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CARLO I imperatore d'Austria

di Manfredi Gravina - Enciclopedia Italiana (1931)
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CARLO I imperatore d'Austria

Manfredi Gravina

Figlio dell'arciduca Ottone (della casa d'Asburgo-Lorena) e di Maria Josepha di Sassonia, nato il 17 agosto del 1887 a Persenburg (Bassa Austria), morto a Funchal (Madera) il 1° aprile 1922. Il 21 ottobre del 1911 sposò Zita, principessa di Borbone-Parma, alla villa delle Pianore (Lucca), e non richiamò attenzione alla sua persona se non quando, per la morte del cugino Francesco Ferdinando, e del padre, divenne erede alla corona imperiale. Fu tuttavia tenuto in disparte durante i primi due anni della guerra dagli altri arciduchi e dai ministri, fino a che, declinando rapidamente le forze del vecchio imperatore, un'ordinanza imperiale (7 novembre 1916) lo associò al sovrano nella cura degli affari dello stato. Il 21 novembre 1916 Francesco Giuseppe moriva, ed egli gli succedeva, assumendo il nome di Carlo I in Austria e IV in Ungheria, dove l'incoronazione ebbe luogo con particolare solennità il 30 dicembre. Di carattere mite, e con virtù familiari che anche gli avversarî gli riconoscono, rigidamente cattolico, dotato di spirito umanitario, e avverso agli orrori della guerra, C. non possedeva le qualità necessarie per reggere l'impero nella difficile situazione in cui lo aveva trovato. Facile a ubbidire alle influenze altrui, e soprattutto a quelle della consorte, seguì tuttavia anche impulsi proprî, non sempre ben meditati, e non seppe arrestare la fatale rovina del trono. In un primo proclama del 23 novembre egli dichiarò il proposito di continuare la guerra a fianco dei suoi alleati, sia pure ammettendo che una pace onorevole lo avrebbe trovato favorevolmente predisposto. Convocò il Reichsrat, che era stato aggiornato fin dall'inizio del conflitto, e lasciò intendere d'avere in animo radicali riforme interne sulla base federale. Sostituì il comandante in capo, arciduca Federico, e il suo capo di stato maggiore, Conrad; chiamò a presiedere il consiglio dei ministri il boemo Clam-Martinic, e, a comune ministro per gli Affari esteri, il conte Czernin, pure esso boemo. Promise un'amnistia alle nazionalità oppresse, ma si alienò con ciò le simpatie di influenti capi militari e, in particolare, dei Tedeschi.

Incoraggiato dalla moglie, in cui erano vive le simpatie francesi, tentò di sottrarsi alla tutela germanica; e poiché riconobbe che il suo popolo, in generale, era ormai stanco della guerra e temette d'altra parte di trovare ostacolo irremovibile nell'avversione germanica a ogni passo in favore della pace, decise di ricorrere a vie segrete, di sua iniziativa, pur non rendendosi conto di tutti i pericoli di questo suo modo di procedere, né del fatto che per l'assoluta noncuranza nei riguardi della nazione italiana, verso la quale l'imperiale coppia nutriva una decisa antipatia e un ostentato disprezzo, i successivi suoi tentativi fatalmente erano destinati a fallire.

Il primo di questi, intrapreso per il tramite di suo cognato, principe Sisto di Borbone, dopo la clamorosa denuncia da parte di Clémenceau nella primavera del 1918, indusse C. a negare, e Czernin a dimettersi. Com'è noto, quel primo passo era stato condotto da C., nell'inverno 1916-17, sulla base della restituzione alla Francia dell'Alsazia Lorena, e dell'evacuazione del Belgio e della Serbia. Incontratosi con Guglielmo II a Homburg nell'aprile, C. non osò parlargli della sua iniziativa in proposito, riguardante l'offerta della Galizia in cambio dell'Alsazia-Lorena, per cui aveva incontrato ostinato rifiuto: ma fece rimettere solo qualche giorno dopo al governo germanico dal conte Czernin un memoriale sulla critica situazione dell'Impero austro-ungarico e sull'impossibilità di continuare la guerra oltre l'autunno. Però i capi militari germanici resero impossibile al conte Czernin di collaborare con gli uomini di stato germanici in favore della pace; e nuovamente l'Austria vi si accinse segretamente, questa volta in Svizzera, con colloqui dell'austriaco conte Revertera con il francese conte Armand. C. e Czernin si mostravano favorevoli all'idea d'una confederazione tra Austria-Ungheria, Baviera e Polonia, e il primo cercò di guadagnarsi il segreto favore del Kronprinz germanico; ma non si giunse neanche questa volta ad alcun risultato, sia per l'abituale intransigenza dei capi militari germanici, e sia per l'ostinato rifiuto di C. a prendere in considerazione le richieste italiane. E quando, fra il 30 settembre e il 2 ottobre, egli cercò ancora d'aver contatti ufficiosi con i rappresentanti dell'Intesa, le sue troppo vaghe proposte furono respinte. La pace di Brest-Litowsk, cui parteciparono delegati austriaci, e il disastro di Caporetto sembrarono, per un breve tempo, dar ragione ai militari germanici. Ma quando, nell'aprile successivo, furono pubblicate le lettere che C. aveva scritto l'anno prima al principe Sisto, ed egli fu smentito clamorosamente nei suoi dinieghi, l'imbarazzo e le difficoltà di C. diventarono assai gravi: si diffidò di lui ormai, tanto nel campo dell'Intesa, quanto in quello tedesco, ed egli fu costretto d'allora in poi a sottostare alla ferrea vigilanza e alla tutela che veniva da Berlino. Poco valse ch'egli chiamasse il conte Burian a succedere allo Czernin (18 aprile 1918), e che si recasse (maggio) in visita espiatoria al quartier generale di Guglielmo II. La realtà tragica si riaffermò nel fallimento dell'offensiva sul Piave; gli Slavi dell'Impero cominciarono ad agitarsi con tendenze separatiste, e, per colmo d'ironia l'imperatrice Zita si vide accusata in Germania di segrete simpatie e relazioni con l'Italia.

Gli ultimi mesi del regno di C. furono caratterizzati dai suoi sforzi disperati per conservare il trono, a qualunque costo. Il 1° ottobre egli fece annunciare l'autonomia per i varî raggruppamenti etnici; il 17, la trasformazione dell'impero in stato federale. Chiamò Andrássy al posto di Burian, e fece da lui comunicare agli Stati Uniti la disposizione dell'impero a entrare in negoziati sulla base dei principî wilsoniani. Il 26 ottobre chiamò il liberale prof. Lammasch a sostituire nella presidenza del consiglio austriaco il pangermanista Hussarek; ma la rovina inesorabile incalzava oramai dai campi di Vittorio Veneto, e dal fronte balcanico. Smarrito, indeciso, C., che aveva offerto un armistizio separato agli Stati Uniti sin dal 27 ottobre, vide trionfare la rivoluzione a Vienna e proclamare la repubblica (1° novembre); fuggì in Ungheria, vi dichiarò di accettare a priori la forma statale che l'Austria avesse creduto di adottare, ma fu costretto ad abdicare come imperatore d'Austria il 12; e due giorni dopo, senza un atto d'abdicazione formale, rese liberi anche gli Ungheresi di disporre dei loro destini.

Soltanto nel marzo del 1919 C., che si era ritirato con la famiglia nel castello di Eckartsau (Bassa Austria), si trasferì con essa in Svizzera (castelli di Wartegg e Prangines), e parve rassegnarsi a vita privata. Ma, sospinto dall'influenza di avventurieri e dall'ambizione della moglie, tentò di approfittare della crisi delineatasi in Ungheria, e, lasciata la Svizzera il 27 marzo del 1921, apparve il giorno dopo a Szombathely (Ungheria occidentale). Ma dinnanzi alla ferma e prudente opposizione del reggente Horthy, e all'ostilità dell'Assemblea nazionale, della Piccola Intesa e della Conferenza degli ambasciatori, C. dovette rinunciare all'impresa, che mirava a riacquistare la corona, e cedere all'invito di lasciare il suolo ungherese. Sei mesi dopo ebbe luogo un suo secondo tentativo, per il quale C. si servì di un aeroplano, che lo trasportò dalla Svizzera a Demesfalva, presso Sopron (Ungheria occidentale), e nel quale lo accompagnò l'ex imperatrice. Accolto favorevolmente dai feudatari locali, tra cui il conte Andrássy e il generale Lehár, C. ebbe la soddisfazion di poter raccogliere le truppe dei presidî vicini, di nominare un gabinetto e di intraprendere la marcia su Budapest. Invano il reggente cercò di dissuaderlo. Immediatamente la Iugoslavia e la Cecoslovacchia mobilitarono ai confini ungheresi, dichiarando di considerare come casus belli la reintegrazione sul trono ungherese di un Asburgo. La Polonia e la Romania si associarono a questo punto di vista e al governo di Budapest non rimase che il far marciare le proprie truppe contro Carlo. Facile fu ad esse il sopravvento, e la coppia imperiale, fatta prigioniera, fu internata nel monastero di Tihany (1° novembre). Le potenze della Grande Intesa appoggiarono la richiesta della Piccola Intesa, secondo cui gli Asburgo dovevano definitivamente dichiararsi decaduti dal trono d'Ungheria, e con unanime voto questa dichiarazione ebbe luogo al parlamento ungherese nel novembre del 1921. Dal castello di Tihany la coppia imperiale fu consegnata a un monitore fluviale britannico, per essere poi trasportata a Funchal (Madera) dove fu raggiunta dai sei figli, e dove C. trascorse gli ultimi mesi in condizioni di spirito tristi, aggravate da difficoltà economiche.

Bibl.: A.C. Werkmann, Der Tote auf Madeira, Monaco 1923, e a cura dello stesso, che fu suo segretario, Aus Kaiser Karls Nachlass, Berlino 1925 (gli appunti che C. stesso scrisse in Svizzera al ritorno dal primo tentativo in Ungheria sono preceduti da una fiera requisitoria contro il reggente Horthy e il regime di lui); R. Fester, Die Politik Kaiṣer Karls, Monaco 1923.

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