per stancare la vena dell'artista. Egli si adattò a preparare quegli scenari che poi rielaborò nella trilogia italiana degli Amori di Zelinda e Lindoro, rappresentati a Venezia nel 1764; e perché il genio sa estrarre pure dalle costrizioni della tecnica l'impulso alle sue invenzioni e, soprattutto, per quello che nel suo teatro aveva saputo far entrare della vecchia commedia dell'arte, a Parigi scrisse ancora un capolavoro: Il ventaglio (1765). In questa commedia, in cui, se si eccettua il maggior rilievo che ha la contadina Giannina, i personaggi sono appena delineati quel tanto che basta a non provocare sconcerto e confusione negli spettatori, il Goldoni tornava infatti a quella sua maniera di concepire il teatro come pura azione scenica, come ritmo e movimento, che, avvertibile anche nelle commedie di carattere, si riporta tuttavia al filone inaugurato dal Servitore di due padroni. Né con questo felice ritorno ai modi del teatro del l'arte egli aveva esaurito del tutto le sue possibilità di artista. Di lì a cinque anni riportava l'ultimo suo successo con la rappresentazione del Bourru bienfaisant ch'ebbe luogo il 4 novembre 1771 alla Comédie-Francaise. Questo dobbiamo considerare l'estremo congedo del nostro autore dalla viva pratica di uomo di teatro, ché scarso interesse ha per noi l'altra commedia francese composta di lì a un anno, l'Avare fastueux, recitata senza successo nel teatro di corte di Fontainebleau. Il Bourru bienfaisant nella sua chiara struttura, nella vivacità del dialogo, nel giusto equilibrio di comicità e sentimento, recava ancora il sigillo del grande artista; ma nello sforzo di adeguarsi ai modi del teatro francese veniva pure a sacrificare non poco della freschezza, della briosa vivacità, della spontaneità comica proprie delle più belle commedie goldoniane. Possiamo spiegarci come per i suoi pregi di commedia classicistica il Bourru meritasse il plauso dei detrattori più accaniti del Goldoni: di Carlo Gozzi, del Baretti, del Bettinelli; e se non fosse che, nell'ammirare, essi insinuavano che tanta eleganza nel trattare la lingua francese riusciva sospetta, e se non fosse, soprattutto, che le ragioni del loro consenso venivano a ribadire la ostilità alle parti più vitali del teatro goldoniano, diremmo che questo riconoscimento tardivo ha pure un suo peso nella storia della critica goldoniana, segnando la definitiva rivincita del geniale scrittore sugli ostacoli incontrati nel suo lungo cammino.
Di fatto la vena del creatore s'era inaridita, la grande avventura del commediografo era conchiusa. Non per questo l'uomo si chiuse scontrosamente in se stesso: egli trovò qualche conforto negli impegni pratici - già nel 1765 aveva avuto l'incarico d'insegnare la nostra lingua alla principessa Maria Adelaide, figlia di Luigi XV, e dal 1775 al 1780 fu maestro d'italiano della principessa Clotilde -, e con la sua nativa saggezza seppe cogliere tutti i conforti che gli dava la vita di Parigi. Fu quello un rattepidirsi non uno spegnersi delle passioni, e se non la vena del creatore sopravvisse a lungo ancora la felice disposizione a riassaporare nel ricordo le varie esperienze vissute: dal 1783 al 1787 cade la composizione dei Mémoires. Sono i Mémoires. l'opera con la quale lo scrittore dava il suo sereno addio alla vita: non la più bella delle commedie goldoniane, come s'è ripetuto secondo una troppo fortunata definizione del Gibbon, ma l'opera della calma senilità, nella quale quell'uomo che molto aveva amato la vita e il teatro, riprendendo gli spunti delle Prefazioni ai diciassette tomi dell'edizione Pasquali, rinarrò con affettuoso compiaci mento le vicende della sua esistenza e le varie occasioni della sua esperienza d'uomo di teatro. Ultima testimonianza, se mai, del fondo idillico del suo carattere, nei pregi e nei difetti, sembra questa vasta autobiografia a chi consideri che tanta serenità il Goldoni seppe conservare quando la sua salute era gravemente compromessa - aveva quasi del tutto perduto l'uso della vista -, e quando la Francia che egli amò era già scossa dai primi sussulti di quella Rivoluzione che poi, con un decreto dell'Assemblea Legislativa, doveva togliergli anche la pensione di Corte di cui beneficiava e ridurlo a morire nella miseria in età di 86 anni, il 27 febbraio 1793.
Nell'opera di Carlo Goldoni si assommano, come solo avviene nelle grandi creazioni dello spirito, le aspirazioni e le diffuse esperienze di almeno due generazioni di scrittori. Quello che s'è detto della riforma e del suo significato, vuole dimostrare, oltre l'originalità del poeta, il perfetto affiatamento dello scrittore con i gusti e le idee del suo tempo. Tuttavia in questo volume che, senza indulgenza a fatti minori o a curiosità aneddotiche, vuol ricostruire il vero itinerario poetico del Veneziano, è sembrato giusto serbare una parte ai commediografi minori del Settecento, anche perché al ritratto non manchi il suo vivo sfondo. L'appendice di scene di commedie del Settecento non è stata concepita in funzione del Goldoni: sarebbe invero riuscita tendenziosa e perciò inefficace una scelta che, movendo dal proposito di porre in risalto l'originalità artistica del Goldoni, sacrificasse la giusta documentazione storica.
Il teatro, nelle sue varie forme di tragedia commedia melodramma opera buffa, fu la passione del secolo XVIII, e fu, non meno, il banco di prova, forse il maggior puntiglio degli scrittori dell'età che, per fare solo nomi grandi, s'apre col Metastasio e si chiude con l'Alfieri. La scelta dai commediografi minori doveva essere una documentazione del gusto, delle idee, delle poetiche dominanti fra l'età dell'Arcadia e l'occupazione francese. Ben sappiamo che chi desideri un'informazione più esauriente dovrà allargare le sue letture; e noi stessi abbiamo provato non di rado il rincrescimento di dover sacrificare opere o brani di opere dai quali risultano, se non cose artisticamente rilevanti, almeno particolari interessanti il costume e le idee del secolo. Ma più importante era raccogliere in sintesi le tendenze, i propositi, i vari esperimenti del teatro comico del Settecento: meglio si vede quale fosse l'abbondanza di umori e come la figura del Goldoni non sia proprio un'apparizione miracolosa. Ma meglio così si comprende come quelli che erano propositi intelligenti di letterati solo nel Goldoni abbiano trovato il poeta capace di sollevarli alla purezza dell'espressione artistica e a quell'organica fusione che smussa le punte intellettualistiche e ridà vita sensibile ai pretesti della critica e della satira di costume.
Bastino alcuni accenni. L'idea della riforma, cioè di una commedia regolare non più affidata ai lazzi e alle improvvisazioni degli attori, è già tutta spiegata nelle commedie di Girolamo Gigli e di Iacopo Angelo Nelli, con impliciti pure i modi figurativi di quella rappresentazione realistica della vita che, nell'età del dominante gusto arcadico, è uno degli indizi più sicuri di sensibilità moderna, affiatata coi tempi. Ma le imitazioni, e addirittura le traduzioni dal teatro di Molière tipiche del Gigli, e le laboriose contaminazioni tra l'antico e il moderno, tra il dotto e il popolare, in cui spiega la sua abilità il Nelli, se paragonate alle invenzioni del teatro goldoniano non possono non scoprire immediatamente la loro natura esclusivamente letteraria e cerebrale. Altrettanto l'uso degli elementi dialettali, sia nel fiorentino Giovanni Battista Fagiuoli sia nel padovano Antonio Simeone Sografi - il quale per l'età in cui visse e per l'ambiente nel quale lavorò potè pure avvantaggiarsi dell'esempio del grande Veneziano -, restava una trovata spiritosa, della quale si avverte bene il modesto significato quando si abbia presente la sapiente coloritura del dialetto goldoniano nei suoi vari toni, dal crudamente realistico al morbidamente allusivo, dal sentimentale al drammatico. Se poi si considera la facoltà di porre in caricatura certi aspetti del costume contemporaneo senza toccare i modi incisivi della satira ma restando fedeli all'ideale di un sorriso oraziano, solo nelle intenzioni sussiste una comunanza tra le commedie di Scipione Maffei e gli incomparabili «divertimenti» goldoniani: delle Smanie per la villeggiatura, per esempio, ma anche di tutta la galleria di «ridicoli» che si può estrarre dall'insieme delle commedie. Per questa via si sarebbe quasi tentati di dare ragione alle più acrimoniose accuse di Carlo Gozzi, il quale tacciava il rivale di eversore dell'ordine costituito per quel suo mettere in berlina sempre i rappresentanti dell'aristocrazia e per quel suo cogliere in una luce di simpatia i personaggi del medio ceto e del popolo minuto. Ma veramente si tratta d'altro. Mentre negli scrittori d'ispirazione letteraria venivano ripresi moduli secolari, e però frusti, e nei contadini del Fagiuoli, insieme con influenze del teatro francese, si ritrovano echi della tradizio nale satira del villano che fanno ripensare addirittura al Pulci e a Lorenzo il Magnifico, il grande modello dei borghesi e dei popolani del Goldoni non era la letteratura, ma, come sempre, la realtà, vale a dire la vita sociale colta con quel calore di simpatia, con quel consenso cordiale cui va riportata la prima ragione del realismo goldoniano. Tanto che, se al famoso epigramma di Voltaire, nel quale la Natura chiamata come arbitra sancise che tout auteur a ses défauts mais ce Goldoni m'a peinte, volessimo attribuire autorità critica, dovremmo precisare che la natura dipinta dal Veneziano non è altro che la realtà storica e sociale dentro alla quale egli visse.