CARLO II di Borbone, duca di Parma (precedentemente, Carlo Ludovico, duca di Lucca)
Figlio di Ludovico di Borbone-Parma, re di Etruria, e di Maria Luisa di Borbone-Spagna, figlia di Carlo IV, nacque a Madrid il 22 dic. 1799. Alla morte del padre nel 1803 ereditò il titolo di re di Etruria, che gli fu tolto nel 1807 da Napoleone, dal quale venne confinato in Francia dove rimase fino alla caduta dell'Impero. Nel 1817 fece il suo ingresso a Lucca insieme con la madre, alla quale, con l'atto addizionale al trattato di Vienna, era stato assegnato il ducato lucchese in temporanea sostituzione di quello parmense.
Le peripezie dei primi anni della sua vita, quando l'invasione francese e la dominazione napoleonica privarono il Borbone del ducato di Parma e poi dell'effimero regno di Etruria, costringendo C. fanciullo e adolescente a una sia pur larvata prigionia, hanno indubbiamente inciso in maniera determinante sulla sua educazione e sulla sua formazione culturale e politica. In mancanza di fonti dirette che possano chiarire quale tipo di istruzione gli sia stata impartita, ci si può solo richiamare alle testimonianze dei contemporanei, che parlano, anche se non tutti concordemente, di una "vasta cultura", acquisita attraverso un lavoro personale, non sempre coerente e ordinato. Gli interessi rivelati negli anni della maturità dimostrano la natura volubile della sua intelligenza, attratta fin dalla prima giovinezza dai rami più disparati del sapere, dalla medicina alla musica (compose egli stesso musica sacra), alle lingue straniere. Di quali letture egli si sia nutrito è difficile dire: certo è che appare ben presto orientato a soffermarsi prevalentemente su argomenti di carattere umanistico. Non si tratta di uno studio profondo e sistematico, che né le circostanze né il suo carattere gli permettevano; sono interessi ed entusiasmi improvvisi che lo spingono ora in una direzione ora in un'altra, fino a quando non si concentrerà in maniera particolare sugli studi biblici e liturgici. Le incertezze, i dubbi, la insicurezza, in cui trascorse l'adolescenza, non superati col sopraggiungere della maturità, sono all'origine di molte sue azioni incoerenti e contraddittorie e della sua inguaribile irrequietudine. Sarebbe inutile pretendere di ricercare quanto vi sia ancora di illuininistico e razionalistico nella sua formazione giovanile e quanto egli abbia poi assorbito lo spirito prettamente romantico del periodo della Restaurazione. Non fu infatti un intellettuale, ma piuttosto un dilettante, intelligente e appassionato, che subì innegabilmente il fascino di certi gusti, certi indirizzi del suo tempo. All'età di diciotto anni, giungendo a Lucca come principe ereditario, si trovò sottoposto a un controllo continuo da parte della duchessa Maria Luisa, meschina e bigotta. L'influenza materna su di lui, se si può ritrovare in alcuni aspetti marginali, come nel gusto per lo sfarzo spagnolesco della corte, che anche il figlio ebbe in grado notevole, è stata in complesso molto relativa, anzi determinati atteggiamenti del duca di Lucca sono stati giudicati come il risultato di una profonda avversione alla grettezza di Maria Luisa in campo religioso e alla sua durezza nel modo di governare.
Nel 1820 sposò Maria Teresa di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele I, la quale era molto diversa pertemperamento e per carattere da suo marito, legata molto profondamente per l'educazione familiare ricevuta alla tradizionale religiosità della fede cattolica.
Morta la madre il 13 marzo 1824, C. salì al trono. Passò i primi anni del suo regno quasi interamente all'estero. Nel momento in cui su di lui cadeva la responsabilità di governare uno Stato, sia pur piccolo, sia pur non legittimo della sua casata, egli sembrò disinteressarsene, preferendo viaggiare attraverso l'Italia e l'Europa. Tra il 1824 e il '27 fu spesso a Roma e a Napoli, più volte a Modena, meno di frequente a Torino, perché l'austerità dei parenti della moglie e della corte piemontese gli era poco accetta. Dal 1827 al 1833 lo attrassero soprattutto il mondo germanico e slavo: non solo Vienna (dove aveva affittato il palazzo Kinsky), ma anche Berlino, Francoforte, Praga, per non parlare di puntate in altre capitali di Stati germanici e di lunghi soggiorni nei suoi castelli di Uchendorff e di Weisstropp.
Se tracciare la biografia di un principe regnante significa generalmente ripercorrere la storia del suo Stato, non è così per C.: la sua storia personale e quella del ducato di Lucca procedono spesso su due binari distinti, soprattutto negli anni 1824-40, in cui la responsabilità di governo rimase in mano al ministro Ascanio Mansi.
Si è attribuito a volte al giovane duca il merito di aver apportato al sistema di governo alcune modifiche, le quali, pur deludendo le aspettative di una parte dei suoi sudditi, che speravano in un ritorno alla costituzione del 1805, potevano tuttavia preludere a una migliore organizzazione dello Stato. In realtà questo non subì sostanziali trasformazioni dal 1817 in poi e con l'avvento al trono di C. si ebbe solo un aumento del numero dei consiglieri di Stato, aventi il compito di discutere le leggi, in via puramente consultiva. Tra il 1824 e il 1829 furono presi alcuni provvedimenti relativi ai dazi, ad una certa libertà di commercio, a sgravi fiscali, al catasto. Sul piano culturale fu favorito lo sviluppo del liceo universitario e l'istituzione di scuole di mutuo insegnamento. Ma queste riforme si ebbero mentre C. era lontano da Lucca e la loro attuazione è quasi sempre da attribuire all'iniziativa del ministro Mansi. Sembra che il duca si sia limitato a proporre alcune innovazioni, come la fondazione di un ospedale omeopatico (per altro mai realizzato) e l'apertura degli asili infantili (stima e amicizia lo legavano all'Aporti e a Matilde Calandrini). Si trattava di improvvisi entusiasmi per cose che vedeva realizzate all'estero e che ordinava si facessero anche a Lucca, senza tanto sottilizzare se le condizioni locali erano atte a recepirle.
La sua continua lontananza creava non poche difficoltà al governo: spesso capitava che egli firmasse o non firmasse i decreti sovrani secondo lo stato d'animo del momento, senza una vera conoscenza delle questioni. L'interesse di dirigere la cosa pubblica in modo tale da salvaguardare il più possibile l'autonomia del piccolo Stato era propria del lucchese Mansi, non dello "straniero" C.: a Lucca si diceva che se questi ne era il duca, Mansi ne era il re. Conscio della precarietà dell'esistenza dello Stato in quanto tale e della funzione solo transitoria di C. come suo capo, il vecchio ministro si propose di varare quei provvedimenti e attuare quelle opere che sicuramente il futuro governo toscano avrebbe trascurato, preoccupandosi nello stesso tempo di non urtare la suscettibilità del granduca, che, quale legittimo successore, tendeva a opporsi a ogni atto pregiudizievole ai suoi diritti. Non sempre questa politica del Mansi corrispondeva ai desideri di C., che, pur stimandolo, non lo amava e ne subiva mal volentieri l'autorità; geloso del suo potere, il duca giungerà a rimproverargli di aver troppo legato Lucca a Firenze, dimenticando però l'anomalia sancita dal congresso di Vienna, per cui la "piena sovranità" del duca di Lucca risultava limitata da una altra sovranità, quella del granduca di Toscana, che in effetti considerava i Borbone solo usufruttuari della città. Si può forse attribuire ad una improvvisa presa di coscienza di questa anomalia il tentativo che C. avrebbe fatto nel 1829 - secondo voci diffuse negli ambienti diplomatici - per ottenere dai governi di Madrid e di Parigi il riconoscimento della sua sovranità su Lucca in modo definitivo, dietro rinuncia al diritti su Parma. Questo passo rappresenterebbe un primo segno di insofferenza per l'intromissione altrui negli affari interni del suo Stato, che si manifesterà più chiaramente negli anni successivi. Ma la debolezza e l'incostanza del suo carattere non gli permetteranno di andare al di là di qualche colpo di testa ed egli non riuscirà mai a sottrarsi all'opprimente protezione dei parenti della casa di Borbone o al controllo dell'Austria e, di riflesso, a quello di Firenze e di Modena.
Nel 1830 il riconoscimento di Luigi Filippo, deciso nonostante il parere contrario della corte di Madrid, apparve dettato dal desiderio di procedere in modo autonomo nelle proprie scelte. Il 1830 è anche l'anno della supposta "congiura", per cui C. fu "Re d'Italia per una notte", secondo l'espressione di G. La Cecilia (Memorie storico-polit., a cura di R. Moscati, Milano 1946, pp. 67-70) il quale, venendo nell'autunno a Lucca, avrebbe trovato il duca favorevole a concedere la costituzione e disposto a farsi affiliare alla carboneria. Senza entrare nel merito dell'attendibilità di quanto narra il La Cecilia, resta il fatto che sia potuta nascere una simile voce. La simpatia manifestata da C. per l'ambiente liberale nei pochi mesi in cui in quest'anno ha soggiornato nel ducato è indubbiamente sincera e denuncia uno stato d'animo incline alla ribellione sia contro il capo della casa di Borbone, il detronizzato Carlo X, sia contro la Spagna e l'Austria. Il Metternich riuscì però ben presto a riportarlo alla ragione e a farlo tornare a Vienna.
Le voci di un C. liberale dovevano diffondersi con insistenza negli anni immediatamente successivi. Nel 1831 sembrò che anche nella pacifica Lucca prendesse forma un movimento cospirativo e che si stabilissero legami con società segrete di altri Stati dell'Italia centrale. Questo sospetto fu sufficiente al Metternich per indurre C. allora a Vienna, a ordinare un processo contro gli indiziati di congiura. Ma improvvisamente nel 1833, dopo tre anni di assenza, il duca decise di tornare a Lucca, e immediatamente concesse una piena amnistia (27 agosto), primo esempio in Italia di un gesto di clemenza non parziale, in assoluto contrasto con l'atteggiamento degli altri Stati della penisola impegnati in repressioni e condanne. La conseguenza fu l'assurgere di Lucca a centro di interesse internazionale. Mentre negli ambienti diplomatici si diffondeva la voce relativa alla "congiura" del '30, l'amnistia sembrò confermare la fama di un C. liberale, che tanto allarme doveva destare nelle varie corti reazionarie d'Europa. Contemporaneamente nel 1833 trapelava la notizia della sua conversione al protestantesimo, che si sarebbe maturata durante il soggiorno a Dresda qualche mese prima. Così nell'estate del '33 il duca di Lucca sembrava avviato, dal punto di vista sia politico sia religioso, a una svolta decisiva della sua vita.
La conversione al protestantesimo e il passaggio al liberalismo sono stati considerati fenomeni strettamente legati fra loro, il secondo dipendente dal primo, anzi sua necessaria conseguenza. Ma entrambi, in realtà, sembrano mancare di una base consistente. Un più attento esame dei testi biblici e liturgici da lui raccolti e studiati rivelerebbe con maggiore approssimazione se egli fosse animato da vera esigenza di chiarificazione della propria fede o se non fosse piuttosto attratto dalla suggestione esteriore dei diversi riti religiosi. La stessa costruzione nella sua villa di Marlia di una cappella di rito greco unito può essere una prova del fascino che esercitavano su di lui certe cerimonie (fastose, all'orientale in questo caso; semplici, spoglie, ma non per questo meno suggestive per un uomo di educazione spagnolesca, quelle cui aveva assistito nelle chiese luterane) senza però che ciò significasse una cosciente accettazione dei principi religiosi di cui quelle cerimonie erano espressione. Questa "avventura" del duca di Lucca, anche se non mancano studi sull'argomento, non è stata ancora interamente chiarita. Forse non è sufficiente ricollegarla alla lettura del libro sull'Apocalisse del pastore ginevrino Basset, che avrebbe calmato le sue paure per gli sconvolgimenti del 1830, profetizzando la caduta del Papato e il trionfo della cristianità evangelica, spingendolo a "intrupparsi nella schiera ritenuta ormai destinata alla vittoria" (Spini). Se a C. non si può non riconoscere una buona dose di superficialità, non per questo gli si deve attribuire un atteggiamento così meschino e calcolatore. La sua passione per gli studi biblici e liturgici non si affievolisce negli anni successivi (lascerà in eredità al nipote Roberto una ricca collezione di manoscritti e incunaboli attualmente conservata nella Biblioteca Braidense di Milano). C'è in lui un autentico interesse, che non significa austero impegno di studio: l'acuta sensibilità di uomo debole lo trascina a improvvisi entusiasmi in tutti i campi, da quello religioso a quello politico. Non è da escludere che la conversione possa considerarsi una manifestazione di quel bisogno di autonomia nelle proprie azioni e decisioni che caratterizza tanti momenti della sua vita, pur senza mai giungere ad affermarsi pienamente.
In questo schema rientra anche il suo cosiddetto liberalismo: C. non è mai stato un liberale; l'amnistia è un atto di indipendenza di fronte all'Austria, un improvviso colpo di testa con l'illusione di conquistarsi l'amore dei sudditi e tornare acclamato in mezzo a loro, per vivere tranquillo a Lucca e non per iniziare una politica nuova. Forse in questo momento egli ha la sensazione che il suo trono è vacillante e che molti, a cominciare dall'Austria, tendono a sottrarglielo. L'unica persona alla quale egli ora dà ascolto è Cesare Boccella, di cui condivide la "stravagante avventura religiosa", nonché l'atteggiamento liberaleggiante.
C. non è un uomo politico e non sa prevedere le conseguenze dei suoi atti. In questi anni la sua figura assume un rilievo essenzialmente frutto del gioco diplomatico di altri; l'Austria è interessata a difendere la propria zona di influenza in Italia: i Borboni di Lucca sono per parentela legati alla Francia e alla Spagna. C. si mostra poco docile ai voleri della corte viennese e per di più dà l'impressione di lasciarsi trascinare dai circoli liberali dell'Italia centrale. La Francia di Luigi Filippo guarda a suo volta con sospetto all'Austria e come interviene per limitarne l'espansione nello Stato pontificio, così ne segue attentamente le manovre tendenti a mutare la situazione nei ducati dell'Italia centrale. Le voci ricorrenti di una rinuncia totale di C. per sé e per i suoi eredi ai diritti su Parma e di una reversione anticipata di Lucca alla Toscana sono vagliate con cura dagli uomini politici francesi, che fanno di tutto perché lo status quo non sia mutato a favore dell'Austria. Ancora nel '45 (sebbene C. abbia ormai rivelato indubbie simpatie per i legittimisti, soprattutto quando il figlio Ferdinando sposa Luisa Maria di Borbone) Guizot sosterrà la necessità di difendere i diritti e gli interessi di un principe della casa borbonica e si richiamerà alla convenzione del 1817 perché la situazione non venga cambiata senza l'intervento di tutte le potenze firmatarie di quell'accordo. Ma C. è per natura indocile; in realtà non desidera affatto l'appoggio della Francia, come cerca di sganciarsi, quando può, dalla invadente protezione del Metternich, il quale, non fidandosi di lui, considerandolo addirittura un pazzo per tare ataviche, lo vorrebbe tenere costantemente a Vienna o almeno lontano dal suo Stato. Il cancelliere austriaco fa di tutto per mettere il duca in cattiva luce presso i governi conservatori, perché se la fama di un C. liberale come era nata all'improvviso, così rapidamente tramonta, rimane tuttavia il fatto che Lucca diventa un sicuro asilo per liberali fuggiaschi dagli altri Stati. Questa ospitalità concessa agli esuli non è dovuta al capriccio di un momento, ma continuerà negli anni successivi. Un segno del desiderio di conservare una propria libertà d'azione, di essere padrone in casa propria (anche se per conto dell'Austria la polizia toscana lo sorveglierà e come "un vigilato speciale") sarà ancora nel 1842 la concessione data all'esule Pasquale Berghini di costruire la ferrovia Lucca-Pisa.
Di C. protestante si continuerà a parlare per qualche tempo, perché, per motivi diversi, la questione interessò Roma e Madrid. La S. Sede inviò a Lucca il cardinale Odescalchi, ufficialmente per sistemare una vecchia controversia fra governo lucchese e Curia arcivescovile; ma già allora si diffusero voci relative ad una abiura del duca. Con la Spagna la situazione si faceva sempre più tesa, perché C. non si decideva a riconoscere Isabella II e sembrava anzi favorevole al pretendente don Carlos, facendo così il gioco di Madrid, che con la scusa del suo passaggio al protestantesimo, poteva negargli l'assegno di cui godeva quale infante di Spagna. Già questa posizione denuncia i limiti del suo liberalismo; non passerà molto tempo e le sue simpatie per i legittimisti diventeranno palesi.
Dopo il 1833, via via che aumentavano le preoccupazioni economiche, divennero meno frequenti i lunghi soggiorni di C. all'estero. Nel 1836 era di nuovo a Vienna; nel 1838, dopo essere stato a Milano per l'incoronazione dell'imperatore Ferdinando, proseguì per la Francia e poi per l'Inghilterra, dove sembra si sia molto divertito e molto indebitato. Nel 1840, mentre moriva il suo ministro Ascanio Mansi, si trovava a Roma. Ma anche quando risiedeva nel ducato in realtà era poco presente in città, perché preferiva soggiornare in campagna (a Marlia; a Bagni di Lucca dove nel 1837 autorizzava l'apertura di un casinò; a Pieve Santo Stefano; un po' meno alle Pianore, divenuto il ritiro di sua moglie).
Negli ultimi anni di vita del Mansi, la partecipazione del duca al governo dello Stato era però divenuta via via maggiore. Per alcuni provvedimenti, presi tra il '35 e il '40, relativi agli ospedali, alla riorganizzazione degli studi e dei tribunali, alla fondazione di una Cassa di risparmio, la sua volontà fu determinante. Nel 1837 promosse un'altra riforma del Consiglio di Stato e del Consiglio dei ministri. Ma un sostanziale cambiamento egli fece dopo la morte del Mansi: al fine di evitare la concentrazione di troppe cariche nelle mani di un unico uomo, correndo il pericolo che si rinnovasse un sistema di governo personale del segretario di Stato, C. soppresse tacitamente questo ufficio e affidò a persone diverse quello di presidente del Consiglio dei ministri, di presidente del Consiglio di Stato, di ministro degli Esteri e dell'Interno.
Dal 1840 si apriva per lo Stato lucchese un periodo nuovo, in cui l'iniziativa sembrava partire dal duca stesso. Col suo favore acquistarono allora influenza uomini di provenienza diversa, anche di pochi scrupoli e di dubbia reputazione. La sua corte aveva sempre avuto un volto molto eterogeneo: accanto a figure della vecchia nobiltà locale, si trovava gente nuova, anche di pessima fama, una pletora di avventurieri, di cui C. amava circondarsi a Lucca, come durante i suoi viaggi per l'Europa. Ora anche nella direzione dello Stato entravano personaggi estranei alla tradizione politica e sociale cittadina che, relegando in secondo piano il ceto dirigente lucchese, operavano nell'egoistico interesse di C. oppure a favore di altre potenze o esclusivamente per il proprio personale vantaggio. La scelta di uomini come Nicolao Giorgini agli Interni o il liberale Antonio Mazzarosa alla presidenza del Consiglio di Stato riscossero il consenso dei più e dimostrarono che, volendo, il duca avrebbe saputo circondarsi di uomini eminenti; ma la nomina a ministro degli Esteri di Fabrizio Ostini, un romano, creatura del Metternich, è un sintomo di acquiescenza ai voleri dell'Austria. La fortuna di Ostini durò solo un triennio ('40-'43) e coincise con un periodo di sempre maggiore dissesto finanziario, che gli altri membri del governo non riuscirono ad arginare.
La situazione economica della casa ducale aveva mostrato le prime crepe intorno al 1830 e si era andata sempre aggravando con gli anni. C., disordinato, imprevidente, megalomane e spesso assurdamente prodigo, aveva più volte adottato il sistema di liberarsi degli oneri assunti addossandoli allo Stato. Nel 1836 a Vienna aveva ottenuto un prestito dalla casa Rothschild, garantito dall'imperatore di Austria. Ma il vantaggio fu di breve durata. Il Tesoro lucchese si trovò sempre più gravato di nuove spese impreviste. Nel 1840 il governo dovette ricorrere ad un prestito che ottenne dai Levi di Reggio col consenso del governo toscano. Il dissesto della casa ducale raggiunse il culmine sotto Ostini, che amministrava gli interessi del Borbone a Vienna, dove contemporaneamente lo rappreseptava presso la corte austriaca. Nel 1841 furono venduti, con scarso vantaggio e in modo umiliante, i quadri della Galleria Palatina. Nel 1843 C. chiese all'arciduca Ferdinando d'Este, fratello del duca di Modena, di procedere ad una revisione generale dei conti; poi, con la sua garanzia, ottenne un nuovo prestito da tre case bancarie, tra cui ancora Rothschild. Le irregolarità perpetrate da Ostini furono scoperte e denunciate dal nuovo idolo di C., l'ex fantino inglese Tommaso Ward, una delle più discusse figure dell'entourage del duca. La caduta di Ostini, difeso caldamente dal Metternich, rappresentò una diminuzione dell'ingerenza del cancelliere austriaco nelle faccende del Borbone di Lucca, il quale, fidandosi ormai solo di Ward, sembrò voler rivendicare ancora una volta una propria libertà di azione, nonostante fosse ormai ben conscio di quanto i prestiti ricevuti lo legassero al giogo austriaco ed estense.
Nel 1843 C. consentiva che si svolgesse a Lucca il Congresso degli scienziati; però, temendo di compromettersi, poco prima dell'inizio dei lavori, partì per Vienna. La preoccupazione di poter essere trascinato, volente o nolente, in atteggiamenti liberaleggianti, condizionò la sua condotta negli ultimi anni del ducato. La cautela lo spinse nel 1845 a rifiutare la grazia a sette malfattori condannati a morte dopo un clamoroso processo; questo rifiuto gli sollevò contro gran parte dell'opinione pubblica, proprio negli anni in cui Francesco Carrara portava anche a Lucca il dibattito sull'abolizione della pena di morte.
Grave insuccesso per C. fu il trattato di Firenze del 1844. La segretezza con cui si erano svolti i negoziati per giungere alla revisione dei confini tra Toscana, Modena, Parma e Lucca non permise immediate reazioni. Solo in un secondo momento apparirà la debolezza del duca, che aveva ceduto alle pressioni indirette dell'Austria, rinunciando, quale futuro duca di Parma, al ricco territorio di Guastalla in cambio di alcuni comuni della Lunigiana. C., anche se ormai aveva assunto una posizione rassicurante, era costretto a subire questa mutilazione del suo futuro Stato, voluta dal Metternich, che non dimenticava quanto egli avesse recalcitrato a restare nella sfera di influenza austriaca e forse intendeva vendicare il licenziamento di Ostini.
Nel 1846-47, nel momento in cui, dopo l'elezione di Pio IX, si maturava un'atmosfera nuova, C. assunse atteggiamenti e prese decisioni che contrastavano con l'evolversi dei tempi e che gli procurarono una crescente impopolarità.
Prima fra tutte fu la creazione del debito pubblico. Il bisogno di danaro portò il duca, su consiglio di Ward, divenuto ministro delle Finanze, a rivendicare dei crediti verso l'Erario lucchese per titoli risalenti a trent'anni prima e considerati illegali dai Lucchesi (il Consiglio di Stato infatti si astenne dal dare la propria approvazione). Ward riuscì a manovrare abilmente, ottenendo il consenso, in un primo momento rifiutato, del granduca di Toscana, in cambio della cessione dell'Azienda del sale e tabacco, di quella del lotto e delle dogane. Era un avvio, inavvertito dai più, alla reversione anticipata; era l'opposto della politica seguita dal Mansi: si sacrificavano gli interessi lucchesi per avviare la città ad inserirsi nella Toscana.
C. non percepì il malcontento creato da questa situazione, né volle cogliere i fermenti liberali circolanti ormai anche a Lucca, dove nel '47 vi fu una serie di dimostrazioni, culminanti nel luglio in una vera e propria sommossa. Un aspro motuproprio del duca, improntato alla più rigida affermazione della sua sovranità assoluta, segnò l'inizio della lotta aperta tra il monarca e i sudditi. Turbato dal protrarsi di tumulti e agitazioni, si rifugiò nella villa di San Martino in Vignale. Il 1º sett. 1847, spaventato alla vista della folla che accompagnava una deputazione, con a capo il Mazzarosa, che aveva l'incarico di sottoporgli uno schema di riforme, firmò un motuproprio con una serie di concessioni. La sera stessa partì per Massa; ma dopo tre giorni, dietro pressioni di numerosi cittadini, decise di tornare a Lucca, dove fu accolto trionfalmente. Incapace di far fronte alla situazione, spaventato all'idea di dover cedere ad altre pressioni, il 9 settembre ripartì per Massa, per trasferirsi pochi giorni dopo a Modena, ove emanò un decreto che convertiva il Consiglio, di Stato in Consiglio di reggenza. Il 4 ottobre firmò l'atto di cessione di Lucca alla Toscana.
Quest'atto è significativo per inquadrare il personaggio: la situazione creatasi nel '47 fu l'ultima spinta per attuare un disegno, già delineato in precedenza, che rappresentava soluzione ai suoi problemi finanziari. Ma C., sempre indeciso e poco coerente, mentre maturava l'idea di "vendere" lo Stato, riaffermava, come forse mai aveva fatto prima, i suoi diritti di sovrano assoluto. Questa intransigente difesa di un principio contrastava con quella che ormai era la sua più vera aspirazione, cioè spogliarsi di qualsiasi peso di governo per vivere, viaggiare, studiare, divertirsi da uomo libero.
Il 17 dic. 1847 moriva Maria Luisa d'Austria ed egli dovette affrontare il dilemma se accettare o rifiutare il ducato di Parma. In un primo momento sembrò cedere alla tentazione di sottrarsi alla nuova responsabilità che cadeva sulle sue spalle e solo dopo un più meditato esame della situazione si convinse di non poter abdicare, timoroso di pregiudicare i diritti del figlio, che non riteneva preparato a prendere la successione 1131 dic. 1847 entrò a Parma, prendendo possesso del trono dei suoi avi, con il nome di Carlo II. L'accoglienza gelida, anche da parte degli ambienti di corte, gli diede immediatamente la consapevolezza delle difficoltà che avrebbe dovuto affrontare. Si trovava di fronte a problemi e ad uomini che non conosceva, in una città dove il movimento liberale aveva una ben precisa configurazione e i contrasti tra reazionari e democratici raggiungevano asprezze che lo sconcertarono. Gli mancava la tempra e anche la preparazione politica per riuscire a dominare una situazione ben più intricata di quella che aveva lasciato nel piccolo Stato toscano e per potersi barcamenare nelle acque infide della diplomazia internazionale.
I primi atti del suo governo, anche qui, manifestarono uno sforzo per dare una più moderna organizzazione agli ordinamenti pubblici e alla amministrazione centrale. Ma ebbero in realtà ben poco rilievo nel tumultuoso sviluppo degli avvenimenti del 1848. La politica di C., nei pochi mesi in cui fu a Parma, subì una serie di cambiamenti di indirizzo: prima egli sottoscrisse un'alleanza militare con l'Austria, poi, alla notizia della rivoluzione di Vienna e di Parigi, mutò fronte: posto ancora una volta nella necessità di scegliere tra la repressione dei moti e la concessione di riforme, decise per queste ultime e nominò una reggenza con l'incarico di preparare la costituzione. Aderì quindi alla lega dei principi italiani.
La via delle riforme non significò adesione alle nuove idee, ma fu, in sostanza, un espediente per salvare il trono. Volto allo stesso fine fu il tentativo del figlio Ferdinando di raggiungere il quartier generale di Carlo Alberto. Fu un passo falso, in quanto il re di Sardegna, ormai orientato verso la politica delle annessioni (Piacenza "città primogenita" aveva già chiesto di unirsi al Piemonte), riuscirà a trarre vantaggio dalla leggerezza dei Borboni, negoziando la liberazione del principe in cambio dell'abbandono di Parma da parte di Carlo II.
Il 9 aprile il duca, trasformata la reggehza in governo provvisorio, si rifugiò nel castello di Weisstropp. Dopo l'armistizio Salasco, rioccupate Parma e Piacenza dall'Austria, C. si affrettò a riaffermare i suoi diritti sul ducato. Continuava la serie dei mutamenti di fronte: mentre con la costituzione aveva smentito l'alleanza con l'Austria, ora smentiva il governo provvisorio, da lui stesso istituito, andandosene, e si ributtava in braccio a quella potenza, la quale, restaurando i Borboni sotto la propria influenza, mirava ad ostacolare le mire espansionistiche del Piemonte. Ma, dopo Novara, C., pago di aver sostenuto i diritti della sua casa, si decise a una scelta definitiva e il 14 marzo 1849 firmò l'atto di abdicazione.
Nei lunghi anni trascorsi da uomo privato cercò di organizzare la sua vita nel modo che gli era più congeniale: si dedicò ai viaggi e ai divertimenti, come agli studi prediletti, alternando i suoi soggiorni prevalentemente tra Parigi e Nizza e il castello di Weisstropp. Il governo granducale gli permise raramente di tornare in Lucchesia, dove, una volta calmato il rancore per la "vendita" della città, si erano manifestati rimpianti e simpatie per il "protestante don Giovanni", oggetto in passato di non poche critiche. Nell'aprile del '53 gli fu concesso di partecipare a una riunione di famiglia tenutasi alle Pianore. Nel 1854, alla notizia dell'assassinio del figlio, egli non si mosse da Parigi e solo nel '56 si recò sulla sua tomba a Viareggio e rivide la moglie. Dopo il 1860 poté venire in Italia liberamente e ne approfittò spesso, perché col passare degli anni la Lucchesia lo attrasse sempre più; col titolo di conte di Villafranca fu frequentemente nelle ville di Montignoso e di San Martino in Vignale. Accolse l'unità d'Italia come un fatto positivo: egli era un principe "spodestato" sui generis, che, mentre aveva volontariamente ceduto il ducato di Lucca, aveva serbato rancore verso la Toscana che lo aveva incamerato e quindi veder scomparire quest'ultima come Stato indipendente non gli era dispiaciuto. D'altra parte aveva chiaramte dimostrato di non provare alcun attaccamento per il trono avito e l'atroce fine del figlio a Parma aveva suscitato in lui solo sentimenti di avversione per una popolazione rivelatasi anche nei suoi confronti tutt'altro che accogliente.
Nel luglio 1879 morì Maria Teresa; come per il figlio, anche per la moglie la sua reazione fu di fuggire il dolore; rimase a Vienna e venne a Lucca solo nell'ottobre.
C. morì a Nizza il 16 apr. 1883.
Fonti e Bibl.: Ampio materiale documentario è conservato nell'Arch. di Stato di Lucca, descritto da S. Bongi, Inventario del R. Archivio di Stato di Lucca, I-IV, Lucca1872-1888.Utili informazioni contengono alcune memorie manoscritte ivi giacenti, tra cui soprattutto il Diario Provenzali 1837-1872.Altre fonti nell'Arch. di Stato di Parma, dove si trovano documenti concernenti la casa ducale anche relativamente al periodo lucchese. Si ignora la sorte dell'archivio privato dei Borboni, che per un certo periodo sembra sia stato conservato in una villa della campagna lucchese. Numerose lettere di C. si possono rintracciare tra le carte private di nobili lucchesi, alcune delle quali sono state depositate nell'Arch. di Stato, altre, difficilmente consultabili, sono ancora conservate negli archivi di famiglia. Concerne i suoi studi di carattere religioso: A. Alès, Bibliothèque liturgique; description des livres de liturgie imprimés aux XVè et XVIe siècles, faisant partie de la bibl. de S.A.R. Mgr. Charles-Louis de Bourbon, I-II, Paris 1878-1884. Tra le fonti edite: Le relazioni diplomatiche tra la Francia, il granducato di Toscana e il ducato di Lucca, I-II, a cura di A. Saitta, Roma 1960. Un quadro complessivo della bibliografia è in Bibliografia dell'età del Risorg. in onore di A. M. Ghisalberti, I ducati dell'Italia centrale, di M. L. Trebiliani, II, Firenze 1972, pp. 39-115. Tra le opere più significative sono: C. Massei, Storia civile di Lucca dall'anno 1796 all'anno 1848, Lucca 1878; A. Mazzarosa, Opere, V, Storia di Lucca dal 22 nov. 1817 al 12 ott. 1847, Lucca 1886; G. Sforza, La fine di un ducato, in Nuova Antologia, 16 nov. 1893, pp. 3063-31; 16 dic. 1893, pp. 675-710; Id., L'ultimo duca di Lucca, ibid., 1º agosto 1893, pp. 447-467; 1º settembre 1893, pp. 88-111; E. Casa, Parma da Maria Luigia imperiale a Vittono Emanuele II (1847-1860), Parma 1901; C. Sardi, Lucca e il suo ducato dal 1814 al 1859, Firenze 1912; G. Sforza, G. La Cecilia e l'immagin. Congiura di Lucca del 1830, in Ricordie biogr. lucchesi, Lucca 1918, pp. 306-55; M. Rosi, Giudizi e azione di Carlo Ludovico in seguito ai moti del 1831, in Boll. stor. lucch., VI(1934), pp. 173-189; A. Mancini, "Di Lucca il protestante Don Giovanni"…, in Giorn. stor. d. letter. ital., XCI(1928), pp. 86-91; P. Pirri, DiLucca il protestante Don Giovanni, in La Civiltà cattolica, LXXXV (1934), 4, pp. 40 53, 159-169; N. Nada, La crisi relig. di Carlo Ludovioo di Borbone ed i suoi riflessi politici (1833), in Atti della Accademia delle scienze di Torino, classe di sc. mor., stor. e fil., LXXXIX (1954-1955), pp. 39-115; G. Spini, Risorgimento e protestanti, Napoli 1956, pp. 188-193; A. Simoni, La reversione del ducato lucchese al granducato di Toscana, in Boll. stor. lucch., XIII(1941), pp. 94-108; F. De Feo, La reversione del ducato di Lucca del 1847, in Arch. stor. ital., CXXIV(1966), pp. 160-207. Nuovi contributi recano i saggi di A. D'Addario, Ascanio Mansi. La sua personalità e i suoi ideali politici (1773-1840), in Actum Luce, I(1972), pp. 7-56; R. Santin, La figura e l'opera di Tommaso Ward, ibid., pp. 347-358.