GOLDONI, Carlo
I. La giovinezza. - Nacque il 26 febbraio 1707 a Venezia, nel palazzo dei Centani a S. Tomà, da Giulio e da Margherita Savioni. Il nonno Carlo Alessandro, notaio, si era trasferito a Venezia da Modena. Da lui e dal padre il G. ereditò la passione per il teatro, l'umor gaio e socievole e la facilità di spendere. Sin dall'infanzia, su un teatrino di burattini che sorgeva in una loggia della casa, si divertiva, a imitazione del padre, a improvvisare commediole; una ne scrisse per intero a nove anni. Nell'autunno del 1716 Carlo raggiunse a Perugia il padre che vi esercitava la medicina e per tre anni studiò grammatica e rettorica nel collegio dei gesuiti. Nel 1719 il padre andò medico a Chioggia e lasciò Carlo a Rimini, in casa d'un amico, a studiare filosofia sotto la guida d'un domenicano. Ma nel secondo anno il G., fatta amicizia con la compagnia comica di Florindo dei Maccheroni, e specialmente con le giovani attrici veneziane, alla fine delle recite fuggì nella barca dei comici da Rimini a Chioggia, troncando per sempre il corso di filosofia scolastica.
Per qualche mese seguì il padre nelle visite ai malati; poi andò a Venezia a impratichirsi nelle leggi presso lo zio Indric, o piuttosto a scarabocchiare intrecci e scene di commedie sul tavolo di apprendista, e finalmente fu dal padre condotto a Pavia dove nel gennaio del 1723 fu accolto nel collegio Ghislieri. Tre anni sarebbero dovuti durare gli studî del diritto civile e canonico presso l'università, benché interrotti dai viaggi a Chioggia nelle vacanze estive, ma nel terzo anno, per una satira contro le fanciulle di Pavia, il G. fu cacciato dal collegio e dovette tornarsene nella casa paterna.
In questo periodo pavese il G. maturò l'ingegno e, leggendo le principali opere del teatro antico e moderno, vagheggiò al contatto di Molière la prima idea della riforma delle scene italiane. Altri due anni consumò invano seguendo il padre a Udine, a Gorizia e a Vipacco, nel castello del conte Lantieri, dove si provò di nuovo a maneggiare i burattini. Recatosi poi a Modena per compiere lo studio delle leggi, fu colto da sì fiera malinconia che pensò di farsi frate. Per fortuna il padre lo richiamò a Chioggia, lo condusse a Venezia, lo portò a teatro e lo guarì in pochi giorni.
A ventun anno si decise a entrare nei pubblici uffici della Repubblica, prima come semplice aggiunto nella Cancelleria criminale della podesteria di Chioggia (1728-29) e poi quale coadiutore in quella di Feltre (1729-30), dove s'innamorò per la prima volta. Presso il palazzo pretorio v'era una sala da teatro; il G., formata una compagnia di dilettanti, compose due Intermezzi a tre voci, il Buon vecchio e la Cantatrice, nei quali fu molto festeggiato come attore e come autore. Il primo è perduto, ma il secondo, che si conserva col titolo di Pelarina, rimaneggiato in parte da certo Gori che lo fece suo, mostra fin d'allora, fra ingenuità e sciatterie, una pittura originale di tipi popolari.
Nel settembre del '30 il G. raggiunse la famiglia a Bagnacavallo, dove qualche mese dopo moriva all'improvviso il padre. Ricondusse allora la madre a Venezia presso i parenti e riprese lo studio delle leggi; nell'ottobre del '31 otteneva presso l'Università di Padova la laurea dottorale e il 10 maggio successivo entrava nell'ordine degli avvocati veneziani. Mentre attendeva i clienti, scriveva un almanacco satirico, L'esperienza del passato fatta astrologa del futuro. e un melodramma, l'Amalasunta. Quand'ecco un nuovo amore, seguito da un'incauta promessa di matrimonio, di cui si pentì subito, lo persuase ad abbandonare Venezia e a recarsi a Milano, sperando nella povera Amalasunta che poi bruciò.
II. Il primo periodo dell'attività drammatica. - Il rappresentante della Serenissima a Milano, Orazio Bartolini, accolse presso di sé il G. come gentiluomo di camera. A consolarlo delle sue disavventure capitò il famoso medico e cantambanco Bonafede Vitali, detto l'Anonimo, a capo d'una compagnia volante, che rappresentò un Intermezzo del G., Gli sdegni amorosi tra Bettina putta de campielo e Buleghin barcariol venezian: titolo abbreviato poi in quello di Gondoliere veneziano. In questa farsetta a due sole voci traspare già timidamente il realismo goldoniano.
L'invasione delle armi franco-piemontesi in Lombardia nell'autunno del 1733 costrinse il residente veneto a ridursi a Crema, dove il G., divenuto segretario del Bartolini, doveva preparare i dispacci da spedire al Senato circa le mosse degli eserciti belligeranti. Ma dopo qualche mese di sì grave e delicato ufficio, il nostro poeta fu per un impensato accidente d'amore licenziato dal Bartolini, talché si rimise alla ventura con in tasca il manoscritto del Belisario che aveva promesso all'attore Gaetano Casali. Dopo avventurose peregrinazioni per l'Emilia e la Lombardia, incontrò per caso a Verona il Casali che recitava in quell'Arena con la compagnia veneziana del teatro di S. Samuele, diretta da Giuseppe Imer; e fatta amicizia col capocomico e tornato con lui a Venezia, si impegnò a scrivere per i teatri di cui era proprietario S. E. Michele Grimani.
Qui comincia propriamente, nell'autunno del 1734, il primo periodo dell'opera artistica del G. che durò fino alla primavera del 1743: periodo di preparazione, durante il quale egli saggiò le proprie forze in ogni genere di componimenti teatrali. Nella sua vita il G. era passato accanto a tutte le classi sociali, sorprendendo dappertutto, in sé e negli altri, le piccole e grandi malattie dello spirito umano, scoprendo a poco a poco il regno infinito della commedia. Gli rimaneva da studiare il teatro, per sapere, come egli dice, "con quali colori si debban rappresentare sulle scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti che nel libro del mondo si leggono".
Il primo trionfo del G. sui teatri veneziani fu la recita del Belisario al S. Samuele (24 novembre 1734). Questo infelicissimo dramma popolare commosse l'umile pubblico che affollava la platea e legò indissolubilmente al teatro il G. che fu indotto da questo primo successo a scrivere altre noiose tragicommedie di soggetto popolare, in versi endecasillabi (Griselda, Don Giovanni, Rinaldo); mentre nelle farsette per musica che le accompagnavano noi possiamo sorprendere la lieta apparizione del genio comico del G.
Gl'Intermezzi, nati a un tempo con l'Opera buffa napoletana, al principio del Settecento, erano presto stati scacciati dai teatri musicali per l'invadenza dei balli, ma dopo il 1730 parve al capocomico Imer di poterli ospitare nel teatro comico di S. Samuele, introducendoli fra un atto e l'altro nella recita delle tragedie e dei drammi. Sette ne compose il G. fra il 1734 e il 1736, che venivano cantati dall'Imer stesso, da Zanetta Casanova, madre dell'avventuriere, da Agnese, detta "delle serenate", e poi anche dalla Passalacqua. Nella Birba, in Monsieur Petiton, nella Bottega da caffè e nell'Amante Cabala l'autore diede maggior sviluppo all'Intermezzo, e maggior naturalezza, vivacità e colore all'azione, ai caratteri, al dialogo, imprimendovi quella gioconda nota ch'è propria del G. Graziose le arie; abili e vivaci soprattutto i finali. Il dialetto delle lagune facile e pittoresco precorre nelle scene popolari le argute cadenze del Campiello, delle Massère e delle Morbinose.
Nel 1736 il G., guarito d'altri capricci amorosi, trovandosi a Genova durante la primavera con la compagnia Imer, che recitava al Falcone, s'innamorò di Nicoletta Connio, giovane figlia d'un notaio: la sposò e la portò nell'ottobre a Venezia. Matrimonio felice, sebbene senza figli, d'una felicità uguale e calma. L'anno dopo al G. ormai trentenne, che già dirigeva gli spettacoli musicali del teatro di S. Samuele per la fiera dell'Ascensione, venne pure affidata la direzione del teatro d'opera di S. Giovanni Grisostomo.
Ma l'anno 1738 fu più importante nella vita artistica del G. Insieme col famoso "truffaldino" Antonio Sacchi, essendo entrato nella compagnia Imer il "pantalone" Golinetti, che recitava molto bene con la faccia scoperta, il G. compose per costui, senza però scriverla interamente, la sua prima commedia di carattere, Mòmolo cortesan (carn. 1738-39), e portò sulla scena un personaggio vivo quale da tempo il teatro comico italiano non conosceva, gioviale rappresentante della sana borghesia delle lagune. Incoraggiato dal buon esito, preparò per il carnevale del 1740 un'altra commedia, Momolo sulla Brenta, ossia il Prodigo, che colpiva un vizio comune nel Settecento, ma più fatale alla nobiltà veneziana. Meno felice artisticamente riuscì l'anno dopo il Mercante fallito, ossia la Bancarotta.
Nell'estate del 1740, essendo morto a Venezia il console della repubblica di Genova, il G. ottenne quell'onorifico ufficio, che disimpegnò con cura, ma che fin dal gennaio lo distolse dal teatro e lo ingolfò in molte noie e spese senza nessun compenso. Dopo quasi due anni di inattività, preso dalla nostalgia del teatro, scrisse prima una commediola per musica, ossia un' "opera giocosa", intitolata la Contessina (carn. 1743), dove nella caricatura del conte Baccellone e della sua degna figliuola sferzava audacemente la vana albagia del sangue; e poi un'altra commedia di carattere, stesa alfine per intero, La Donna di garbo. Certo in questa, che il G. chiamò la sua "primogenita", rimane troppo dello "scenario", ma nel viso ancora un po' artificioso di Rosaura il sangue già scorre.
III. Il G. al teatro di S. Angelo con la compagnia Medebac. "La Locandiera". - Il carnevale del 1743 finì senza che se ne facesse la recita; e il G., afflitto dai debiti, colpito da disgraziati accidenti, ingannato nella buona fede, fu costretto nel giugno ad abbandonare la patria, accompagnato dalla moglie, per cercare a Modena e a Genova un po' di denaro con l'aiuto dei parenti. Dopo aver errato a caso da Bologna a Pesaro, da Pesaro a Rimini, dove fu incaricato della direzione del teatro durante il carnevale, capitò finalmente a Pisa. La lieta accoglienza che ivi il G. trovò (fu fatto pastore d'Arcadia nella Colonia Alfea, nella quale assunse il nome di Polisseno Fegejo) lo indusse a riprendere la toga e ad aprire sull'Arno studio d'avvocato. Per tre anni, dal '45 al '48, esercitò la professione forense: anni felici, che più tardi rimpianse. Allora per invito del "truffaldino" Sacchi creò la mirabile commedia-farsa del ′Servitore di due padroni, che corse tutto il mondo, voltata in undici lingue almeno e tradotta o ridotta almeno dieci volte nella sola Germania. A trascinarlo verso i fantasmi del palcoscenico e della gloria capitò nel 1747 a Pisa il "pantalone" Darbes. Più forti ancora furono in quell'estate a Livorno gl'inviti e le promesse del capocomico Medebac, e i sorrisi di "Rosaura" sua moglie. Il G. si decise; e ripassò l'Appennino nell'aprile del 1748, risoluto a compiere la grande riforma del teatro da lungo tempo vagheggiata, cioè a risanare le scene italiane lasciate troppo a lungo in balia degl'istrioni, e a dare all'Italia la nuova commedia.
Nel settembre, dopo cinque anni di assenza, rivide Venezia. L'anno 1748 segna la data più memorabile nella vita del G. e nella storia del teatro comico italiano. La sera di S. Stefano, 26 dicembre, i Veneziani che gremivano la platea e i palchi del Sant'Angelo, applaudivano al trionfo di Rosaura, la Vedova scaltra, circondata dai suoi quattro cavalieri: commedia fatta veramente di riso senza intrusione di elementi romanzeschi. Non era certo il capolavoro, ché l'artificio era troppo visibile; ma tra squarci di "scenario" vi appariva la vita del Settecento. Nel febbraio del 1749 altri applausi salutarono la Putta onorata, prima commedia goldoniana di costume popolare, in dialetto. Qui i difetti sono maggiori, eppure vi colpisce una ventata d'arte fresca e originale; in certi istanti commedia e vita qui si confondono con lieta meraviglia e qui udiamo parlare l'antica Venezia con la voce del suo popolo.
Così cominciava la gloriosa impresa che durò fino al 1762. Riuscita bene la prova del primo anno comico, il G. si legò alla compagnia di Girolamo Medebac per quattro anni con l'obbligo di comporre per ciascuno ben dieci fra commedie di carattere, commedie a soggetto e tragicommedie, col compenso annuo di 450 ducati da lire 6 e soldi 4 (pari a lire venete 3484). Nell'autunno del 1749 per quindici sere di seguito si recitò il Cavaliere e la dama, dove la satira, precorrendo il Parini di quasi tre lustri, osava ferire, di là dal cicisbeismo, la nobiltà indegna. La Famiglia dell'antiquario, ossia la Suocera e la nuora, che seguì poco dopo, riuscì superiore a tutte le altre, benché i diversi elementi che la compongono non si fondano in perfetta unità; ma il Settecento circola sorridendo nei personaggi, nel dialogo, nell'azione, con qualche nota, non sappiamo se di riso o di pianto, della follia umana.
Nel carnevale del '50, di fronte ai maligni che per una recita disgraziata andavano predicando la sua prossima fine, il G. lanciò come sfida la promessa delle sedici commedie per il nuovo anno. La stagione autunnale si aprì col Teatro comico, in cui il G. pensò di esporre il suo programma artistico in una specie di colloquio del Medebac con gli attori della propria compagnia e, si direbbe, col pubblico. Poco dopo, ecco nelle Femmine puntigliose un nuovo rovescio di satira sui frolli conti e le pettegole contesse; ecco, sulla soglia della Bottega del caffè, l'immortale maldicente, don Marzio, che sogghigna immobile mentre insorgono contro di lui tutte le voci della calle e del campiello; ecco, più vivo che mai, il buon Pantalone con gli occhi stupiti in faccia a Lelio suo figliuolo che gli snocciola in poco d'ora le più stravaganti bugie (Il Bugiardo); ecco Pamela, che lascia cadere una lagrima d'amore sulla mano del cavaliere, suo padrone; ecco infine un'altra calle veneziana, piena del chiacchierio e urlio della Checca, della Sgualda, dell'Anzoletta, della Cate, nel primo capolavoro di costumi popolari, intorbidato leggermente da un rimasuglio di romanzo (I Pettegolezzi delle donne). Quando la sera del martedì grasso del 1781 calò la tela su quel pittoresco tumulto, strappato dall'arte alla vita, il pubblico del Sant'Angelo, tra le acclamazioni, portò in trionfo al Ridotto l'autore delle sedici commedie.
Nei due ultimi anni del contratto col Medebac, il G. creò ancora per la sensibile "Rosaura" quella forte scena, di sapore tutto moderno, in cui la Moglie saggia affronta nella sua casa e confonde la propria rivale. Ma alla compagnia del teatro di Sant'Angelo era venuta da alcuni mesi ad aggiungersi la "servetta" Maddalena Marliani, moglie del Brighella: spirito di donna indiavolato, nata per far ammattire il marito e far ingelosire Teodora Medebac. E il G. che, come egli stesso più d'una volta confessò, soleva scrivere le sue opere teatrali "col carattere sotto gli occhi di quegli attori che dovevano rappresentarle", approfittando delle frequenti assenze di "Rosaura" dal palcoscenico per la sua cagionevole salute, compose per la Marliani la Castalda, poi creò la parte di "siora Lucrezia" nelle Donne gelose, commedia "veneziana venezianissima", come la chiamò l'autore, dove il dialetto di Rialto scintilla di arguzie e di colori nuovi, e quella di Corallina, la più curiosa delle Donne curiose; poi immaginò la Serva amorosa ch'ebbe lunga fortuna, fino ai dì nostri, sui teatri d'Italia; e finalmente lanciò nel regno dell'arte Mirandolina (La Locandiera).
Chi è Mirandolina? È l'astuta veneziana dal G. conosciuta a Milano o la bolognese Ferramonti, o la Passalacqua napoletana, o Anna Baccherini, la "servetta" fiorentina? Forse è tutte queste; ma è più di tutte Maddalena Marliani. È la donna del Settecento, spiritosa e imperiosa, che si trae dietro sciami di cicisbei; è la donna di tutti i tempi, innamorata e gelosa del suo potere femminile; è infine Mirandolina, che continua a cantare e stirare di generazione in generazione nella locanda goldoniana, sorridendo alle sue gloriose interpreti, ad Anna Pellandi, a Carlotta Marchionni, alla Ristori, alla Tessero, alla Reiter, alla Duse, passando qualche volta le Alpi per vestire alla tedesca, alla polacca, all'inglese, alla portoghese, alla giapponese, alla russa: Mirandolina, la figura di donna più viva di tutto il teatro goldoniano. Nessun'altra commedia di G. vanta sì gran folla di traduttori: ottantasei, in ventidue lingue.
IV. Il G. al teatro di S. Luca. La lotta col Chiari. Il G. librettista. - Nel 1753 grandi mutamenti avvennero nei teatri veneziani. Il G., separatosi dal Medebac, firmò un nuovo contratto per dieci anni col Vendramin, proprietario del teatro di S. Luca (detto anche di S. Salvador), obbligandosi a scrivere otto commedie l'anno per il compenso di 600 ducati. Il Medebac, dichiaratosi apertamente ostile e alleatosi col tipografo Bettinelli per fargli perdere il guadagno delle commedie a stampa, costrinse il G. a un viaggio a Firenze, per ottenervi il privilegio di un'altra edizione.
Fin dall'autunno del '49 si era piantato sul teatro di S. Samuele quale nuovo riformatore, con pretese letterarie, un ex-gesuita, arcade frugoniano, l'abate Pietro Chiari di Brescia, facendovi rappresentare azioni drammatiche raffazzonate da romanzi francesi e inglesi, e storpiate commedie veneziane che rubacchiava al G., sotto il pretesto di correggerle. Ora il Chiari, che aveva riscosso gli applausi del pubblico di S. Samuele, fu assunto quale poeta dal Medebac al Sant'Angelo, e colà iniziò la serie delle commedie in versi martelliani. Si formarono così due partiti teatrali, dei chiaristi e dei goldonisti, e piovvero dall'una e dall'altra parte le satire, spesso violente e volgari. Nell'anno comico 1753-54 e nei seguenti restò impedito il regolare svolgimento dell'arte goldoniana, trovandosi costretto il G. a ricercare continue e bizzarre novità, sia nelle commedie storiche, sia nelle commedie orientali, per allettare e sorprendere il pubblico. La prosa dovette cedere il posto ai sonanti martelliani; la scena si trasportò a Roma nel Terenzio, alla corte di Ferrara nel Torquato Tasso, a Londra nel Filosofo inglese, a Leida nel Medico olandese, a Tetuan, in Marocco, nella Dalmatina; si ammirarono le Belle selvagge e le Peruviane, ma i più strepitosi applausi accolsero la Sposa persiana e la seconda Ircana.
Ogni carnevale tuttavia, per rallegrare il palcoscenico, soleva il G. portarvi una commedia veneziana. Con queste entra nell'arte italiana, troppo accademica e aristocratica, una luce nuova; qui tutto ride e si muove come in un raggio di sole che illumini d'improvviso qualche angolo oscuro. In questo mondo reale e pittoresco dei gondolieri, delle lavandaie, dei "paroni de tartana" delle "massère" (serve di casa), delle rivendugliole, delle "rampignone" (donne che risparmiano), dei merciai, il G. è sovrano; qui non fantasmi, né simboli, ma figure reali e vive nella scorrevolezza e naturalezza del dialetto veneziano. Nelle Massere, mirabili per alcune scene, manca il soffio d'umanità dei veri capolavori; ma nelle Donne de casa soa la chiacchiera di Anzola e di Betta riempie ancora l'umile abitazione dell'antica Venezia, e ogni frase è una pittura dell'anima dei due personaggi e un'eco del tempo lontano, che acquista suggestioni nuove e affascinanti quando al coro si unisce la vecchia Laura, un'altra massera, o Bastiana la "revendìgola". Solo la grande arte sa dare simili illusioni. Nel Campiello tutto è semplice, chiaro e naturale: un piccolo angolo di Venezia, una giornata del Settecento rivivono davanti a noi.
Intanto cresceva intorno al G. lo stuolo degli ammiratori e dei protettori: nell'aprile 1732 egli fu invitato a Palazzo ducale, in occasione del matrimonio di una nipote del doge Loredan. Fin dal '50 aveva cominciato a stampare a Venezia le sue commedie; una nuova edizione uscita a Firenze nel '53 si esaurì rapidamente; varie ristampe uscirono a Bologna, a Pesaro, a Napoli, a Torino. A Vienna fin dal '51 si traduceva e si recitava qualche commedia del G. Il suo nome era ormai popolare in tutta la pianura del Po, a Genova e in Toscana. Nel'53 anche i Romani poterono godere le fortunate creazioni. Pubblica testimonianza di stima gli aveva reso Scipione Maffei; in sua difesa sorgeva Gasparo Gozzi; sensi d'amicizia gli esprimeva il Metastasio; l'epiteto di "Molière italiano" risonava frequente all'orecchio del G. Si stamparono poemetti in sua lode, del patrizio Beregan (1754), di P. Verri (1755), di G. B. Roberti (1755). Nel '56 il duca di Parma gli assegnò il titolo di "poeta" con una pensione; e migliori condizioni otteneva nel teatro di S. Luca dal Vendramin, in un nuovo contratto.
Nella primavera del '54, un po' per la fatica eccessiva e molto più per la violenza e l'acredine delle satire, il G. fu colpito da una specie d'ipocondria, che lo tormentò per cinque mesi a Modena e a Milano, e anche più tardi qualche volta lo molestava. Purtroppo non poteva far tacere le critiche degl'ignoranti e dei maligni, né gli era consentito mai di riposare. Lo infastidivano le continue richieste di versi d'occasione da rimpinzare le raccolte, usanza e mania del Settecento.
Quand'era impegnato sia nel teatro di S. Angelo, sia in quello di S. Luca, ebbe sempre libertà di scrivere opere serie o buffe per i teatri di musica; ond'è che fin dall'inizio del carnevale 1749 apparve nel teatrino di S. Moisè la Favola dei tre gobbi, esilarante farsetta a quattro voci musicata da Vincenzo Ciampi; e, nella stessa stagione, il Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, dramma giocoso musicato pure dal Ciampi, che passò le Alpi col titolo di Bertoldo in corte. Più fortunata ancora l'Arcadia in Brenta, musicata con molte sue altre, fortunatissime, da Baldassarre Galuppi, detto il Buranello, per la fiera dell'Ascensione del '49. Rappresentata al S. Angelo, questa farsa che, nonostante i cattivi versi e qualche dialogo insulso, è uno dei più felici drammi comici, fu accolta poi festosamente nelle principali città d'Italia, e in tutta la Germania e a Lisbona. Un nuovo trionfo del G. e del Galuppi fu il Mondo della Luna, nel carnevale del '50. Infine, dopo altre opere pure fortunate, sui versi del Filosofo di campagna il Buranello compose, nell'autunno del 1754, il proprio capolavoro. Quantunque il G. considerasse con disprezzo i suoi melodrammi, qualcuno di essi ispirò quattro o cinque compositori, e sarebbe facile nominare una cinquantina di maestri che nel sec. XVIII musicarono quei libretti, fra cui Paisiello e Traetta, Mozart e Haydn, Salieri e Sacchini, Cocchi e Fischietti. Per più di vent'anní il G. dominò anche nei teatri musicali del Settecento. Maggior trionfo ebbe la Buona figliuola che, musicata la prima volta nel '56 a Parma dal Duni, rivisse nel 1760 a Roma per opera di N. Piccinni, e conquistò tutto il mondo col nome popolare di Cecchina.
V. La lotta con Carlo Gozzi. Il compimento della riforma goldoniana. "I Rusteghi". - La battaglia col Chiari si era ormai quasi chetata, allorché un nuovo nemico sorse a Venezia di fronte al G.: il conte Carlo Gozzi. Il quale nel '57 iniziò la guerra aperta e implacabile in difesa delle maschere e di tutto il passato a cui era avvinto, contro il G. e contro il Chiari, con la pubblicazione della Tartana degli influssi, specie d'almanacco poetico satirico in stile burchiellesco, e si trascinò dietro l'intera accademia dei Granelleschi. Con grande gioia del Gozzi il "truffaldino" Sacchi, tornato con la sua compagnia a Venezia dopo cinque anni, nel 1758, faceva risorgere al S. Samuele la vecchia commedia dell'arte, già quasi sbandita dai teatri veneziani. Il G. amareggiato dalla "volubile inclinazione" del pubblico e dalla tenacia dei nemici vecchi e nuovi, e preoccupato dell'avvenire, forse fin da allora pensava a lasciare Venezia e l'Italia. Ma le speranze concepite per l'invito fattogli nel novembre del '58 dal cardinale Rezzonico, nipote del nuovo papa Clemente XIII, non fruttificarono, ché, recatosi a Roma, dopo dieci mesi tornò deluso in patria, dove le sue nuove opere precipitavano per l'ostilità stessa dei comici.
Alcune delle commedie recitate in quegli anni al S. Luca, forse per lo stato d'animo del poeta, non sono certo tra le meglio riuscite: p. es. la Donna stravagante, la Donna di governo, le Donne di buon umore, ecc. Tuttavia passando dal S. Angelo, dove la compagnia Medebac costringeva il G. a una certa fissità di personaggi e all'uso delle maschere, al S. Luca, dove tra gl'interpreti si distingueva soltanto Caterina Bresciani, egli aveva acquistato una libertà maggiore; e solo là, venuto meno, col chetarsi della lotta col Chiari, il motivo che aveva, come vedemmo, interrotto il regolare svolgimento dell'arte goldoniana, fu condotta alla sua perfezione la vagheggiata riforma.
Il viaggio a Roma gli ispirò nel 1759 la fine e mirabile commedia degli Innamorati; seguì poi il piacevole Impresario delle Smirne (26 dic. 1759); finalmente la sera del 16 febbraio 1760 si recitò al S. Luca la Compagnia dei salvadeghi, ossia i Rusteghi. Nella commedia moderna "sior" Lunardo Cròzzola il gran "rustego", non trova rivali che in qualche figura di Molière, così fortemente è creato. Ma dietro il riso dei Rusteghi si cela un dramma severo: il contrasto dei caratteri, specie nella grande scena centrale, ci fa assistere all'eterno dissidio dei vecchi e dei giovani, alla vittoria non della donna sull'uomo, bensì del sentimento sull'egoismo. Di qui la grande umanità di questo capolavoro.
Il 19 giugno 1760 Voltaire mandava al marchese Albergati di Bologna, amico del nostro commediografo, i famosi versi che cominciano: En tout pays on se pique, i quali furono una specie di diploma di cittadinanza europea, che il massimo pontefice delle lettere conferiva al G., e in pari tempo il riconoscimento, anche fuori d'Italia, d'un teatro comico italiano. Seguì poco dopo la lettera al G. stesso, che Voltaire celebrava "figlio e pittore della natura". A parare il colpo Carlo Gozzi indusse i Granelleschi a stampare il diluvio delle loro scioccherie e immaginò una satira più velenosa del solito contro il Goldoni e contro il Chiari, sceneggiando la fiaba dell'Amore delle tre melarance, che fece ridere per sette sere i Veneziani durante il carnevale del '61. Ma il G., giunto alla sua piena maturità, continuava a creare con assiduo lavoro e con inconscia facilità l'opera sua d'arte. E dalla sua inesausta fantasia uscivano commedie mirabili per abilità di costruzione, per verità e comicità di scene, per arguzia e spontaneità di dialogo, quali Un curioso accidente (11 ottobre 1760), La buona madre (31 gennaio 1761), la trilogia della Villeggiatura (ottobre-novembre 1761) e, insigne fra tutte, la Casa nova (11 dicembre 1760), ben degna di stare accanto ai Rusteghi. Questa tecnicamente, come si suol dire, sembra cosa perfetta sì che l'autore stesso osava "proporla altrui per modello". I personaggi, anche i minori, hanno rilievo e fisionomia caratteristica; stupendo il dialogo; mirabile la condotta.
Nell'ultimo anno che fu a Venezia il G. fece rappresentare, oltre alla trilogia della Villeggiatura già ricordata, il Buon compatriotto (26 dicembre 1761), allegra risurrezione delle maschere, e poi Sior Tòdero brontolon (6 gennaio 1762), e poi le Baruffe chiozzotte (gennaio 1762), e poi Una delle ultime sere di carnovale (febbraio 1762). Nel Buon compatrioto l'azione, benché vecchia e meccanica, corre rapida e agile e i personaggi ci divertono con l'arguto cicaleccio e con le gaie movenze. Ed ecco un altro "rustego", sordido, prepotente e ostinato: sior Todero, che ci si pianta per sempre nella memoria, come don Marzio, come Mirandolina e come "sior" Lunardo. Ma il G., stanco di aggirarsi in un'angusta famiglia, fra pochi e noti personaggi, portò alfine sul palcoscenico un paese intero dove un popolo semplice ama, infuria, si placa come il suo mare. Il primo atto delle Baruffe chiozzotte, dal dialogo rotto e pittoresco, dalle figure di una verità sorprendente e commovente, è una meraviglia di dramma popolare. Le scene del secondo atto, nelle quali culmina il dramma d'amore di Lucietta e Titta Nane, sono forse le più originali e più belle del G. e tra le più originali di tutto il teatro italiano. Nell'atto terzo scoppiano tra le donne nuove insolenze e il palco si riempie un'altra volta di popolo; ma infine anche la fiera Lucietta, la più viva figura femminile del teatro goldoniano dopo Mirandolina, cede piangendo e ottiene da Titta Nane il perdono e la mano. Così, senza rettorica, con genio giocondo e quasi inconsapevole, il G. ha creato il capolavoro comico popolare.
Ma il G. si accingeva ad abbandonare Venezia e le sue lagune: il dolore della partenza, scevro di ogni risentimento contro nemici e rivali, appare nella tenerezza che pervade qua e là i personaggi di Una delle ultime sere di carnovale e nel saluto che, nella stessa commedia, Anzoletto dà alla patria. La sera del martedì grasso (23 febbraio 1762) l'ultima recita si chiuse fra le grida della folla che augurava buon viaggio e felice ritorno al grande commediografo, e questi si sentì intenerire per tale dimostrazione: partì da Venezia nell'aprile, ma fu una partenza senza ritorno.
VI. Il G. a Parigi. - Il G. era stato invitato in Francia non proprio a dirigere, bensì ad assistere per due anni con nuove produzioni il teatro della Comédie Italienne, che decadeva rapidamente. L'assegno annuo era di sei mila lire. Parigi (dove arrivò il 26 agosto), dopo un lento viaggio, con due lunghe soste a Bologna e a Parma, accompagnato dalla moglie e dal nipote Antonio) fin da principio gli piacque, lo stordì, lo sedusse: il suo carattere, la sua modestia, il suo cuore gli cattivarono molte simpatie. Le prime spine trovò sul teatro: i comici non volevano imparare le commedie scritte e non sapevano fare quelle a soggetto, e il pubblico dagl'Italiani pretendeva a ogni costo il gioco grottesco e buffonesco delle maschere. Il G., che sognava di compiere un'altra riforma sulle tavole del Teatro Italiano nella patria di Molière, dovette logorare miseramente l'ingegno nello sceneggiare scheletri di commedie con l'Arlecchino, nuove farse e nuovi scenarî; né l'esito riuscì sempre felice. Alla fine riportò un vero trionfo con la trilogia degli Amori di Arlecchino e di Camilla, eseguita sullo scorcio del 1763 dal Bertinazzi e dalla "servetta" Veronese, l'unica, la "grande Camilla", come la chiamava il G. Tuttavia le beghe del palcoscenico lo amareggiavano sempre più e gli cresceva continuamente la nostalgia dell'Italia e della sua città, che egli effuse nei notissimi versi: "Da Venezia lontan do mille mia...". In Italia si proponeva di ritornare appena finito il proprio impegno, quando fu chiamato alla corte di Versailles (febbraio 1765) come insegnante di lingua italiana delle figlie di Luigi XV, Adelaide e Luisa.
Negli ultimi mesi del 1764 aveva spedito a Venezia una serie di nuove commedie da recitarsi al S. Luca. Fra queste il Ventaglio: scherzo comico di puro intreccio, che si avvolge e si svolge con tale agilità, con tale naturalezza, da nascondere ogni artificio. Dagli scenarî delle Avventure d'Arlecchino e Camilla si sviluppò la trilogia di Zelinda e Lindoro, della quale la prima parte, gli Amori di Lindoro, è la più debole, mentre la seconda, La Gelosia di Lindoro, può prendere posto fra le belle commedie goldoniane, dopo la grande serie dei capolavori, e la terza, le Inquietudini di Zelinda, nel rappresentare le nuove gelosie dei recenti sposi, mostra ancora la potenza inesauribile della fantasia del G. Una farsa spiritosa e delicata, uno scherzo ameno sono gli Amanti timidi (25 gennaio 1765), che conservano quel sapore popolare, quel colorito di un mondo tra reale e fantastico, ch'è proprio della commedia dell'arte. Anche la burla dialettale che s'intitola nella stampa Chi la fa l'aspetta, e s'intitolò nella prima recita i Chiassetti del Carneval (carn. 1765), contiene nuove sfumature di antichi caratteri e scene d'antica vita veneziana ancor giovani e liete, e un meraviglioso dialogo che da solo è arte e allegrezza. Fu l'ultima commedia veneziana del G.
A Versailles abitò per circa quattro anni, ma l'insegnamento non durò più di tre, dopo i quali ottenne una modesta pensione di tremila seicento lire francesi. Fin dal 1765 era rimasto cieco dell'occhio sinistro, e ci vedeva poco. Il ricordo dei trionfi veneziani lo tormentava; ed ebbe la tentazione di cimentarsi a una prova in francese, nella sala più illustre della Comédie Française, che accoglieva i capolavori dei sommi maestri del teatro classico. Pensò, trovò, scrisse Le Bourru bienfaisant, e la sera del 4 novembre 1771, trascinato a braccia dagli attori sulla ribalta, ricevette gli applausi del pubblico parigino. Bellissima commedia, benché nel genere mediocre, il Burbero, per quanto suggerito dalla Casa nova, è ben diverso da quella. Non sentiamo più l'odor salino dei canali veneziani; qui tutto è veramente Settecento francese. Forse per questo il buon Geronte ebbe virtù di soddisfare il Bettinelli, di conquistare il Baretti e di umiliare, benché non lo confessasse, Carlo Gozzi. Tutti gli altri scrittori italiani rimpiangevano il vuoto lasciato dalla scomparsa del grande Veneziano. Del Burbero si contano soltanto a Parigi, sullo stesso teatro della Comédie française, trecento recite fino alla metà del secolo scorso; e fu voltato fino a oggi in diciannove lingue da quaranta traduttori.
Il G. si lusingò di poter strappare un'altra vittoria con l'Avaro fastoso, pure in francese, ma era tardi e fallì. Dal febbraio del 1775 alla primavera del 1780 insegnò di nuovo l'italiano a Versailles alle giovani sorelle di Luigi XVI, prendendo parte alla vita di corte. Ma la sua vista s'indeboliva sempre più, soffriva di convulsioni, la pensione in sempre gli bastava a vivere: per fare ritorno a Parigi dovette vendere la sua modesta biblioteca. Per fortuna tutti gli volevano bene: aveva ormai fedeli amici fra attori e scrittori di teatro: primo di tutti il buon Favart. Nel 1784 cominciò a scrivere le Memorie, in francese, uno dei più piacevoli libri del Settecento, ridestando nel suo ingegno, insieme coi lontani ricordi, lampi felici d'arte e d'umorismo; e ne compì la stampa nel 1787, a ottant'anni. Poi aspettò serenamente la morte.
La Rivoluzione scosse a un tratto la società nella quale era vissuto e che vive immortale nelle sue commedie. Il G. vide la povertà avanzarsi; pure, in mezzo alle proprie miserie, quel nobile cuore si commoveva delle miserie di qualche amico, maggiori delle sue, e cercava di alleviarle. Gli cessò la pensione nel luglio del 1792, si ammalò, languì in una soffitta della capitale. Soli, durante la lunga malattia, vagavano intorno al suo letto i gloriosi fantasmi del suo teatro. Egli scomparve silenziosamente il 6 febbraio 1793. Il giorno dopo un decreto della Convenzione Nazionale, su proposta di Giuseppe Maria Chénier, fratello di Andrea, gli restituiva invano la pensione. Mille cinquecento lire furono assegnate alla vedova; ma le ossa del grande andarono disperse.
L'arte e la fama del G. - La fama del G. si stabilì senza contrasto nel sec. XIX e grandeggiò soprattutto nel periodo del Risorgimento, per merito principalmente dell'attore e scrittore veneziano Francesco Augusto Bon. Il De Marini, il Vestri, Gustavo Modena, Tommaso Salvini, e, fra le donne, Carlotta Marchionni e Adelaide Ristori interpretarono i capolavori del poeta veneziano, mentre in ogni città d'Italia si moltiplicavano, parziali o complete, le ristampe del suo ricchissimo teatro. Altri grandi interpreti si aggiunsero poi, come la Duse, Ermete Novelli, Ferruccio Benini, Emilio Zago. Uomini di assai diverso ingegno, quali il Giordani, il Manzoni, il Tommaseo, il Gioberti, ammirarono con unanime sentimento quell'arte sincera, gaia, feconda: due diversi maestri di critica letteraria, il De Sanctis e il Carducci, confermarono più tardi la lode ormai secolare. Né cessò mai fuori d'Italia l'amore per il commediografo veneziano: delle sue commedie, che sono circa centoventi, almeno ottanta furono tradotte, notava venticinque anni fa il Maddalena, e si trovano versioni in più di venti lingue. Perciò il Goldoni si deve annoverare fra i primissimi nella schiera degli scrittori italiani che fanno parte della letteratura mondiale.
Mondo e teatro furono i soli maestri riconosciuti dal Goldoni. Ben poco poteva insegnargli la tradizione letteraria italiana, e per questo, se riuscì più originale, appare anche un po' rude, come all'infanzia di un'arte, un po' primitivo in quella sua veste vernacola. Non conobbe il lavoro della lima: l'arte fu per lui spontaneità. Nessuno trasportò mai con tanta verità la commedia umana nell'arte senza deformarla. In tutto il Settecento nessuno fu come lui creatore di vita; e pochi gli stanno a pari per la tenacia del lavoro e la fecondità dell'opera: forse, nel campo della musica, il Buranello e qualche maestro della scuola napoletana, e, in quello della pittura, il Tiepolo.
Egli rappresenta quel periodo, nel cuore del Settecento, in cui non s'avvertono ancora i rombi precursori della Rivoluzione, e il vivere è dolce, e la donna regna. Eppure anche in quel mondo sensuale e sorridente, che il G. dalla vita fece passar sul teatro, non mancano le lotte, i piccoli drammi, le tragedie occulte: ma molto più si ride, di quel riso così limpido, tutto proprio del G., senza fiele, senza ironia, senza bassa volgarità: non è il riso grottesco di Aristofane o di Beniamino Johnson, né quello sboccato dei novellieri toscani, né il riso pungente di Voltaire, né il riso nervo di Swift, né quello di Molière, che non rende lieti. Come l'Ariosto, come il Manzoni, il sorriso del G. ci riconcilia con la vita e con gli uomini. Molière lo seguiamo forse più col cervello che col cuore, Goldoni lo amiamo. Egli ha una sua particolare poesia che anima la sua festività, che circonda le figure femminili, che si diffonde sulla scena veneziana.
Quella Venezia che sfugge allo storico, quella che vive fuori del Palazzo Ducale e della Piazza, è riprodotta e risorge in questo singolare teatro: vediamo sul palcoscenico la calle, il campiello, il canale, il caffè, il ridotto, l'ingresso del teatro, l'altana della casa, la stanza un po' nuda dove abita l'umile borghesia; si vive molto al sole, all'aria; si sente l'odore del pesce nella tartana; si corre in maschera fra le baldorie del carnevale; si mangia e si beve spesso, si fa all'amore quasi sempre, giovani e vecchi, ma senza sporchessi. È arte sana, che si arresta sulle soglie del vizio, senza curiosità, senza morbosità. G. è il poeta di Venezia, non della nobiltà e delle pompe, sì del popolo e della famiglia. G. è scrittore comico secondo le idee del tempo, nient'altro che scrittore comico, ma di quel suo mondo sì originale è il signore sovrano. Egli compie il teatro dell'arte e lo uccide: ciò che vi era di meccanico, di grottesco, di assurdo sparisce nella visione sincera della vita. Egli ha per primo in Italia in modo eminente il senso della scena e segna la più memorabile sconfitta del Seicento. Il G. ha ricreato la coscienza là dove era il doloroso vuoto dell'anima italiana, ha fugato lontano i fantocci d'Arcadia, ha ridato sentimento d'umanità all'arte; egli inizia il Risorgimento.
Ritratti. - Ne esistono: uno dipinto a olio, attribuito ad A. Longhi (Museo Civico di Venezia), due incisi da M. Pitteri nel 1754, su disegno del Piazzetta (l'uno col berrettino, l'altro con la parrucca) e un ultimo inciso dal Cochin nel 1787, su disegno di Le Beau, in testa al I tomo dei Mémoires; altri, meno importanti che sono in testa al I tomo dell'ed. Bertinelli (1750), al III dell'ed. Paperini (1753), al I dell'ed. Pasquali (1761): tutti riprodotti nelle Opere complete.
Ediz.: Per le opere del G. a stampa nel Settecento v. A. G. Spinelli, Bibliografia Goldoniana, Milano 1884.
Edizioni principali: Le Commedie del Dottor C. G. Aivocato Veneto fra gli Arcadi Polisseno Fegejo, Venezia, G. Bettinelli, 1750-55: voll. 8, commedie 32 (nel '57 uscì il IX, ricopiato dal X dell'ed. Paperini); Le Commedie del Dottor C .G. Avv. Ven., Firenze, Eredi Paperini, 1753-57 voll. 10, commedie 50 (scritte per i teatri di S. Samuele e S. Angelo). - Opere Drammatiche Giocose di Polisseno Fegejo P. A., Venezia, Tevernin, 1753; voll. 4. Sono 30 fra intermezzi e opere giocose. Nuovo Teatro Comico dell'Avv. C. G., ecc., Venezia, F. Pitteri, 1757-1763: voll. 10, commedie e tragicommedie 40 (scritte per il teatro di S. Luca). Delle Commedie di C. G. Avv. Ven., Venezia, G. B. Pasquali 1761-1778: voll. 17, commedii 68. Ed. prediletta dal G., arricchita di prefazioni, abbellita di incisioni in rame dal Baratti e dal Novelli, ma rimasta incompiuta. Opere Teatrali del Sig. Avv. C. G. Veneziano, Venezia, Zatta, 1788-93, voll. 44 e 3 delle Memorie tradotte. È la più importante collezione (ornata di rami), approvata dall'autore: comprende anche i drammi giocosi. - Fra le edizioni più note del sec. XIX, a Venezia: Molinari (1817-23), Tasso (1823-27), Antonelli (1828-31), Grimaldo (1856-66); a Prato: Giachetti (1819-27: voll. 50, comprese le Memorie); a Milano: Visai (1828-30); a Torino: Maspero e Serra (1830-31). Opere complete di C. G. edite dal Municipio di Venezia ecc., Venezia 1907 e segg. Questa collezione in 37 volumi, dei quali sono usciti finora (1932) 31, curata da G. Ortolani, riproduce i rami delle edizioni Pasquali e Zatta e i ritratti che si hanno del G. Ogni componimento conserva la lettera di dedica e la pref. dell'autore, ed è seguito da una Nota storica (45 di queste appartengono a E. Maddalena e 20 a C. Musatti).
Delle scelte di commedie basterà ricordare alcune delle più recenti: Firenze 1897 (a cura di E. Masi); Napoli 1914 (a cura di A. Momigliano); Messina 1916 (a cura di N. Vaccalluzzo); Milano 1926 (a cura di P. Nardi); Milano 1929 (a cura di M. T. Dazzi). Una serie di commedie riccamente illustrate iniziò L. Rasi, ma stampò soltanto i Rusteghi (a cura di A. Graf) e le Villeggiature (G. Targioni Tozzetti), Firenze 1909.
Singole commedie: ricordiamo fra le migliori edizioni recenti: Il Ventaglio di M. Menghini (Firenze 1893 e 1904), di C. Levi (Napoli 1912) e di A. Zardo (Firenze 1926); Le Bourru bienfaisant di G. Lesca (Firenze 1901); La Famiglia dell'antiquario di A. Mondino (Livorno 1904) e di N. Vaccalluzzo (Messina 1924); Il Bugiardo di E. Maddalena (Trieste 1912); La Locandiera di I. Sanesi (Torino 1924), di N. Vaccalluzzo (l. c.) e di E. Maddalena (Firenze 1925); Le Smanie della villeggiatura di E. Maddalena (l. c.); La Casa nova di G. Mazzoni (Firenze 1926) e di M. Marcazzan (Firenze 1930); Sior Todero brontolon di A. Zardo (l. c.); I Rusteghi di R. Verde (Catania 1928).
Memorie e lettere. - Mémoires de M. Goldoni, Parigi 1787, voll. 3 (trad. it., Firenze 1787-89, voll. 10; Venezia 1788, voll. 3: moltissime rist. nel sec. XIX). Mémoires de M. Goldoni ecc. con note di E. von Loehner, Venezia 1883: uscì solo la prima parte. Memorie di C. G. riprodotte integralm. dall'ed. originale francese, con pref. e note di G. Mazzoni, Firenze 1907, voll. 2. Lettere di C. G. con proemio e note di E. Masi, Bologna 1880. Lettere di C. G. con pref. e note di G. M. Urbani di Gheltof, Venezia 1880: qualcuna falsificata. C. G. e il teatro di S. Luca a Venezia, Carteggio ined. (1755-65) con prefazione e note di D. Mantovani, Milano 1885. Fogli sparsi del G. raccolti da A. G. Spinelli, Milano 1885. Corrispondenza diplomatica inedita a cura di R. Di Tucci, Milano 1932. Altre lettere stampò sparsamente il Maddalena.
Bibl.: Una bibliografia generale è A. Della Torre, Saggio di una bibliografia delle opere intorno a C. G., Firenze 1908. - Si vedano inoltre le citate note storiche di E. Maddalena, C. Musatti e G. Ortolani alle Opere complete. - Monografie: F. Galanti, C. G. e Venezia nel sec. XVIII, Padova 1882; Ch. Rabany, C. G. Le théâtre et la vie en Italie au XVIIIe siécle, Parigi-Nancy 1896; H. C. Chatfield-Taylor, G., a biography, New York 1913 (con cronologia e bibl. a cura di F. C. L. van Stenderen; trad. it., un po' abbreviata, a cura di E. Maddalena, Bari 1927; J. Spencer Kennard, G. and the Venice of his time, New York 1920; G. Caprin, C. G., la sua vita, le sue opere, Milano 1907; G. Ortolani, Della vita e dell'arte di C. G., Venezia 1907; M. Apollonio, L'opera di C. G., Milano 1932.
Dei numerosi scritti su singole commedie di G. o su particolari episodi della sua vita, si citano solo i più notevoli, specialmente quelli posteriori alla bibliografia del Della Torre; B. Chiurlo, C. G. e il Friuli nel Settecento, Gorizia 1911; J. Del Lungo, Lingua e dialetto nelle comm. del G., Firenze 1912; L. Falchi, Intendim. sociali di C. G., Roma 1907; id., C. G. e i comici dell'arte, in La Nuova Antologia, 16 giugno 1930; A. Lazzari, C. G. in Ro,agna, in Ateneo ven., 1908; E. Levi, La realtà poetica dei "Rusteghi", in Convegno, 30 agosto 1924; id., G. allo specchio, ibid., 25 agosto 1926; id., "La Moglie saggia" e G. drammatico, ibid., 25 marzo 1929; E. von Loehner, C. G. e le sue memorie, in Archivio ven., XII (1882); E. Maddalena, Aneddoti intorno al Serv. di due padroni, ibid., 1898; id., Giuoco e giocatori nel teatro di G., Vienna 1898; id., G. e Favart, in At. ven., 1899; id., Scene e figure molieresche imitate dal G., ibid., 1905; id., Lessing e G., in Giornale st. lett. it., XLVII (1906); id., La fortuna della Locandiera, in Riv. d'It., 1907; id., G. in villeggiatura, in Lettura, i sett. 1920; id., Il viaggio del G. in Francia, in La Nuova Antol., i novembre 1921; id., G. in Inghilterra e in America, in Riv. d'It., 1923; id., Per la fortuna del Bourru bienfaisant, Firenze 1928; E. Masi, Storia del teatro it. nel sec. XVIII, Firenze 1891; L. Mathar, C. G. auf dem deutschen Theater des XVIII. Jahrhunderts, Montjoie 1910; J. Merz, C. G. in seiner Stellung zum französischen Lustpiel, Lipsia 1905; E. Kucharski, Fredro a komedia obca (Fredro e la commedia straniera), Cracovia 1921; A. Momigliano, Primi studi goldoniani, Firenze 1922; id., Il mondo poetico del G., in Italia moderna, V, 15 marzo 1907; id., I limiti dell'arte gold., in Scritti vari in onore di R. Renier, Torino 1912; id., La comicità e l'ilarit del G., in G. st. lett. it., LXI (1913), fasc. 182-183; C. Musatti, I drammi musicali di C. G., in Ateneo ven., XXV (1902); id., C. G. e il vocab. venez., ibid., 1913; A. Neri, Aneddoti gold., Ancona 1883; M. Ortiz, Il canone princip. della poetica gold., Napoli 1905; id., Comme sotiche del G., in Riv. Teatr. it., 1905; id., La cultura del G., in G. stor. lett. it., XLVIII (1906); R. Ortiz, G. e la Francia, Bucarest 1927 (cfr. Giorn. stor. lett. it., XCIV, 1929); M. Penna, Il noviziato di G. C., Torino 1925; E. Re, La commedia venez. e G., in Giorn. st. lett. it., LVIII (1911); Spinelli, Modena a C. G., Modena 1907; F. C. L. van Steenderen, G. on Playwriting, New York 1919; P. Toldo, Se il Diderot abbia imitato il G., in Giorn. st. lett. it., XXVI (1895); id., Tre comm. franc. ined. di C. G., ibid., XXIX (1897); id., Attinenze fra il teatro comico di Voltaire e quello del G., ibid., XXX (1898); id., L'Œuvre de Molięre et sa fortune en Italie, Torino 1910; A. Zardo, Teatro venez. del Settecento, Bologna 1926; G. Ziccardi, Intorno al T. Tasso di C. G., in Studi di lett. it., XI (1913); id., C. G., in Forme d'arte e di vita nel Settecento, Firenze 1931.