GUALTERUZZI, Carlo
Nacque a Fano il 5 marzo 1500 da Niccolò da Piagnano e da una certa Diana, morta intorno al 1544.
Il luogo di nascita si deduce dall'appellativo "da Fano" con cui spesso troviamo accompagnato il suo nome nei documenti ufficiali e in varie corrispondenze. Proprio di Fano il padre chiese la cittadinanza il 19 febbr. 1519, ottenendola nel maggio dello stesso anno, e all'origine fanese del G. allude in modo diretto Pietro Bembo in una lettera del 1535 (Bembo, 1987-93, III, p. 623).
Per studiare diritto, all'età di quindici anni il G. si trasferì a Bologna, dove conobbe il letterato Ludovico Beccadelli, cui resterà legato per tutta la vita. Intorno al 1520 sposò Elena Graziani che morirà nel 1537 dopo avergli dato otto figli: Goro (m. 1553) e Ugolino, nati entro i primi quattro anni di matrimonio, cui seguirono Cornelia, Innocenza, Tessa (nata intorno al 1535), Orazio, Lelio e Ottavia. All'inizio degli anni Venti il G. si spostò tra Fano, Bologna e Roma al seguito di Gregorio (Goro) Gheri, vescovo di Fano fino al 1524, e quindi nominato governatore di Bologna e vicelegato. Il G. ebbe così modo di conoscere i nipoti del Gheri e, successivamente, di intrecciare rapporti di profonda e duratura amicizia in particolare con Cosimo e Filippo, allora giovanissimi. L'amicizia con Pietro Bembo aveva frattanto orientato gli interessi del G. verso le lettere. I nuovi studi approdarono a un'impresa di proporzioni considerevoli: il Bembo gli affidò infatti l'edizione del Novellino, che aveva pensato di curare egli stesso. Le ciento novelle antike (successivamente riedito col titolo Libro di novelle e di bel parlar gentile nel quale si contengono cento novelle; il titolo Novellino è usato in via confidenziale da Giovanni Della Casa in una lettera al G. del 27 luglio 1525), che secondo Dionisotti rappresenta la prima edizione critica di un testo antico di prosa toscana, uscì presso G. Benedetti di Bologna nel 1525, lo stesso anno delle Prose della volgar lingua. La coincidenza delle due pubblicazioni potrebbe non essere del tutto casuale; la lettera di dedica a Goro Gheri, stilata dal Bembo a nome del G. (Dionisotti, 1981, p. 285), mette in luce una peculiarissima attenzione per i fatti di lingua: l'operetta vi appare infatti decantata in quanto documento più antico in prosa volgare, la cui fedele riproduzione vorrebbe soddisfare la curiosità del destinatario e rendere il lettore "più giudicioso e più accorto" nello scrivere. Sarà poi B. Varchi, nel suo dialogo sulla lingua, L'Ercolano, a ricordare la competenza linguistica del G., "uomo delle cose toscane assai intendente" (p. 177).
Intorno al 1527 ottenne l'incarico di scrittore di lettere presso la Dataria apostolica e si trasferì a Roma con tutta la famiglia, alloggiando momentaneamente presso il palazzo del cardinale Giovan Maria Ciocchi Del Monte (futuro Giulio III), vicino alla celebre statua di Pasquino. Alla morte del Gheri, nel 1528, la carriera del G. procedeva speditamente: dal 15 marzo fu designato, mantenendo la funzione di scrittore, alla Penitenzieria apostolica. Da allora e per un lungo periodo il G. non si sarebbe allontanato da Roma che per seguire la corte. Così, nel 1530 si recò a Bologna per l'incoronazione di Carlo V a imperatore, e nel 1533 a Marsiglia, dove il 23 ottobre furono celebrate le nozze di Caterina de' Medici con Enrico duca d'Orléans. Già all'inizio del 1534 il G. era considerato "familiare" di Clemente VII e quindi del neoeletto Paolo III: con quel titolo fu infatti indicato nella bolla che gli conferiva l'incarico di procuratore della Penitenzieria.
Il legame con la famiglia Gheri, intanto, non si era allentato: dopo la morte di Goro (1528), il G. fu procuratore di Cosimo Gheri, vescovo eletto di Fano. Preso a suo nome possesso formale della diocesi nel 1530, dovette provvedere alla soluzione in Curia di ogni questione amministrativa che Cosimo gli delegava, mostrandosi restio ad assecondare le sollecitazioni al trasferimento che il G. non mancava di rinnovargli. Cosimo preferiva proseguire gli studi a Padova, dove, insieme con l'amico Beccadelli, poteva frequentare il Bembo, Alvise Priuli, Reginald Pole e seguire nelle lettere classiche un gruppo di giovani allievi, tra i quali era il figlio del G., Goro.
Anche del Bembo il G. divenne in breve procuratore, amministrando per suo conto benefici e rendite; l'epistolario, che si inoltra fino al 1543, pur mutilo delle lettere del G., che in qualità di curatore le avrebbe in seguito tutte estromesse, documenta nondimeno i loro rapporti d'affari e la relazione umana.
Il Bembo vi infonde una fiducia costante per il suo prediletto e devotissimo procuratore, mantenendosi, tuttavia, volutamente distante da ogni sorta di confidenza: la comunicazione, certo riservata, di episodi quale il tentato avvelenamento ai suoi danni (lettera del 28 ag. 1530) appare avvolta in una rigida formalità, diretta a ottenere dal corrispondente, nel disbrigo degli incarichi affidatigli, una vigilanza e uno zelo ancora più scrupolosi. L'anno successivo il Bembo si prodigò nel ricambiare i favori ricevuti dal G. pregando il cardinale Egidio da Viterbo (Egidio Canisio) di voler aiutare il suo protetto "in certo suo dissegno nella contrada d'Acquapendente" (lettera del 22 dic. 1531, in Bembo, 1987-93, III, p. 302). Egli, se non oltrepassò la misura della cortesia in occasione della richiesta del G. di accogliere il figlio Goro in casa rispondendo con un rifiuto venato di modestia, non si sottrasse invece all'invito di officiare il battesimo della figlia del G., Cornelia, l'11 luglio 1532. In occasione di un incidente, occorso al G. nel novembre 1535 e che aveva compromesso il buon esito di un servigio, il Bembo rinnovava al procuratore fiducia e affetto, abbandonandosi a una considerazione lusinghiera: "non ho amico né più certo, né più vero, né più caldo di voi"; contestualmente, si congratulava con lui per un oscuro "ufficio avuto da N. S., e utile e onorato, e rallegromene non tanto per questo e onore e utile che io dico, quanto per ciò che io veggo esser fatto principio da S. S.tà di operarvi e d'alzarvi" (ibid., p. 627). L'incarico più importante, e tra i più delicati coinvolgendo anche il figlio del Bembo, era giunto invece due anni prima, l'11 febbr. 1533: insieme con Marcantonio Flaminio il G. veniva nominato procuratore per la rinuncia alla badia di Villanova, di cui il Bembo voleva mantenere nondimeno l'amministrazione vitalizia. Ma nel G. il poeta trovava anche un abile ambasciatore per diffondere le sue opere letterarie tra gli amici lontani e per mantenere vive alcune relazioni di riguardo che lo attendevano a Roma: nell'estate del 1532, gli inviava due medaglie con la propria effigie, una per lui e un'altra per Vittoria Colonna, che ne aveva fatto richiesta. Nonostante l'appoggio del Bembo e le numerose conoscenze, il G., in quegli anni uomo già in vista, non godeva di stima presso alcuni ambienti romani; l'ostilità era arrivata al punto che Cosimo Gheri aveva sentito l'esigenza di informare il Beccadelli, e persino di cercare una giustificazione: la città era "divisa" e a gelosie e "suspettuzzi" nessuno poteva sottrarsi; da parte sua, pur confermando simpatia e sostegno al G., era certo che ciò a nulla sarebbe valso se il suo protetto non avesse dato ascolto al "Maestro interiore", forse alludendo così a un possibile percorso spirituale (lettera del 1537, in Monumenti di varia letteratura… di mons. Lodovico Beccadelli, I, 1, pp. 301 s.). Il G., nonostante l'ostilità di alcuni, poteva dunque contare su una cerchia di amici autorevoli, tra i quali spiccava il nome del cardinale Alessandro Farnese.
Fu proprio grazie a questi appoggi che egli poté prestarsi da intermediario anche per l'ambizioso progetto del cardinalato, del quale il Bembo lo fece presto partecipe. Quando il Bembo si trasferì a Roma, nell'ottobre del 1539 - era stato proclamato cardinale nel marzo - le occasioni di scambio epistolare tra i due si fecero di necessità intermittenti ed essenziali, mentre più sistematica divenne la frequentazione di alcuni amici comuni: di Vittoria Colonna il G. era considerato già dal 1536 "molto intrinseco" (Caro, I, p. 35), mentre tale fu la sua "famigliaritade" con Michelangelo, che Pietro Aretino, nel 1544, si sarebbe rivolto a lui per ottenere dal pittore certi disegni promessi da tempo (Aretino, 1999, III, p. 83). Sempre nel 1539, il Bembo lo inviò a Gubbio per consegnare, in sua vece, la berretta al neoeletto cardinale Federico Fregoso. L'anno successivo fu la volta di una missione spagnola per conto di Paolo Giovio, che attendeva l'assegnazione di una pensione. A quello stesso anno risale una delicata iniziativa della Colonna che lo vide indirettamente coinvolto in un incidente diplomatico: la poetessa aveva appena ultimato la raccolta delle sue Rime spirituali, dove ai modelli petrarcheschi si coniugava una vena di intensa spiritualità, quando ne fece spedire copia a Margherita di Navarra, servendosi come intermediario del G., che aveva prestato opera di trascrittore probabilmente senza ricoprire il ruolo ufficiale di segretario. Il libro, sospettato d'eresia, fu immediatamente sequestrato e solo in un secondo tempo giunse nelle mani di Margherita.
A testimoniare la corrispondenza poetica che legò il G. al Bembo è il sonetto Carlo, dunque venite alle mie rime, dove il G. viene esortato a comporre in prosa le lodi della sua donna; per parte sua, non mancava di soddisfare le richieste di consigli su quanto andava componendo, che Bembo costantemente gli rivolgeva; fu del G., ad esempio, l'idea di una stampa congiunta delle Rime e degli Asolani (lettera del Bembo a Girolamo Quirini, 11 nov. 1541). Nel 1544 il Bembo, impossibilitato a proseguire il volgarizzamento della Historia Veneta, scriveva al Quirini di avere deciso di affidarlo al Gualteruzzi. Alla sua morte (18 genn. 1547), l'opera era però ancora inedita e il G., scelto come esecutore testamentario, venne coinvolto in una polemica proprio con Quirini.
Con il testamento del 5 sett. 1544, i due erano stati nominati da Bembo "commissarii" di tutti gli scritti, insieme con F. Tomarozzo, che però era scomparso prima del Bembo. La lunga controversia, di cui il G. riferì in varie occasioni al Della Casa, nunzio a Venezia, si era accesa attorno al luogo in cui stampare la Historia: contro il parere del Quirini, che candidava Venezia, il G. sosteneva l'opportunità di scegliere Roma. Quirini, rivoltosi dapprima al Della Casa, che invece aveva tentato una mediazione, fece infine ricorso al doge e al Consiglio dei dieci. L'istituzione veneziana deliberò che venisse chiamato il Della Casa al difficile compito di esigere il manoscritto in cambio dei proventi della stampa. Il G. si lasciò persuadere: con una lettera del 21 maggio 1547, annunciava al Della Casa la consegna del manoscritto. Dopo estenuanti trattative, si pervenne infine a un accordo: la versione in volgare dell'opera fu stampata a Venezia nel 1552 presso Gualtiero Scoto, con dedica a Isabetta Quirini e il privilegio di Paolo III, della Repubblica veneziana e della Francia al Gualteruzzi. L'edizione latina della Historia Venetae lib. XII fu pubblicata a Venezia, apud Aldi filios, 1551. L'intenzione mostrata dal Bembo di affidare al G. il volgarizzamento dovette trovare impedimenti e l'opera fu tradotta in italiano da un anonimo volgarizzatore. Altrettanto inconsistente sembra ormai anche l'ipotesi che il G., noto per l'eleganza dello stile, possa esser stato l'autore di alcuni rimaneggiamenti linguistici, della cui inefficacia già il Della Casa aveva avuto modo di lamentarsi.
L'epistolario bembesco ebbe una sorte meno travagliata: la sua pubblicazione a cura del G. avvenne nel 1548 per i tipi del Dorico (stesso anno e stesso editore delle Rime), con privilegio di stampa concesso ancora da Paolo III. Una copia dell'opera fu donata, con dedica recante la data del 1549, dallo stesso G. a Ludovico Castelvetro, autore delle Giunte alle Prose della volgar lingua.
Gli anni Quaranta del secolo, nel loro complesso, si caratterizzarono come un'intensa stagione di scambi intellettuali tutti convergenti sulle figure di Vittoria Colonna e del cardinal Pole, animatori, nel clima pretridentino, di un aristocratico cenacolo intento a dibattere i problemi religiosi più controversi in attesa del concilio e a discutere i temi di riflessione sulla fede propri del cosiddetto evangelismo italiano. Le riunioni, alle quali partecipavano personalità eccellenti nell'istituzione ecclesiastica e nel mondo della cultura, si svolgevano a Viterbo, ma il gruppo manteneva contatti con filoni eterodossi di altre città italiane, finendo presto per costituire oggetto di indagine da parte dell'Inquisizione. Tra gli esponenti figurava uno dei più cari amici del G., Marcantonio Flaminio, seguace a Napoli di Bernardo Ochino, che aveva da poco sottoposto a revisione formale il Beneficio di Cristo. L'opera, scritta da Benedetto Fontanini da Mantova, si era imposta come testo fondamentale per i valdesiani; nonostante la capillare diffusione, gli esemplari italiani sarebbero stati distrutti, senza alcuna eccezione, dall'Inquisizione. Frequentavano con lui il circolo viterbese Alvise Priuli, Pietro Carnesecchi, Gasparo Contarini e Giovanni Morone.
Di tutti costoro, molti dei quali in seguito processati per eresia dall'Inquisizione, con condanne gravi fino all'estremo supplizio, il G. fu senz'altro intimo amico, o addirittura corrispondente, tanto da apparire come un personaggio di primo piano, in grado di mantenere i contatti tra i vari membri del gruppo. La sua presenza attiva agli incontri, tuttavia, traspare solo dalla filigrana dei documenti sopravvissuti sino a noi, rendendo il suo ruolo nella storia religiosa italiana di difficile determinazione, da affidare per lo più a ipotesi. La posizione di prestigio che egli ricopriva in Curia e la fiducia di cui godeva presso eminenti prelati lontani dalle posizioni degli spirituali, come il Della Casa, se, per un verso, sconsigliano dal sostenere un suo diretto e personale coinvolgimento nelle discussioni viterbesi, per un altro disegnano la figura di un intermediario ideale, in grado di mantenere il collegamento con la Curia e di trattare con riservatezza negoziati di delicata materia. A tale proposito, documento degno di attenzione appare il linguaggio degli epistolari di molti dei protagonisti, e tra questi il G. in primo luogo: riferimenti a temi religiosi e allusioni al clima di sospetto si colgono di frequente, tanto che gli epistolari antologici pubblicati a partire dal 1542 dai figli di Aldo Manuzio e poi ancora il Novolibro di lettere scritte da i più rari auttori e professori della lingua volgare italiana pubblicato in due stampe nel 1544 e nel 1545, pur divulgati allo scopo di fornire un modello di epistolografia volgare, sembrerebbero celare contenuti tipici dell'evangelismo, opportunamente occultati per la censura. A mettere in rilievo l'importanza del G. basterà ricordarne l'assidua presenza in ognuna di queste raccolte, come mittente e come destinatario.
Alla familiarità con gli spirituali non poteva rimanere estranea la questione della giustificazione per fede, attorno alla quale il loro circolo si era costituito. In Marcantonio Flaminio il G. infatti individuò ben presto il consigliere di letture opportune e l'amico gli sottopose uno dei testi più frequentati in quella cerchia: il De imitatione Christi. Al Flaminio, che stava ancora completando la revisione del Beneficio l'opera sembrava particolarmente adatta, e, anche a costo di indirizzare i contenuti del De imitatione in senso riformato, non mancò di sottolinearne le ragioni al G. (Napoli, 28 febbr. 1542, in Simoncelli, 1978, p. 16).
In quegli anni, il G. era senz'altro ben inserito alla corte di Roma, come si desume dal carteggio (1544-49) con il Della Casa, dal quale egli affiora nelle vesti di abile procuratore e attento informatore di ogni iniziativa della Curia, cui aveva evidentemente libero accesso. La fiducia di cui godeva presso il prelato era alimentata dalla sua capacità di affrontare con precisa cognizione gli incarichi più delicati, come la vicenda giudiziaria di Ottaviano Civenna, religioso accusato di reati comuni: il G. garantì nell'occasione la mediazione di un conflitto giurisdizionale fra Roma e Venezia, che anticipava i temi dell'interdetto.
Alla morte di Paolo III, nel 1549, il G. comunicava al Della Casa in una lettera del 23 novembre, che, "essendone stato con instantia richiesto", avrebbe di lì a poco presenziato alle sedute del conclave, tra i conclavisti del cardinale Giovan Angelo de' Medici, il futuro Pio IV; l'incarico implicava l'impossibilità di comunicare per iscritto, proprio mentre il corrispondente desiderava essere dettagliatamente informato. Il compito di informatore passò così al figlio del G., Goro, che il 4 dicembre successivo scriveva al Della Casa di avere saputo da persone degne di fede il nome del nuovo papa: Reginald Pole. La notizia si sarebbe rivelata infondata, poiché si trattava solo di un primo scrutinio, ma in quella fase iniziale del delicato conclave, che avrebbe potuto segnare un radicale rinnovamento in Italia, la sua candidatura sembrò di fatto la favorita, potendo contare sul sostegno di Alessandro Farnese e sull'indicazione lasciata a suo tempo da Paolo III. La presenza del G. fra i conclavisti fu, tuttavia, breve, interrotta dalla riforma (31 genn. 1550) che ne ridusse il numero, al fine di arginare le fughe di notizie e le ricorrenti pressioni esterne. L'elezione di Giulio III (Giovan Maria Ciocchi Del Monte), con il quale il G. era da tempo in buoni rapporti, non comportò rivolgimenti nella sua carriera, almeno fin tanto che non si inasprirono le relazioni tra il nuovo papa e i Farnese per il conflitto sulla sovranità di Parma.
Il coinvolgimento del G. nelle vicende legate agli spirituali non compromise in ogni caso il suo prestigio in Curia, se nel 1553 venne nominato procuratore degli affari di Fano presso quella sede. L'anno successivo lo raggiunse la nomina a capo del Consiglio della Comunità fanese, mentre aumentarono le difficoltà economiche, cui egli poté in parte far fronte grazie all'eredità che il Pole, morendo nel 1558, volle lasciargli. Se egli prese parte attiva al dibattito religioso, il suo fu un agire nell'ombra; ma tanta prudenza non gli risparmiò le attenzioni dell'Inquisizione.
L'archivio personale, ricco di materiale prezioso per le indagini su personaggi chiave, venne sicuramente perquisito durante il pontificato di Paolo IV: oltre al Bembo e allo stesso Pole, gli avevano infatti affidato le loro carte, spesso nominandolo curatore testamentario, tra gli altri il vescovo Gian Matteo Giberti, noto per la sua attività di riforma nella diocesi di Verona, e Gasparo Contarini. Non è escluso, infine, che egli stesso abbia distrutto documenti compromettenti, mentre una parte dell'archivio si unì alla biblioteca di Onofrio Panvinio (familiare di Alessandro Farnese dal 1554).
Neanche gli atti dei due processi inquisitoriali più importanti dell'epoca, contro il Carnesecchi e contro il cardinale Giovanni Morone, forniscono materiale utile a ricomporre il frammentario profilo religioso del Gualteruzzi. Durante la deposizione del 9 giugno 1560 (settimo costituto), Carnesecchi - del quale il G. era stato ospite nel 1541 e attento consigliere in occasione delle prime indagini a suo carico - nel ricostruire gli eventi che precedettero la sua fuga per la Francia nel 1547, affermava di avere perso traccia di certi suoi scritti valdesiani e altri "d'humanità et di philosophia": i due amici designati a custodirli, infatti, ossia un certo mastro Damiano medico e appunto il G., si erano rifiutati "excusandose con la angustia della casa" (in Firpo - Marcatto, 1998, p. 88). Più diretto doveva invece essere il coinvolgimento nella vicenda legata al Morone, del quale il G. era uno dei familiari: subito dopo il suo arresto, nel 1557, il G. fuggì da Roma, per timore di pericolosi compromissioni. Trovò riparo a Venezia, ospite del Quirini e in ultimo di A. Rucellai, presso il quale ebbe occasione di curare insieme con E. Gemini l'edizione del Galateo di Della Casa. Il clima di amicizia e di protezione in cui trascorse quell'anno non riuscì ad arginare l'angoscia per il volgere delle cose in Italia; questo infatti volle rivelare al Beccadelli, arcivescovo nella lontana Ragusa: "di qua non si può sperar ben niuno, et se Dio non aiuta esso per sua bontà la innocentia, tutti gli amici et patroni nostri sono per far male i fatti loro: il cardinal Polo, monsignor Prioli, il prothonotario Carnesecchi" (26 apr. 1558, in Firpo - Marcatto, 1998, pp. XXIII s.). Il corrispondente era stato scelto con cura: pochi mesi più tardi, egli, offrendogli in lettura la biografia del Contarini che aveva appena composto, gli manifestava la precisa volontà di mantenere segreto il proprio nome e di far circolare l'opera anonima (Ragusa, 16 nov. 1558, in Simoncelli, 1977, p. 152). Dopo un anno di permanenza a Venezia, il G. si trasferì a Parma, presso Alessandro Farnese. Da allora e per tutti gli anni Sessanta il G. rimase il punto di riferimento di molti intellettuali legati alla stagione di massima vitalità dell'evangelismo; continuò a prodigarsi in favori a beneficio di G. Fracastoro e del Beccadelli cui riservò il 6 apr. 1559 ulteriori giudizi sulla situazione a Roma, dove, dopo la morte di molti benefattori, "poco si può sperare in quelli che vi sono" (in Moroni, 1984, pp. 239 s.). Egli attendeva, dunque, il realizzarsi delle condizioni propizie al rientro nell'Urbe.
Stretto tra queste angosce, incerto se rifugiarsi nelle Fiandre, il G. attese dunque la morte di Paolo IV, sopraggiunta il 18 agosto di quell'anno, per far ritorno; durante il viaggio verso Roma, si accompagnò con il cardinale del quale era stato conclavista, Giovan Angelo de' Medici, che sarebbe stato eletto papa (Pio IV) nell'imminente conclave. Le difficoltà economiche, con il nuovo pontificato, non si fecero attendere: le riforme amministrative varate di lì a breve ebbero infatti l'obiettivo di estromettere dagli incarichi tutti i laici. Il G. riuscì, anche in questa congiuntura, a superarle: intorno al 1562 Alessandro Farnese lo nominò infatti suo segretario, posto al quale era destinato da tempo Annibal Caro, che per questo non nascose il suo profondo risentimento nei confronti del rivale.
Dell'ultimo periodo resta qualche lettera: a seguito dei nuovi impegni, il G. si accordò con il Farnese per poter mantenere, tralasciando tutti gli altri legami epistolari, la corrispondenza almeno con gli amici più intimi, Beccadelli, L. Torelli e Carnesecchi, ma si sono conservate solo le lettere scambiate con i primi due. Il disbrigo dei numerosi e nuovi incarichi portò il G. a spostarsi tra Roma e Caprarola, mentre si andò rinsaldando il legame con la cittadina natale. Per il bimestre novembre-dicembre 1576 egli fu membro del Consiglio speciale della Comunità di Fano; un anno più tardi, per il bimestre maggio-giugno, ricevette la carica di gonfaloniere onorario della città. La sua ultima lettera data al 20 luglio 1576: al Torelli confidava che un nuovo lutto, di cui nulla sappiamo, lo aveva colpito e che traeva qualche conforto dall'averne sopportato un altro in passato, alludendo forse alla prematura e dolorosa morte del primogenito.
Già malato da tempo, ma ancora nel pieno della sua attività, il G. si spense il 26 maggio 1577, come registra il Liber mortuorum della chiesa di S. Lorenzo in Damaso a Roma. Il corpo, in ossequio alle ultime volontà, fu sepolto accanto a quello del figlio Goro, nella chiesa di Trinità dei Monti.
La fortuna del G. è consegnata anche a varie opere letterarie: il Flaminio gli dedicò un componimento in faleci, Quas agam tibi gratias; I. Marmitta dei versi italiani (I frutti Carlo pretiosi e rari). Forse è da identificare con lui il Carlo da Fano paggio del duca di Mantova Federico II Gonzaga, che, vestito da sposa, porta a effetto una burla ai danni del marescalco protagonista dell'omonima commedia di P. Aretino (atto V, scena IV). Dubbi sull'identificazione con il G. riserva anche un'altra commedia dell'Aretino, Cortigiana (atto V, scena XIII), dove il suo nome compare nell'elenco di alcuni medici. Probabilmente grazie alla notorietà del Novellino, esso fece poi ingresso nella storia della letteratura a designare uno dei primi scrittori di novelle (Tiraboschi, IV, p. 173).
Opere. Una lettera a Donato Rullo in Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni scritte in diverse materie, Vinegia, P. Manuzio, 1564, c. 119; Lettere inedite di Carlo Gualteruzzi da Fano, a cura di S. Tomani Amiani, Pesaro 1834; Alcune lettere inedite di messer Carlo Gualteruzzi da Fano scritte ad eminenti personaggi a nome del cardinale Alessandro Farnese in occasione di cospicuo matrimonio nel 1565, a cura di R. Gabrielli Wiseman - L. Castracane degli Antelminelli - L. Masetti, in Omaggio per nozze Montevecchio - Benedetti Spada, Fano 1882; una parte considerevole della corrispondenza del G. conservata nell'Archivio segreto Vaticano è pubblicata a cura di O. Moroni in C. G. (1500-1577) e i corrispondenti, Città del Vaticano 1984 e in Corrispondenza Giovanni della Casa - Carlo Gualteruzzi (1525-1549), Città del Vaticano 1986; una lettera a Cosimo Pallavicino in Novo libro di lettere scritte da i più rari auttori e professori della lingua volgare italiana, Milano, P. Gherardo, 1544 e 1545 (ed. anast., a cura di G. Moro, Sala Bolognese 1987), pp. 362 s. (ma pp. 96 s.).
Fonti e Bibl.: Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni scritte in diverse materie, Vinegia 1542, cc. 118-120, 135-136 (due lettere al G. di Paolo Sadoleto e di P. Bembo); ed. successiva ibid. 1554, cc. 134v-135r (una lettera al G. di Francesco Torre); Monumenti di varia letteratura tratti dai manoscritti originali di mons. Lodovico Beccadelli, arcivescovo di Ragusa, a cura di G. Morandi, I, 1, Bologna 1797, pp. 64, 76, 201, 301 s.; I, 2, ibid. 1799, pp. 219 s.; B. Varchi, L'Ercolano, II, Milano 1804, p. 177; F. Berni, Rime, poesie latine e lettere edite e inedite, a cura di A. Virgili, Firenze 1885, pp. 332-335, 337-344 (dieci lettere di F. Berni al G.); A. Massarelli, Diarium conclavis post obitum Pauli III, in Concilium Tridentinum, II, Diariorum pars secunda, Friburgi Brisgoviae 1911, pp. 124, 127; Prolegomena, ibid., pp. LXXXVIII s., CXI, CXXV; F. Berni, Poesie e prose, a cura di E. Chiorboli, Firenze 1934, ad ind.; P. Giovio, Epistularum pars prima, a cura di G.G. Ferrero, Roma 1956, pp. 253, 339; A. Caro, Lettere familiari, a cura di A. Greco, I, Firenze 1957, pp. 35, 44; II, ibid. 1959, p. 327; III, ibid. 1961, p. 103; P. Bembo, Opere in volgare, a cura di M. Marti, Firenze 1961, ad ind.; P. Aretino, in Teatro, a cura di G. Petrocchi, Milano 1971, pp. 80 s., 201; M. Flaminio, Lettere, a cura di A. Pastore, Roma 1978, ad ind.; Processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, a cura di M. Firpo - D. Marcatto, Roma 1981-87, ad indices; P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, I-IV, Bologna 1987-93, ad indices; M. Flaminio, Carmina, a cura di M. Scorsone, San Mauro Torinese 1993, pp. 162 s.; I processi inquisitoriali di P. Carnesecchi (1557-1567), I, I processi sotto Paolo IV e Pio IV, a cura di M. Firpo - D. Marcatto, Città del Vaticano 1998, ad ind.; P. Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, III, Roma 1999, pp. 82 s.; F. Vecchietti, Biblioteca picena…, V, Osimo 1796, pp. 156-160; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, IV, Milano 1833, p. 173; L. Campana, Monsignor Giovanni Della Casa e i suoi tempi. Vita privata, in Studi storici, XVII (1908), pp. 381-606; L. von Pastor, Storia dei papi, V, Roma 1924, p. 691; C. Dionisotti, Monumenti Beccadelli, in Miscellanea Pio Paschini. Studi di storia ecclesiastica, II, Roma 1949, pp. 251-268; E. Re, La casa di messer C. G. da Fano in regione Pontis, in Arch. della Società romana di storia patria, s. 3, VIII (1954), pp. 1-14; G. Fragnito, Gli "spirituali" e la fuga di Bernardino Ochino, in Riv. stor. italiana, LXXXIV (1972), pp. 777-813 passim; P. Simoncelli, Il caso Reginald Pole. Eresia e santità nelle polemiche religiose del Cinquecento, Roma 1977, pp. 12, 152; Id., Pietro Bembo e l'evangelismo italiano, in Critica storica, XV (1978), pp. 1-63 passim; Id., Evangelismo italiano del Cinquecento, Roma 1979, ad ind.; C. Dionisotti, Appunti sul Bembo e su Vittoria Colonna, in Miscellanea Augusto Campana, I, Padova 1981, pp. 257-286 passim; A. Pastore, Marcantonio Flaminio. Fortune e sfortune di un chierico nell'Italia del Cinquecento, Milano 1981, ad ind.; P. Simoncelli, Inquisizione romana e Riforma in Italia, in Riv. stor. italiana, C (1988), pp. 5-125 passim; G. Fragnito, Evangelismo e intransigenti nei difficili equilibri del pontificato farnesiano, in Riv. di storia e letteratura religiosa, XXV (1989), pp. 20-47 passim; S.M. Pagano - C. Ranieri, Nuovi documenti su Vittoria Colonna e Reginald Pole, Città del Vaticano 1989, pp. 40 n., 47 n., 65 n., 72, 103 n.; M. Firpo, Tra Alumbrados e "spirituali". Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del '500 italiano, Firenze 1990, pp. 179-182; Id., Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone e il suo processo d'eresia, Bologna 1992, ad ind.; G. Moro, Menzogna o sortilegio? Giovan Battista Pallavicino, Lope Hurtado de Mendoza e un'accusa di stregoneria nella Roma farnesiana (1540), in Riv. di storia e letteratura religiosa, XXVIII (1992), pp. 215-275 passim; C. Dionisotti, Bembo, Pietro, in Diz. biogr. degli Italiani, VIII, Roma 1966, p. 142; A. Giusti, Gheri, Cosimo, ibid., LIII, ibid. 1999, pp. 645-647; P.O. Kristeller, Iter Italicum, ad indicem.