Goldoni, Carlo
Carlo Goldoni (Venezia 1707 - Parigi 1793) trascorse parte della fanciullezza a Venezia, e l’adolescenza e la giovinezza in varie sedi. Compì studi disordinati e concluse quelli di diritto. Avvocato a Pisa dal 1745 al 1747, coltivò il teatro, componendo per diverse compagnie. Stabilitosi dal 1748 a Venezia, s’impegnò con la compagnia di Girolamo Medebach per il teatro Sant’Angelo (1748-1753), dando il via alla ‘riforma’ del teatro comico; quindi passò al teatro San Luca (1753-1762): quindici anni che fruttarono 120 commedie.
Polemiche, rivalità, difficoltà economiche lo indussero a lasciare Venezia. Si trasferì a Parigi, chiamato dalla Comédie Italienne, che però gli richiese soprattutto canovacci e recite a soggetto. Deluso e assillato da problemi economici, accettò l’incarico di maestro di lingua italiana della figlia di Luigi XV, che gli fruttò una modesta pensione, la quale, sospesa dopo gli eventi rivoluzionari, gli fu riassegnata dopo la sua morte.
Nel processo di valorizzazione della lingua italiana che caratterizza il Settecento (➔ Settecento, lingua del) un ruolo importante è svolto dal teatro per la centralità sociale, mondana e culturale che esso acquista nel corso del secolo. Il rinnovamento portato dall’Arcadia rispetto alle proliferazioni del teatro barocco aveva interessato soprattutto il melodramma e la tragedia; nel teatro comico invece faceva ancora presa sul pubblico la commedia dell’arte con «le sue sconce arlecchinate, laidi e scandalosi amoreggiamenti e motteggi; favole mal inventate e peggio condotte, senza costume, senza ordine» (Goldoni, Prefazione alla prima raccolta delle sue Commedie, in Tutte le opere, vol. 3°, p. 1252). Di qui la necessità di una riforma che mettesse al centro dello spettacolo il testo e i caratteri sulla base del «vero» e della «naturalezza del dire». Un problema dunque di forma e di linguaggio: se nel melodramma la parola è assistita dalla musica, e se la tragedia può contare su un linguaggio aulico adeguato al suo registro elevato, la commedia manca ancora di un linguaggio atto a raccontare il quotidiano per la «costante riluttanza della lingua italiana ad accettare un dialogo drammatico aderente alla realtà storica» (Dionisotti 1967: 102).
La sfida goldoniana fu quella di costruire un linguaggio drammatico che fosse «imitazione delle persone che parlano», un linguaggio da costruire rivoluzionando le regole e la pratica del genere comico, affidando la commedia non più al mero intreccio e ai facili effetti della recitazione all’improvviso, ma al ‘carattere’ del personaggio e alla verosimiglianza delle situazioni, innovando in questo modo il rapporto tra autore e pubblico e tra autore e scena. Per raggiungere lo scopo, occorreva sottrarre la materia alla libera gestione dei comici, imponendo il rispetto di un testo scritto e rinnovando la materia, andando ad attingere «direttamente all’immenso serbatoio della vita reale di uomini comuni, traendo spunto dai loro particolari caratteri […] come dalle effimere burrasche della vita quotidiana» (Stussi 1998: 887).
Occorreva poi difendere il testo della commedia e la sua autorialità, fissandolo nella forma stabile del libro: operazione che comportava una sua revisione nel passaggio dal copione per la scena al libro per la lettura (Pieri 1995: 904). E attraverso le successive edizioni delle commedie, dalla prima raccolta (Venezia, Bettinelli, 1750-1752), alla successiva (Firenze, Paperini, 1753-1755), fino alla stampa definitiva (Venezia, Pasquali, 1761-1778), Goldoni procedette a una progressiva decantazione degli elementi scenici più condizionati dalla rappresentazione in vista di una destinazione per un pubblico il più possibile italiano ed europeo (Pieri 1991; Scannapieco 2001): oltre a eliminare o attenuare le forme dialettali o a dotarle di chiose, intervenne sull’italiano per correggerne certi tratti morfologici dell’uso corrente e sostituirli con quelli dell’uso letterario; per es., sistematico è il passaggio da -o ad -a della desinenza della prima persona dell’imperfetto indicativo (avevo → aveva), e la sostituzione dei pronomi soggetto lui, lei con egli, ella, due fenomeni tipici nella differenziazione dei livelli di italiano a partire dal Cinquecento.
Nel passaggio alla stampa i testi vedono dunque una rielaborazione in direzione più letteraria, ma, per la natura stessa del teatro, di una letterarietà distinta dal linguaggio umanistico della letteratura, perché la commedia appunto è «una imitazione delle persone, che parlano, più di quelle che scrivono», come afferma lo stesso Goldoni nella presentazione all’edizione Paperini, destinata a esporre la sua riforma a livello nazionale. Qui rivendica di essere «un poeta comico» e non un «accademico della Crusca» e di essersi pertanto «servito del linguaggio più comune, rispetto all’universale italiano» (Teatro, vol. 3°, p. 1285), dove per «universale italiano» s’intende l’italiano degli scrittori, la lingua illuministica governata dai dotti. E, nella definitiva edizione Pasquali, nel presentare le commedie dichiara di «purgarle, per quanto può, dai difetti di lingua», ma
di scrivere quel Toscano che usavasi a’ tempi del Boccaccio, del Berni e d’altri simili di quella classe, ma come scrivono i Toscani de’ giorni nostri, quali si vergognerebbono di usare que’ riboboli che sono rancidi e della plebe, e abbisognano di commento e di spiegazione per gli stranieri non solo, ma ancora per la maggior parte degl’Italiani (Tutte le opere, vol. 1°, pp. 621-757).
Si avverte in questa dichiarazione un riflesso delle contemporanee polemiche sulla norma della lingua nazionale tra puristi e modernisti o liberisti, i quali ultimi difendono il principio di comprensibilità dell’italiano, cui si attiene Goldoni nel voler «essere inteso in Toscana, in Lombardia, in Venezia», e da spettatori colti e incolti.
La ricerca della naturalezza espressiva cui mirava Goldoni andava realizzata non ripudiando della commedia dell’arte il patrimonio di esperienze ancora vive (Romagnoli 1983: 130), ma rinnovandolo dall’interno, trasformando le vecchie maschere in personaggi dai connotati sociali e umani riconoscibili. Riguardo alla lingua, dalle «meccaniche caratterizzazioni plurilinguistiche» si passa «a una libera scelta, come tra pari, dell’italiano o del veneziano, in funzione degli ambienti rappresentati e della destinazione delle commedie» (Stussi 1998: 927).
Il programma riformatore di Goldoni occupò tutta la sua esistenza, una vita per il teatro, da lui stesso narrata nei tardi Mémoires in un’idealizzazione della propria vicenda teatrale. Dopo un lungo apprendistato di canovacci, tragedie e testi per musica, intermezzi e drammi giocosi, musicati da insigni compositori (Galuppi, Paisiello, Cimarosa, Mozart), che fecero di Goldoni il più influente librettista comico del Settecento, approdato al suo primo impegno stabile con il teatro Sant’Angelo, Goldoni avviò dunque quella riforma del teatro maturata anche durante il soggiorno in Toscana, dove aveva assistito alle commedie di Fagiuoli, di Gigli e di Nelli, opere certo di respiro provinciale, ma che egli considerava «testi vivi della buona lingua toscana».
Nella Prefazione alla prima edizione delle sue commedie l’autore affermò di aver preso a «Maestri» il Mondo e il Teatro, l’uno per i tanti e vari caratteri, l’altro per i «colori» con i quali «si debban rappresentar sulle scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti che nel libro del Mondo si leggono». E continuava: «Quanto alla lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte frasi e voci Lombarde, giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa che vi concorre, principalmente nelle Lombarde città dovevano rappresentarsi le mie Commedie». Inoltre, diceva di avere aggiunto «qualche noterella» ad «alcuni vernacoli Veneziani» nelle commedie «scritte apposta per Venezia mia Patria» e che «il Dottore che recitando parla in lingua Bolognese, parla qui nella volgare Italiana» (Teatro, vol. 3°, pp. 1255-1258).
Nel passaggio dalla scena alla stampa, la lingua subisce dunque una revisione in considerazione della diversa fruizione del testo e dell’esigenza di conferirgli una dignità letteraria e renderlo comprensibile a un pubblico più vasto, eliminando via via le maschere, legate ai vari stereotipi dialettali, o toscanizzando alcune parti dialettali. La prima commedia senza maschere e senza dialetto è Pamela (andata in scena nel 1750), tratta dal romanzo di Richardson e quindi ambientata in Inghilterra: come se per uscire dallo schema plurilinguistico l’autore avesse dovuto uscire dall’Italia e affrontare un soggetto che non ammetteva maschere e dialetto. Quanto poi allo stile – continuava Goldoni nella stessa Prefazione – «l’ho voluto qual si conviene alla Commedia, vale a dire semplice, naturale, non accademico od elevato» (ivi).
Il programma di riforma è illustrato in una commedia, Il teatro comico, pièce-manifesto, in cui è presentata una compagnia comica che, facendo le prove di una commedia nuova, mette a confronto le scelte del capo della compagnia con gli esponenti del vecchio teatro, che alla fine si lasciano convincere ad abbracciare le nuove idee. Improntate a un teatro socialmente e civilmente impegnato, come vuole la riforma, sono le commedie scritte per il Sant’Angelo, tra le quali La vedova scaltra, La putta onorata, La buona moglie, La famiglia dell’antiquario, La bottega del caffè e la grande Locandiera. A misurare il percorso fatto dalla riforma nella conquista di una lingua che si è liberata dagli stereotipi tipici dell’italiano della commedia dell’arte e ha acquisito la naturalezza del parlato, può servire un confronto tra La donna di garbo, la prima commedia scritta per intero (rappresentata nel 1748 e stampata nel 1750), e La locandiera (rappresentata e stampata nel 1753): nell’una, Rosaura sfoggia un linguaggio scelto, parodia della artificiosa aulicità tipica dell’italiano delle maschere, e in un monologo inanella forme melodrammatiche (come «smanie del tradito mio cuore»), espressioni improbabili (come «si prevalse della mia debolezza») e inversioni letterarie nella collocazione finale del verbo; nell’altra, Mirandolina si esprime nella lingua reale di un personaggio immerso in un ambiente e in una situazione, ricca quindi di deittici, di espressioni comuni, di segmentazioni e dislocazioni, in una sintassi mossa, con frasi brevi e legami impliciti in grado di rendere l’affettività del personaggio e suggerirne gesti e movimenti scenici.
Nel reinterpretare l’estemporanea plasticità linguistica, e quindi la carica di verità espressiva della commedia dell’arte (Trifone 2000: 72 segg.), Goldoni inventava l’italiano della conversazione, che ebbe ulteriori sviluppi nella produzione degli ultimi anni veneziani. Lo sguardo drammaturgico su Venezia si è fatto sempre più critico, producendo una serie di capolavori realistici, commedie in prosa in dialetto e in lingua, in cui entravano i malesseri e le alienazioni di un ceto borghese incapace di rinnovarsi: Gl’innamorati, I rusteghi, La casa nova, La trilogia della villeggiatura, Sior Todero brontolon. Una serie che si conclude con il grande affresco popolare delle Baruffe chiozzotte e con Una delle ultime sere di carnovale. Tutte commedie dove all’analisi dei personaggi, borghesi e popolari, si accompagna una resa linguistica, in cui lingua e dialetto sono scandagliati in tutte le loro possibilità e differenziazioni diastratiche. Sull’attenzione alle sfumature del veneziano sono molto importanti le osservazioni che accompagnano la Putta onorata (Tutte le opere, vol. 2°, p. 421).
Altrettanta attenzione l’autore presta al parlare degli «uomini qualificati», per il quale prende spunto da concrete forme della conversazione di borghesi e intellettuali dell’Italia settentrionale (Stussi 1998: 929), in un contesto di uso scritto non letterario in cui entrano calchi dal veneziano e regionalismi veneti (come brugior su brusor «dolore», gridare su criar «litigare», correr dietro «corteggiare», borino su borin «vento leggero», scavezzate «spezzate», compagno nel significato di «simile», ecc.), forme letterarie e modi del toscano vivo, espressioni colloquiali (piantare il bordone «introdursi a scroccare», piangere il morto «essere triste, abbattuto») e francesismi: un «fantasma scenico che ha spesso la vivezza del parlato» (Folena 1983: 91), una sorta di koinè lombarda che aveva già un suo collaudo teatrale (Pieri 1995: 890). Tale koinè trova riscontro nella testimonianza di un veneziano contemporaneo, Francesco Zorzi Muazzo, che riferiva del modo di parlare negli ambienti urbani colti, definito «parlar impontìo», e «zè parlar affettà come saravve a dir un venezian volendo parlar toscan», dove toscano equivale a italiano (Zorzi Muazzo 2008: XXXVIII), insomma un parlare avvertito come affettato. Imitare la conversazione delle persone «qualificate» significava pertanto renderne anche gli aspetti di affettazione, derivanti dall’uso di una lingua non ancora posseduta per competenza naturale.
In effetti, ai suoi contemporanei il teatro di Goldoni, non solo veneziano ma anche italiano, era apparso nuovo proprio per veridicità e adesione al reale anche nel linguaggio, e per questo biasimato da alcuni e apprezzato da altri (Hecker 1985). Voltaire ne ammirava lo stile «naturale», ma, va precisato, il suo giudizio nasceva da una competenza dell’italiano della conversazione formatasi sui manuali italo-francesi del Settecento, che offrivano un modello di lingua cerimoniosa, propria delle convenzioni di salotto, i cui materiali sembrano rifare, seppure grezzamente, moduli delle conversazioni galanti di alcune commedie goldoniane; e lo stesso Voltaire sosteneva di voler far apprendere l’italiano alla «petite fille du grand Corneille» sulle «pièces» di Goldoni (Hecker 1985: 118).
La fisionomia impacciata dell’italiano goldoniano era quella dell’italiano settecentesco dell’uso comune (fuori della Toscana), come mostrano le chiose esplicative o di traduzione apposte dall’autore alle commedie in dialetto, scritte in un italiano artificiale. Per es., dai Rusteghi: un fiaetin «un pocolino», Coss’è sti sesti? «che malegrazie son queste?», La varda co spessego «come io mi sollecito», un puto de sesto «un giovine di garbo», ecc.
Ma è nella sintassi e nella struttura testuale che Goldoni raggiunge la vivezza e spontaneità del parlato, dando esempio di una vitalità linguistica che prelude alla lingua «viva e vera» di ➔ Alessandro Manzoni, al quale però l’italiano di Goldoni apparirà «difettoso», mancante dell’organica unitarietà che possedeva invece il «puro e bel veneziano» delle altre sue commedie. Manzoni non poteva però non apprezzare di quell’italiano il tentativo di superare la distanza tra la lingua parlata e la lingua scritta, che secondo lui costituiva un ostacolo al raggiungimento di una lingua comune italiana. Ma l’intento di Goldoni era squisitamente ed esclusivamente teatrale, la scioltezza del suo parlato era orientata da uno speciale estro scenico, pertanto estranea alla prosa narrativa o argomentativa delle varie prefazioni alle commedie, una sorta di embrionali «memorie italiane»: dunque una scrittura narrativa, dove l’italiano inclinava verso i modi e le forme della tradizione, «mostrandosi nei fatti piuttosto diverso dalla prosa più innovativa di quel secolo e dalla sua tendenza all’agilità e alla linearità» (Tomasin 2009: 177-187), a conferma di una sensibilità linguistica tutta legata al teatro.
Nei Mémoires l’autore trova «una sua perfetta misura comunicativa» (Folena 1983: 367), grazie a quel francese che, impostosi nel corso del Settecento come lingua internazionale ed entrato nel parlato familiare delle classi nobili e borghesi in Lombardia e nel Veneto, si presentava come lingua per eccellenza della prosa e della conversazione. Nel teatro di Goldoni il francese compare accanto all’italiano e al veneziano ora in funzione giocosa e parodica, ora nel rendere i modi della conversazione mondana. La sua presenza interferisce con l’italiano teatrale goldoniano, modellandone l’impianto dialogico, fortemente paratattico, agile e sciolto, e il lessico, con l’assunzione di francesismi più o meno adattati a seconda dei contesti borghesi o popolari. La competenza goldoniana del francese, soprattutto orale ed esente da preoccupazioni ortografiche o letterarie, si perfeziona nel soggiorno parigino, come mostrano le commedie in francese, in particolare il Bourru bienfaisant, «veramente pensate secondo lo spirito francese» e scritte in un francese «sincronico, sensibile all’uso» (Folena 1983: 385). E anche nei Mémoires, composti a partire dal 1783, la scelta del francese – un francese colloquiale, disinvolto, ma anche approssimativo – risponde alla volontà di rivolgersi al pubblico del momento nella sua propria lingua, secondo quella esigenza pragmatica di comunicatività che ha sempre guidato Goldoni.
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(un’edizione nazionale con intenti critici è in corso presso l’editore Marsilio di Venezia).
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Folena, Gianfranco (1983), L’esperienza linguistica di Carlo Goldoni, in Id., L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi, pp. 89-132.
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Malato, Enrico (dir.) (1995-2004), Storia della letteratura italiana, Roma, Salerno Editrice, 14 voll.
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