CARLO II, duca di Savoia
Nacque a Chasey il 10 ott. 1486. Figlio di Filippo II - che aveva retto il ducato sabaudo dal 1496 al '97 - e di Claudia de Brosse, succedette al fratellastro Filiberto II il 10 sett. 1504; e da allora alla sua morte vennero progressivamente al pettine i nodi di una storia multanime, che lo Stato aveva espresso anche molto positivamente soprattutto nell'ultimo secolo, ma che poi fu messa in crisi quanto più crebbero le occasioni d'incontro con un'Europa sempre più diversa dall'Europa quattrocentesca.
Già gli inizi dell'opera di C. vennero minati da forti ostacoli. Fra il 1497 e il 1504 Filiberto II e gli altri maggiori governanti sabaudi e savoiardi con lui avevano insistito nel tentativo di portare più innanzi la presenza politica sabauda a Ginevra e di distruggere l'indipendenza di quella città, realizzando così un disegno che era già stato del primo duca di Savoia, Amedeo VIII, e aveva poi avuto diverse e minori fortune ma non era mai caduto.
Le minori fortune si erano avute quanto più il rapporto nello Stato fra governanti e governati, fossero questi di volta in volta maggiormente i Savoiardi o maggiormente i Piemontesi, e nel contesto sociale e politico europeo circostante, aveva consentito all'una o all'altra maggioranza realizzazioni tali da non volere, o da non avere bisogno di un mutamento dell'asse tradizionale dello Stato: e questo era valso soprattutto dopo Amedeo VIII, sebbene progressivamente si fosse imposta in Ginevra la presenza del vescovo come di un'espressione diretta degli interessi sabaudi nella città e in più modi la nobiltà e il clero savoiardi avessero continuato la loro espansione economica verso e attorno alla città, mentre dal canto loro mercanti e banchieri piemontesi accrescevano con i Ginevrini il volume dei propri affari. Ma appunto Ginevra e i Ginevrini dopo Amedeo VIII avevano sempre rappresentato un termine, non il termine dei maggiori caratteri della vita dello Stato sabaudo. Alla fine del XV secolo, dopo decenni di alterna presenza piemontese negli interessi sabaudi e di alterne fortune piemontesi nello Stato, dopo decenni di non risolto contrasto fra Piemontesi e Savoiardi per la prevalenza politica nello Stato, Filiberto II e gli altri con lui puntarono al superamento di quel contrasto, allo spostamento dell'asse tradizionale dello Stato, cercando in più modi di rendere Ginevra sabauda e di porre là il centro dei propri ancor sempre compositi, diretti e indiretti, domini.
La parte piemontese non fu in grado di ostacolare questi tentativi, essa che pure era il maggior sostegno finanziario del governo sabaudo; la sua prevalente natura era quella di essere una somma di Comunità, operose nell'arricchirsi con le colture e con le "arti" e coi traffici, non certo povere di uomini anche politicamente capaci nel difficile gioco parlamentare degli stati e nelle varie relazioni con il governo sabaudo, ma non unite né desiderose di unirsi se appena avessero raggiunto qualche meta che si erano proposta, raccolte e impegnate a fondo in uno sforzo di auto-organizzazione, di autodifesa, in un gioco di protezioni di sé o al massimo della propria "patria" canavesana o vercellese o del principato di Piemonte e via dicendo, che impediva loro ogni azione larga e premente con lunga costanza sul governo; in un distacco a volte momentaneamente colmato, ma poi di nuovo subito rinnovato, con gli stessi Piemontesi che dalle varie patrie salivano alle cure del sempre difficile governo.
Filiberto II e i suoi tentarono di uscire da quelle difficoltà - neppure la parte savoiarda era molto unita, ancorché le Comunità vi potessero di meno e potessero di meno sul governo -. Ma dopo pochissimi anni il duca morì. La rinnovata pressione sabauda e savoiarda su Ginevra aveva appena allarmato i Bernesi e i Friburghesi e i Vallesani, e la Francia di Carlo VIII e poi di Luigi XII, che s'interruppe, e lasciò il nuovo duca in una situazione politica scoperta verso l'interno ma ancor più verso l'esterno dello Stato: il Basso Vallese sabaudo era già stato perduto nel 1475, il Vaud era stato perduto e poi recuperato allora ma non occorreva certo sollecitare la volontà bernese di scendere al sud, e quindi al lago di Ginevra, e di opporsi ad ogni mira di espansione altrui in quell'area. C. raccolse già, pertanto, una condizione di cose decisamente delicata.
Le relazioni di amicizia o senz'altro di alleanza che C. confermò subito con il papa Giulio II, con Luigi XII, con i Cantoni di Berna, di Friburgo e di Soletta, il rapporto feudale che riconfermò con l'imperatore Massimiliano, mostrarono quanto egli avvertisse la delicata condizione e furono i segni di una prudenza politica indubbiamente positiva e che cercava innanzitutto i consensi tradizionali o che riteneva inevitabili. Insieme, C. cominciò a ricercare il concorso delle forze, il consenso, di tutti i suoi domini, e non insistette contro le libertà di Ginevra ma si contenne verso di esse nei termini anteriori al governo di Filiberto II.
C. passò in Savoia il primo anno del suo governo, nel medesimo ambiente in cui si era mosso Filiberto; e sino all'autunno 1505 prevalsero sui Piemontesi presso di lui ecclesiastici e nobili savoiardi, in maggioranza di antica nobiltà ma da tempo impegnati alla collaborazione con il potere ducale sabaudo e non all'opposizione contro di esso. Poi C. andò in Piemonte e per due anni rimase là, generalmente a Torino, con i collaboratori savoiardi ma pure con non pochi collaboratori piemontesi e soprattutto con un orientamento favorevole alle annose questioni della parità nelle cariche pubbliche e nel godimento di benefici tra Piemontesi e Savoiardi, della parità nel numero dei segretari ducali cismontani e oltramontani; e in quell'orientamento valeva la ricerca di consensi e valeva la ricerca del sempre ingente denaro piemontese - nell'autunno 1505 il duca ottenne dai tre stati di Piemonte un sussidio di 170.000 fiorini da pagarsi in tre anni e altre somme minori per vari membri della famiglia ducale -, valeva quel favore per la vendita delle cariche a cui il principe si era subito disposto dal 1504 anche in Savoia e che era un tratto sempre più diffuso della politica finanziaria dei governi in Europa.
Ma il fatto che C. avesse venduto l'ufficio di segretario ducale a Jean Vulliet e a Pierre Trolliet, entrambi di Chambéry e non nobili, suscitò in breve al duca immensi guai. Esso colmò la misura dell'opposizione al principe che sin dal principio il segretario sostituito dal Vulliet e dal Trolliet, Jean Dufour, di Annecy, aveva cominciato a maturare.
Secondo il Dufour, C. vendendo le cariche era andato circondandosi di ladri e di altri uomini pericolosissimi per il suo potere, mentre invece la sua vera salute politica sarebbe stata di reggere quel potere insieme ai "grans seigneurs" del ducato. Aspirazione, la sua, che non diremmo C. avesse fino allora mai troppo deluso, ancorché si proponesse certamente un valido potere personale: il suo governo risentiva ben sempre dell'incontro con i massimi privilegi sociali e politici del ducato, e innanzitutto proprio con i privilegi savoiardi. Ma al Dufour questo non bastava: e se poi si baderà a quel che egli fece da quel momento, e si comprenderà quanto importava e importò ad altri la sua opposizione, si finirà per vedere facilmente che la riserva circa la vendita delle cariche poté dar esca alla miccia ma per l'appunto fu solo un'esca.
Nei primi tempi del 1508 il Dufour, del quale in ogni caso è innegabile il reazionario orientamento, lasciò in tronco i suoi ventisette anni di servizio ducale e andò a Berna; sapendo perfettamente quale danno avrebbe procurato a C., al suo potere, a tutto lo Stato sabaudo, egli si fece ricevere dai Bernesi come "borghese" e poco dopo fece la stessa cosa a Friburgo; e nel giro dipochissimi anni, falsificandole come solo la sua molta esperienza sapeva fare, inventò con pergamene e sigilli e firme, ineccepibili sul piano formale o su quello della migliore apparenza, delle donazioni per somme enormi, che nel 1489 il duca di Savoia Carlo I avrebbe deciso di fare ai Bernesi e ai Friburghesi e ad altri Cantoni svizzeri fra i principali se fosse poi morto senza che il suo potere venisse raccolto da eredi diretti. Cioè secondo il Dufour Carlo I avrebbe preferito distruggere lo Stato piuttosto che saperlo dopo di lui nelle mani di rami collaterali della famiglia ducale: poiché infatti quel principe avrebbe altresì voluto garantire gli Svizzeri nel caso non avesse pagato, e li avrebbe garantiti ipotecando loro quasi tutta la parte occidentale e nordoccidentale dello Stato, dal Vaud alla Valle d'Aosta. Ricordasse pure bene, l'ex segretario, il difficile clima che anche nel tempo di Carlo I aveva caratterizzato nello sfondo l'esercizio del potere di quel principe, la sua invenzione era assurda. E tuttavia le sue frodi furono costruite così bene che C. non poté distruggerle, nonostante i suoi appelli e i suoi ricorsi ai massimi principi europei; esse furono perciò sfruttate immediatamente dai loro beneficiari, che cominciarono a volere centinaia di migliaia di fiorini per non occupare i territori ipotecati loro da Carlo I.
Dunque le frodi nella loro sostanza riuscirono: l'incontro anche troppo felice tra la manifestazione di scontentezza politica espressa dal Dufour e gli spregiudicati e potenti sostenitori di quella scontentezza rallentò e complicò il lavoro iniziato così di recente da C. per governare lo Stato; dissestò le finanze sabaude, già davvero non fiorenti, indebitando il duca verso banchieri forestieri e costringendolo ad insistere nella richiesta di sussidi al paese; scoprì con nuova allarmante evidenza la immediatezza del pericolo che veniva dagli Svizzeri all'indipmdenza dello Stato. Se Filiberto II e i suoi avevano ritenuto di superare gl'interni contrasti dello Stato portandosi su Ginevra, le frodi del Dufour confermarono pesantemente che essi avevano sbagliato, disconoscendo la pressione svizzera sul ducato e magari illudendosi di contrastarla meglio da Ginevra, che invece era molto cara ai Bernesi e agli altri con loro.
Il Dufour morì a Friburgo, dopo che nel 1509 il governo di C. aveva dovuto stipulare nuove alleanze con i Bernesi e con i Friburghesi; un'altra alleanza esso stipulò con la Confederazione elvetica nel 1512. E quei patti confermarono che il gravissimo pericolo che si era corso non veniva superato; essi definirono, anzi meglio la pressione politica svizzera sul ducato - e C. non finì mai di pagare tutto quello per cui aveva dovuto impegnarsi con gli alleati -, rafforzarono il condizionamento economico bernese e friburghese di gran parte della vita vodese e bressana e delle altre regioni savoiarde circostanti - cioè lo accrebbero oltre i suoi, innegabili, caratteri positivi per quelle regioni. Non piacquero a tutti coloro che in Europa non amavano l'espansionismo svizzero. E inoltre l'intera vicenda che essi avevano definito ebbe la conseguenza di toccare direttamente il rapporto fra il governo di C. e i Piemontesi, allontanando dal duca non poco di quell'iniziale favore che aveva potuto manifestarsi per lui quando egli aveva abitato in Piemonte.
Perché infatti dalla fine del 1507 C. per salvare il salvabile fu quasi sempre in Savoia, agì anche di là quando pure aderì alla lega di Cambrai contro Venezia nel 1509, e così in vari modi, chiedendo ai Piemontesi denaro per gli Svizzeri o lasciando che gli alleati francesi scorressero sulle terre del Piemonte contro Venezia prima, contro gli Svizzeri poi, venne meno all'orientamento che aveva mostrato dal 1505 al 1507. Accadde perciò che il 1º sett. 1512 gli stati piemontesi, raccolti a Torino da Filippo di Savoia e richiesti di consiglio dal presidente patrimoniale Angelino Provana per conto dell'assente C., risposero che questi aveva già un buon Consiglio - il Consiglio cum domino -e che aveva agito e agiva bene secondo le indicazioni che ne aveva; in altre parole si sottrassero a un impegno, rifiutarono di partecipare a un lavoro politico nel quale la parte maggiore non era fatta dai più fra i loro componenti e che non lasciava prevedere per nulla di poter essere cambiato.
Le frodi del Dufour allontanarono dagli interessi del governo sabaudo più i Piemontesi che i Savoiardi: ai primi l'ex segretario ducale non aveva mai posto mente, fra i secondi voleva portare la massima rovina e invece accadde che tra i nobili e fra le Comunità della Savoia crebbe la volontà di sostenere Carlo.
Ciò si vide in particolare nella ricerca di una organizzazione migliore dei Consigli ducali di Chambéry e di Torino, che fu proposta al duca da nobili savoiardi nelle assemblee degli stati del 29 sett.-1º ott. 1513 ad Annecy; ed è evidente che si deve rilevare bene quell'interesse savoiardo per il Consiglio ducale di Torino, i cui membri si voleva che avessero compiti e retribuzione pari a quelli del Consiglio di Chambéry e che fossero numerosi quanto loro, così come si deve notare che le richieste dei nobili vennero in buona misura accolte negli statuti che C. promulgò poco dopo, il 10 ottobre, da Annecy. Nella rovina che per molti versi le frodi del Dufour costituirono per il governo sabaudo si dettero, almeno, a C. possibilità nuove di verificare la consistenza del proprio potere fra i Savoiardi.
Indebolito, minato, il suo governo fu nondimeno sostenuto dai "grans seigneurs" come dagli altri uomini degli stati di Savoia. Il sostegno lo condizionava, non si dimentichi mai che nelle sue manifestazioni esso rivelava latenti conflitti di natura sociale e politica fra l'uno e l'altro stato e che il duca si doveva muovere tra quei conflitti e non poteva insistere nell'affermazione del suo potere sopra gli stati. Ma si dimentichi ancor meno che proprio l'occasione del Dufour liberò manifestazioni di freddezza politica piemontese, e quanto valse, quell'occasione, a definire un primo tempo del governo di Carlo.
Intanto i grandi interessi in gioco in Europa e innanzitutto le lotte franco-svizzere per il ducato milanese insistevano, e si complicavano, anche intorno a quel governo e a tutto lo Stato sabaudo.
La prevalenza politica dei Savoiardi nello Stato, ma insieme con essa la necessità di un governo che di là non aveva un aiuto finanziario altrettanto prevalente, dettero vita nel 1517 a una vicenda molto significativa per quel governo. Allora, valendosi dell'opera di Bernardino Parpaglia, presidente del Consiglio ducale in Piemonte, e di Goffredo Paserio avvocato fiscale generale di Savoia, C. chiese alle Comunità piemontesi che mettessero in piedi, da sole, con i loro mezzi, un esercito di diecimila fanti: per difendersi, "pro patria conservanda", contro i Francesi, che allora minacciavano lo Stato a causa di un conflitto insorto col duca a proposito di nuove giurisdizioni ecclesiastiche savoiarde, contestate da loro perché dannose a quelle di Lione e di Grenoble. E anche poi nel futuro le Comunità avrebbero dovuto tenere in piedi l'esercito contro ogni minaccia alla loro indipendenza, alle loro libertà che i duchi sabaudi avevano sempre riconosciuto avendo in cambio la loro fedeltà. Ma le Comunità rifiutarono.
I loro patti con i principi sabaudi e anche con l'ultimo, con C., non le impegnavano ad alcun atto di quella portata: poche decine di uomini per un limitato numero di giorni ogni anno, erano tutto ciò che militarmente e per le più urgenti ragioni della difesa loro e del principe esse erano tenute a preparare. Di più non potevano fare, perché ne avrebbe avuto danno la loro economia che viveva intensamente dell'operosità dei loro uomini; e non volevano, perché avrebbero alterato il rapporto col principe, rinunciato ad una fondamentale fra le proprie libertà, forse favorito il potenziamento del potere ducale a scapito del proprio che era così forte nelle assemblee e generalmente nelle strutture dello Stato. Alla richiesta di C., e degli altri governanti più favorevoli monarchicamente a lui, esse opposero dunque il timore che il duca volesse i diecimila fanti "pro subiugando subditos suos", e non ci fu mezzo per indurle a superare il timore. Esse non prevalevano nello Stato, politicamente perciò non erano indotte ad alcuna eccezionale prestazione, e sul piano formale il loro rifiuto era ineccepibile.
è vero, si trattò di un gesto negativo; e di negazione in negazione, di difficoltà in difficoltà, mentre in Italia e fuori le guerre ispessivano e la libertà della penisola aggravava la sua crisi, il governo e tutto lo Stato sabaudo sarebbero andati in rovina. Ma quella delle Comunità piemontesi era pur sempre una sola delle anime dello Stato, e non solo la sua storia, ma tutta la storia dello Stato, l'avevano resa ormai ciò che era: non stupisca dunque la sua negativa manifestazione del 1517.
In quella manifestazione contarono con rilevanza particolare le ragioni economiche e sociali e politiche per le quali Comunità era una mta di mondo a sé, e ché si riassumevano politicamente nel rapporto col principe. Ora, di fronte al caso del 1517 dobbiamo chiederci se nel rifiuto le ragioni economiche contarono in una misura più rilevante del consueto, dal momento che il Piemonte viveva da non pochi anni una vita assai dura per l'aumentare delle presenze militari straniere sul suo territorio.
Dopo i guai conseguenti alla lega di Cambrai il rinnovato conflitto franco-svizzero per il possesso di Milano aveva condotto nel 1513 Svizzeri e Sforzeschi fino a San Germano Vercellese, che venne saccheggiata, e fin quasi a Torino; nel 1515, fino alla battaglia di Marignano, Francesi e Svizzeri, bene accolti i primi da C. e ostili a loro i secondi sempre per via di Milano, gravarono a lungo sul Piemonte e lo guastarono in molti modi; nel 1516 il re di Francia Francesco I, in difesa della giurisdizione di Lione e di Grenoble, e come abbiamo ricordato più sopra, giunse a intimare la guerra a C. dopo avergli chiesto la Bresse, il Faucigny, Nizza, Vercelli e altro ancora, e se poi la guerra non ebbe corso fu perché gli Svizzeri non trovarono interesse ad aiutare il re, ma la minaccia di guerra durava ancora nel 1517: e quanto soffrivano le colture e le arti e i commerci piemontesi per tutto ciò?
La gravità del fenomeno è intuibile, e nondimeno a tutt'oggi manchiamo di studi che ce la misurino. Anche le più recenti ricerche sull'economia piemontese del Quattrocento e di quel primo Cinquecento non hanno ancora potuto misurarla. Ma è anche vero che esse non hanno potuto accertare neppure i termini della prosperità piemontese, vogliamo dire quei termini e secondo i modi che la moderna storiografia economica esige. Di sicuro c'è per altro un'impressione generale, fondata su molti elementi: ed essa è che, nonostante i guasti subiti, colture e arti e traffici abbiano continuato a "tenere" ancora per qualche tempo, evidentemente fondati com'erano sul tempo lungo della prosperità quattrocentesca. Nel 1513 i nobili del Piemonte si impegnarono con 5.000 fiorini a fermare gli Svizzeri, le Comunità si impegnarono allo stesso scopo con 40.000 fiorini; alla fine del 1514 gli stati piemontesi concessero al governo un sussidio di 200.000 fiorini e diedero 33.000 fiorini a vari membri della famiglia ducale e ad altri preminenti piemontesi, e savoiardi, nel governo. E questi non sono davvero segni di decadimento economico.
Nel rifiuto del 1517 al governo sabaudo le ragioni sociali e politiche delle Comunità dovettero prevalere su quelle economiche. Esse vanno considerate nel secondo tempo del governo di C., qualificato ancora, come il primo tempo, più dalle tradizionali risorse delle varie parti dello Stato e dalle loro azioni e reazioni all'opera governativa che da loro crisi e da conseguenti novità.
In quel secondo tempo, che si può individuare fra il 1512 e il 1530, il caso clamoroso del 1517 non si ripeté, C. e i suoi collaboratori nel governo evitarono gli scontati rifiuti da parte delle Comunità. Durarono invece i sussidi piemontesi, anche ingentissimi, a mostrare che il rapporto col principe era ancor sempre accolto, conveniva ancor sempre; tuttavia essi durarono nel controllo crescente di quella convenienza, nel contenimento progressivo del rapporto all'interno degli interessi piemontesi e non in relazione a tutto lo Stato. Valsero in proposito anche le dottrine riformate, che cominciarono a farsi conoscere in Piemonte dal 1523 e che non giovarono di certo a sollecitare aperture verso il sabaudo e savoiardo, e cattolico, potere del principe. E si ricordi anche la richiesta piemontese del 1530 di uno sdoppiamento della Camera dei conti - che aveva sede a Chambéry -, in modo che si potessero risolvere a Torino le questioni piemontesi di pertinenza della Camera e non si dovesse ogni volta per tali questioni passare le Alpi. Il duca non accettò la richiesta, ma subì ugualmente quella conferma degli orientamenti che d'altro canto proprio il suo governo aveva sempre più stimolato. A loro volta il Parpaglia e il Paserio, e altri governanti piemontesi, avviarono in quegli anni ancora un altro gioco: insieme a Beatrice di Portogallo, che C. aveva sposato nel 1521 e che inclinava progressivamente nel loro stesso verso, ricercarono sempre di più la definizione in senso monarchico del potere del principe, che invece, per essere rimasto più vicino al privilegio savoiardo, era piuttosto monarchico-aristocratico; e mirarono a ridurre il valore politico del rapporto fra il principe e i Piemontesi. In tali modi, e per opposte ragioni, nel secondo tempo del governo di C. la tradizione del consenso piemontese al duca entrò in crisi.
In quello stesso tempo crebbe la presenza svizzera sul governo e sulle regioni nordoccidentali del ducato.
I governanti dello Stato sabaudo avevano continuato sin verso il 1523, superando anche momenti difficili, ad agire verso gli Stati vicini prevalentemente d'accordo con i governanti francesi, e ciò era accaduto tanto più dal momento in cui gli Svizzeri si erano alleati con Francesco I, dunque dal 1521. Ma dal 1515 C. aveva ripreso l'azione di Filiberto II contro Ginevra, successivamente aveva pure cercato di affermarsi a Losanna: e se tutto ciò non si era sempre realizzato contro una omogenea opposizione svizzera e in particolare, al solito, bernese e friburghese, finì pur sempre per provocare tale opposizione. Dal 1523 C. volle accostarsi all'Impero e ricordarsi fra l'altro anche di una sua parentela con Carlo V. Ma l'imperatore non poteva occuparsi dei suoi affari svizzeri, così complicati e così antichi, e non poteva sostenerlo contro Ginevra e contro Losanna. E quindi finalmente accadde che nel 1526 il vescovo prosabaudo di Ginevra fu cacciato dalla città; e questa strinse comborghesia con Berna e con Friburgo e si assestò come non mai nelle proprie libertà e nella propria indipendenza. E se le difficoltà losannesi e le dure vicende ginevrine degli ultimi anni precedenti la comborghesia mostrarono un'altra volta l'intensità dell'impegno sabaudo e savoiardo preminente per accrescere la propria forza nello Stato, la sottrazione che Ginevra fece di sé dall'ingerenza sabauda riconfermò conclusivamente le fortune bernesi e friburghesi nei confronti di quello Stato: in ultima analisi fu ripetuto e fortemente aggravato l'errore di Filiberto II e degli antiginevrini suoi collaboratori nel governo.
I Bernesi ruppero allora l'alleanza che essi avevano confermato con C. nell'anno 1509 dopo la prima frode del Dufour; e il Vaud sabaudo fu reso ancora più debole di fronte alle prementi fortune bernesi e friburghesi. Si aggiunsero le dottrine protestanti, nella Svizzera e di là sui paesi savoiardi - e sulla valle d'Aosta -, per cui C. e i membri del suo Consiglio, allarmatissimi, si diedero a cercar solo più di mantenere così com'erano tutte le cose sociali e politiche di quei paesi e generalmente dello Stato. E si arrivò agli anni intorno al 1530, nei quali divenne via via più chiaro che non si poteva mantenere più nulla. Il terzo tempo del governo di C. cominciò allora.
Il consenso dei tre stati savoiardi al duca era proseguito, a volte pure con manifestazioni di molta importanza, dopo il Dufour; ed era certamente proseguito meglio quanto meno il consenso piemontese lo aveva turbato. Ma proprio per questo avevano avuto più campo certi accenni che per esempio nel 1517 i deputati delle Comunità savoiarde avevano fatto alle differenze fra i poveri e i ricchi, fra i "povres" e i "gros" nei loro paesi, chiedendo perciò che il sussidio chiesto allora dal governo fosse pagato non meno dai "gros" che dai "povres", e che il duca recuperasse le terre sabaude alienate a solo vantaggio dei maggiori signori della Savoia. Ed erano venute fuori lagnanze contro l'oppressione finanziaria degli ecclesiastici sul "peuvre homme" e denunce contro l'uscita di denaro dallo Stato, responsabili di nuovo gli ecclesiastici. L'inflazione crescente - che fra l'altro portava all'aumento del prezzo del sale, così necessario all'economia agricola savoiarda, e al ruolo che in essa svolgeva il "peuple" - fu denunciata a sua volta. E insomma una coscienza sociale, molto timida nelle sue dichiarazioni ufficiali e soprattutto contenuta in quelle dichiarazioni, si fece sentire e durò già prima del 1530, e ne possiamo intuire minori timidezze considerando sotto il suo profilo il comportamento del governo di C. verso la fine del suo secondo tempo.
Il terzo stato savoiardo cominciò a chiarire meglio le ragioni per cui era altra cosa dai primi due stati; insisté ancora nel suo monarchico favore per C. - come era già accaduto nei confronti di Carlo I - ma non poteva cambiare la realtà dominante nel ducato sabaudo e quindi, nella sostanza del suo comportamento, si avviò ad allontanarsi da tale realtà. "Veramente li savoyenghi / Cum lo Ducha sano stare / Anchora li piemontesi / Non lano a domenticare", aveva detto il chierese Pietro Giacomelli nel 1519 (cit. in Marini, Savoiardi…, pp. X, 353): ma anche allora quei carattere non era di tutti e meno che mai lo fu in seguito.
Nell'inverno del 1530 anche C., come molti altri signori, fu presso Carlo V a Bologna; ma poi tornò di là e riprese i suoi vani sforzi antiginevrini: in Piemonte lasciò la duchessa con i vecchi e con i nuovi monarchici governanti, come Cassiano Dalpozzo, Nicolò Balbo e altri, ad aggravare il solco fra gli stati e il governo, e fra gli stati. Fu sempre più chiaro che il terzo stato piemontese non voleva sostenere la politica ducale oltr'Alpe, ma il secondo stato sì; e ai governanti piemontesi e a Beatrice si unì, contro il terzo stato, il favore dei nobili.
Nella primavera del 1530 vi furono jacqueries un po' dovunque in Piemonte; poi crebbero i contrasti fra i produttori e i consumatori di grani. I "riches" - così Goffredo Paseno, allora presidente del Consiglio ducale a Torino, a C. nell'ottobre, con un semplicismo che dunque non era solamente savoiardo -, volevano libero il commercio dei grani - e fra di essi vi erano i proprietari nobili di campi come vi erano le Comunità di Torino, di Carignano -; i "povres" lo volevano regolato dal governo ducale. Speculatori canavesani o vercellesi vennero fuori, in quegli anni, a cercar di trarre ai propri affari la stessa Beatrice, che mostrò di inclinare alle loro proposte. Sono molto facili le tentazioni di una spiegazione a breve termine di quelle varie manifestazioni piemontesi, vedendosi bene la concordanza fra monarchici e ricchi produttori, la modernità del fatto; ma urge di più la considerazione della crisi crescente del tradizionale potere sabaudo in Piemonte: la scarsa modernità di quel potere veniva da una storia lunga, non da una breve, della maggior parte dello Stato e sua.
Il terzo tempo del governo di C. fu illuminato, al suo inizio, da analisi particolarmente lucide della situazione generale di quello Stato e di quel potere. Nell'agosto 1530 il duca e i membri della Camera dei conti vollero conoscere a fondo i termini della realtà monetaria, difficilissima, del ducato. E fra gli interrogati soprattutto Henri Pugnet maestro delle monete nella zecca di Bourg-en-Bresse - circa il 1531 - e Bertrand Guillot "generale delle monete" - nel 1532 - seppero portarsi ben oltre una risposta puramente tecnica, mostrarono nella loro ricostruzione delle cose una sensibilità economica e sociale e politica anche molto notevole, non disgiunsero mai l'attenzione per lo Stato sabaudo da quella per i paesi vicini o comunque importanti alla sua vita, e insomma guardarono con larghezza nelle ragioni del "desordre" che minava lo Stato.
Certo, il Guillot e ancor meglio il Pugnet videro altrettanto bene che quel disordine non era grave per tutti; e ciò che in essi si legge delle arti e dei commerci d'esportazione piemontesi, ben sempre attivi, interessati a mercati anche molto lontani, avvantaggiati pertanto dalla svalutazione crescente delle tante monete che circolavano, conferma e darebbe anzi nuovi elementi alle annotazioni che facemmo più sopra, e quindi non vi insisteremo. Ma che il Piemonte non fosse tutto lo Stato era cosa in particolare il Pugnet sapeva benissimo, e su questo punto dobbiamo fermarci: non tanto per continuare anche attraverso il discorso del maestro di Bourg nella considerazione delle differenze e nei confronti fra il Piemonte e la Savoia, rilevando con lui che i danneggiati dall'inflazione erano più numerosi nella agricola e feudale Savoia che in Piemonte, e che in Savoia gli interessati all'inflazione erano in minoranza; bensì per raggiungere, insieme e oltre quei suoi rilievi, il governo di C., e misurare le possibilità che gli rimanevano ancora di reggersi senza naufragare nei contrasti fra le parti. Tuttavia, gliene rimanevano?Avvertendo che il disordine non era solo nel campo monetario il Pugnet disse che se il duca non interveniva era da temersi "quelque grosse tribulation au pays". Pochi mesi prima i Bernesi avevano avvertito gli abitanti del Vaud sabaudo che una guerra li avrebbe condotti a sicura rovina. E con quei due avvertimenti avrebbero potuto incontrarsi molti altri; ma non si poteva andare più avanti di loro, non si potevano ridurre o portare a una sola le molte anime del ducato sabaudo. Le aperte denunce dei mali che le indebolite monete al tempo stesso testimoniavano e alimentavano, le proposte di soluzioni dell'una o dell'altra delle difficoltà principali, come quella del Pugnet di unificare il sistema monetario della Savoia e del Piemonte, scoprirono più a fondo l'inestricabile condizione di svantaggi e di vantaggi che la storia dello Stato così com'era divenuto, per se stesso e nella continua interdipendenza con tanta storia dei paesi vicini, aveva finito per procurarsi, e della quale il governo sabaudo era e rimaneva uno degli attori e degli interpreti, sempre soltanto uno. I redditi ducali si andavano deprezzando in Savoia, e ancor più nel Piemonte, come si deprezzavano gli altri redditi. E tuttavia ogni rimedio poteva essere peggiore del male; cercar di intervenire nel disordine monetario avrebbe alterato i rapporti già per tanti versi non facili con la Francia, con i marchesati di Monferrato e di Saluzzo, e via dicendo. La drammaticità della condizione di tanta parte dello Stato era economica e sociale e politica, e poiché in essa il capo continuava a vivere insieme alle membra - l'espressione feudale era ricorsa ancora da parte governante in una trattativa del 1514 con i Piemontesi -, disiecta i membra, la sorte del capo era facilmente segnata.
Le occupazioni rapidissime svizzere e francesi di quasi tutto lo Stato, fra il 1536 e il '37, avvennero perché C. fino all'ultimo provocò gli Svizzeri e perché il conflitto franco-asburgico riprese: nell'un caso e nell'altro gli occupanti dovettero portarsi nel territorio medesimo dello Stato, per le proprie fortune, già antiche, e per le proprie difese. Accadde insomma che, non mutandosi né migliorandosi, continuando nelle sue tradizioni e non dominando le novità, dopo avere accentuato le proprie differenze fino al limite della rottura, lo Stato "si ruppe"; e le sue parti si avviarono verso esperienze in ogni caso personali, anche rivoluzionarie. I tempi del governo di C. che abbiamo considerato finora furono diversi fra di loro ma furono pur sempre pieni, espressivi cioè di un travaglio di tutto lo Stato nei confini che esso aveva dal 1504 - e dal 1475, dopo la perdita del Basso Vallese. Dopo il 1536 bisogna restringersi alle terre rimaste sabaude per studiare un quarto tempo di C.: tutto il restante, dalla Bresse a gran parte del Piemonte, da occidente a oriente e dal nord al sud, visse un'altra vita.
Fermarsi su quel tanto di Piemonte che rimase sabaudo, e sulla Valle d'Aosta e sul Nizzardo, non significa tuttavia un discorso meno interessante ancorché per più di un verso meno largo del precedente sino al 1536.
I Valdostani nel 1536 diedero aiuto agli abitanti della Tarantasia - cioè di quella regione savoiarda che era confinante con loro - che opposero qualche resistenza ai Francesi; poi finirono per trattare con gli occupanti e nel 1537 conclusero con Francesco I un accordo che li impegnava alla neutralità e al tempo stesso li garantiva non solo dai guasti delle occupazioni francesi o imperiali, ma altresì dalle mire vallesane - non nuove - sul loro paese. Si tennero dopo di allora sempre neutrali, rinnovando l'accordo fino al 1556-58. Rimasero salvi i loro impegni di fedeltà al duca di Savoia.
Nella regione così salvata a C. continuarono a concedersi sussidi al duca; nel governo della Valle prevalsero i Valdostani come Mathieu de Lostan e René de Challant, e i Savoiardi come Antoine de Leschaux che seguì il Lostan dal 1539 e che aveva già un forte passato di fedeltà a C.: nel tempo della neutralità qualcosa durò della condizione anteriore al1536, in cui la Valle era sempre stata ben più nell'ambito savoiardo che nel piemontese e negli interessi più tradizionali del potere sabaudo. E anche nella neutralità durò la netta prevalenza ecclesiastica e nobiliare sul terzo stato; basti pensare alla lunga preminenza dello Challant, i cui caratteri erano già stati notevoli prima del 1536 e non solo nella Valle ma anche nel mondo del maggior privilegio savoiardo. E si consideri che la prevalenza ecclesiastica e nobiliare ebbe nuovo modo di farsi valere nell'istituzione nuovissima - nacque appunto nel 1536 - degli eletti degli stati, che si chiamarono commis, commessi, e il cui Consiglio d'allora in poi ebbe cura di tutta la vita valdostana politica e fiscale e militare, e delle libertà di ogni stato, e difese in primo luogo le libertà del clero e della maggiore nobiltà feudale della Valle, formato com'era, nei suoi sessanta membri, in netta maggioranza dagli eletti del primo e del secondo stato.
Il Consiglio dei commessi ebbe grande importanza: amministrò la neutralità valdostana, trattò con Francesi e con Vallesani e col duca sabaudo, fu insomma un piccolo governo con i suoi compiti essenziali all'interno e all'esterno della regione; e visse ben oltre gli anni restanti di Carlo. Ma a questo punto si deve anche osservare che il suo contributo all'affermazione nello Stato sabaudo degli intendimenti particolari, di patria, valdostani, se non portò mai a novità sociali nella Valle non mantenne neppure la Valle così vicina alla realtà sociale savoiarda com'era accaduto fino al 1536: in tale senso il periodo della neutralità segnò una prima forma di distacco dalla Savoia, che per di più visse allora importanti esperienze con i Francesi e divenne a sua volta, socialmente e politicamente, un paese e anzi un complesso di paesi diversi da quelli dell'età sabauda che era durata fino al 1536. Semmai ricollegarono i Valdostani ai Savoiardi gli intensificati commerci dei primi con i secondi e con i Lionesi, nell'ambito del generale incremento che i Francesi diedero ai traffici di tutta l'area che governarono o sulla quale avevano esteso il proprio dominio o che avevano interessato meglio a sé, come fu appunto nel caso dei Valdostani. Ma anche dal Piemonte francese, dai Biellesi e dai Pinerolesi produttori di pannilani e da altre Comunità, crebbe il volume degli scambi con quell'area, e perciò, a noi che guardiamo alla Valle d'Aosta nella sua relazione con C., appare da rilevarsi più la novità politica delle tendenze all'autogoverno che non il fatto degli aumentati traffici. Si completi il rilievo col ricordo di contrasti fra il terzo stato e a due primi, e di connessi fermenti antisabaudi, per cui lo stesso duca andò nel 1540 ad Aosta e dovette almeno promettere qualche soddisfazione ai meno privilegiati della Valle; e si completi ancora il rilievo con l'altro ricordo, di fortune protestanti anche nella regione e che d'altro canto erano cominciate già prima del 1536. Si avrà così il quadro di una situazione che dopo il 1536 fu animata da caratteri di continuità e da caratteri di diversità, in una misura non rapida eppure senz'altro importante.
Del Piemonte rimase a C. dopo il 1536 Vercelli, e quel luogo divenne la sua residenza necessariamente preferita perché era vicino allo Stato di Milano e agli eserciti spagnoli e imperiali che Carlo V vi teneva; per anni era stata Beatrice ad incitare il duca a un'alleanza con l'imperatore più stretta di quella che egli manteneva, e Beatrice, non C., morto Francesco II Sforza nel novembre 1535, aveva chiesto all'imperatore, seppure invano, che il ducato milanese fosse dato al suo primogenito Luigi; ma poi non occorsero più le sollecitazioni della duchessa a far sì che il governo sabaudo tenesse in pieno la parte imperiale, s'impose la necessità di tenerla. E questa necessità ebbe via via più modo di farsi valere e di qualificare non solo la politica estera sabauda bensì anche l'ulteriore esperienza degli altri governanti sabaudi e innanzitutto piemontesi, e contò nella formazione di Emanuele Filiberto, che dal 1545 C. mandò presso l'imperatore e che era destinato, dopo la morte del fratello Luigi, a succedere a C. nel governo dello Stato.
A C. dopo il 1536 rimase anche, ma non sempre, Cuneo; e fra Vercelli da un lato e Cuneo dall'altro egli tenne per più o meno lunghi periodi di tempo Ivrea, Biella, Chieri, Asti e Ceva, altri e minori luoghi: la contea di Asti e il marchesato di Ceva erano stati dati da Carlo V a Beatrice, per lei e per i suoi discendenti, nel 1531. Il poco Piemonte rimasto, come i due acquisti nuovi, furono a loro volta percorsi da nemici francesi o da amici spagnoli e in entrambi i casi la loro vita fu spesso molto dura, l'economia agricola alterata, le arti e i traffici colpiti. La stessa Vercelli cadde per un momento in mani francesi nel novembre 1553. E tutto ciò ebbe, fra le altre, una conseguenza che merita qui il più preciso rilievo possibile.
Accadde infatti che i governanti piemontesi monarchici e antiparlamentari degli anni di Beatrice fino al 1536, e poi ancora fino alla morte di lei a Nizza nel 1538, nella durissima condizione generale del restante ducato seppero intendersi con le Comunità, almeno nella misura necessaria per la comune sopravvivenza; e accadde che a loro volta le Comunità s'innalzarono oltre i limiti nei quali si erano chiuse prima del 1536, poiché si trovarono di nuovo, come nei tempi quattrocenteschi delle loro migliori fortune nello Stato e dallo Stato nell'Europa, a giocare un ruolo essenziale per l'esistenza propria e del potere ducale. Non venne meno l'orientamento di quei governanti. Ma sopì i propositi che l'avrebbero condotto alla morte invece che alla vita politica. La sua continuità fu innegabile: ma per ritrovarla esplicita si sarebbe poi dovuto attendere, dopo la stessa morte di C., la pace di Cateau Cambrésis e il governo di Emanuele Filiberto. E inoltre si avverta un'altra ragione della nuova cautela dei governanti piemontesi: il loro dover convivere presso C. con gli uomini del maggior privilegio savoiardo, che avevano fuggito gli Svizzeri e i Francesi più favorevoli al terzo stato che a loro ed erano la vera continuità nel governo ducale.
Tuttavia la continuità piemontese ebbe dalla propria parte il fatto di muoversi ormai in un terreno divenuto più favorevole, perché i Savoiardi al governo erano pur sempre lontani dalle loro basi principali di azione; la vecchia linea politica savoiarda era certamente in difficoltà, il suo maggior alimento sociale era oltre le Alpi in mani francesi o svizzere. La assai più recente linea politica piemontese, in minoranza fino al 1536, ebbe d'allora in poi delle possibilità che prima non aveva avuto. Nel suo governo C. risentì del contrasto fra i vecchi e i nuovi interessi e orientamenti, così come sentì il rapporto di nuovo migliorato con le Comunità in Piemonte e generalmente, seppur non idillicamente, con i tre stati. Davvero, il suo quarto tempo fu articolato, fu mosso da molto movimento.
A lui, di volta in volta, manifestarono propositi di consenso e di unità gli Eporediesi, i Vercellesi, i Chieresi, e gli altri con loro. Doni e sussidi vennero dati, a lui e ad Emanuele Filiberto, con la maggiore frequenza che la condizione del momento consentiva. Si diede, e si chiese la conferma delle antiche e meno antiche franchigie, in un clima che sarebbe stato impensabile pochi anni prima. Di nuovo migliorarono e si fecero intense le relazioni dirette fra le Comunità e il duca e gli altri governanti con lui. Secondo la migliore tradizione, che nel primo Cinquecento era stata savoiarda, nell'estate 1539 un'assemblea raccolta a Ivrea propose di sollecitare C. a risposarsi, perché un suo nuovo matrimonio era necessario e quel che era rimasto del Piemonte considerava suo dovere ottenerlo, interessato com'era alla continuazione della dinastia sabauda.
Ripresero anche le ambascerie dalle assemblee a governanti stranieri, le quali avevano caratterizzato i tempi migliori degli stati e particolarmente il loro secondo Quattrocento. Si andò a Carlo V, al marchese del Vasto quando egli fu governatore dello Stato di Milano, perché il duca e gli altri del suo governo non bastavano a ridurre al Piemonte i danni crescenti della presenza delle truppe imperiali e delle richieste all'alleato sabaudo di denaro da parte di Milano e dell'imperatore. Agostino Scaglia era collaterale nel Consiglio ducale in Piemonte ma rappresentò pure più volte gli interessi di Ivrea o di tutta un'assemblea a proposito di sussidi al duca e al del Vasto: così nel 1536, nel 1538, nel 1539. E proprio il Consiglio ducale, quando nel luglio 1536 da Moncalieri chiese uomini e cavalli per contrastare i Francesi e non lasciarli uscire da Torino, riconobbe assai chiaramente che non v'era modo "di provedere a tal carigho senza l'agiuto de li Trei Stati". Il principe era allora meno che mai "possente ad sostenire una impresa" senza gli stati. Quella realtà durò per tutti i restanti anni di Carlo.
Non per ciò ritornarono fra il 1536 e il 1553 e anzi il 1559 i tempi delle massime presenze politiche di non pochi uomini delle assemblee; un tal fatto era impossibile. Ma il recupero che quegli uomini compirono delle loro possibilità nel restante dominio di C., e fuori di esso, fu davvero notevole. Non gli mancarono difficoltà, in primo luogo perché a volte si rinnovarono dei contrasti fra uno stato e l'altro.
Così nell'agosto 1536 le Comunità dichiararono in un'assemblea a Chieri che se non si fossero potuti raccogliere gli uomini e i cavalli chiesti poco prima dal Consiglio ducale "questo procederà per culpa di ecclesiastici"; e aggiunsero: "et in quel caso che dicti ecclesiastici non fasieno il debito loro… et hacada alcuno danno ne la patria, protestano de lo interesse et auctorità de lo signor nostro contra dicti ecclesiastici, et anchora dil interesse et dano de tuta la patria" (in Parl. sabaudo, VII, p. 165). E nel 1541, a proposito delle fortificazioni volute da C. a Vercelli, i nobili si dissero favorevoli alla cosa ma i deputati di Ivrea, di Biella, di Santhià giunsero a dire che piuttosto che piegarsi a contribuire per quel fine avrebbero venduto i propri figli.
Le difficoltà per altro non impedirono i recuperi e le rinnovate fortune di cui abbiamo detto, e che durarono oltre la morte di C. perché non erano rinati per suo merito bensì gli si erano per così dire affiancati e in qualche misura imposti dopo la tragedia del 1536.
Nel Nizzardo non accaddero novità piuttosto si mantennero le tradizioni, sociali e politiche, analoghe alle valdostane e in misura minore alle piemontesi. Con la sua antica nobiltà e il suo clero fortemente arroccato nel godimento dei propri numerosi privilegi - che poi il Dalpozzo fra il 1560 e il '61 avrebbe giustamente denunciato nel suo memoriale a Emanuele Filiberto -, con la scarsissima attività delle sue assemblee, quella regione non visse esperienze nuove e a C. servì piuttosto, a volte, come rifugio, e generalmente come appoggio alla tradizione nel suo governo. E il sale nizzardo che egli controllava mantenne la sua grande importanza nell'economia degli altri domini rimasti sabaudi.
La tradizione si fece sentire anche nella Savoia divenuta francese, dove si ebbero sollecitazioni a pro' di C. e dell'Impero da parte di ecclesiastici, e dove la maggiore nobiltà, come quella dei Sallenove e dei La Sarra, cercò di opporsi ai Francesi nel 1536, e un Charles de Lucinge pochi anni dopo la morte di C. cercò di occupare addirittura Lione, per sostenere di là una ripresa sabauda in Savoia.
Ma più che alle tradizioni, durate dopo il 1536, dobbiamo tornare a ricordare le varie novità che si avviarono nella Valle d'Aosta e molto di più in Piemonte, e soprattutto dobbiamo ricordare l'assolutistico orientamento dei governanti piemontesi e di Beatrice perché esso ebbe pure un'altra conseguenza, un altro aspetto, che abbiamo lasciato finora necessariamente in ombra: vogliamo dire che esso contò nella formazione politica di Emanuele Filiberto. Quel principe visse e imparò sempre di più stando presso Carlo V e presso Filippo di Spagna, poi Filippo II; ed è difficilmente misurabile la somma delle esperienze che egli fece allora. Ma se almeno è certo che l'imperatore contribuì a sollecitare in lui un altissimo senso del potere e altresì la necessità di non forzare i sudditi sotto il peso di quel potere; e che da Filippo gli poté invece venire di più il gusto del potere personale; è altrettanto certo che i governanti piemontesi ebbero possibilità non indifferenti di influire su di lui perché lo raggiunsero spesso in Germania e nelle Fiandre, fecero da trait d'union fra interessi piemontesi e interessi suoi, lo prepararono, secondo la loro maniera di vedere e di esprimere una certa realtà sociale e politica del Piemonte, al futuro governo dello Stato sabaudo.
Molte cose, e molto diverse fra loro, accaddero dunque lungo il quarto tempo di C., e spesso al di fuori dei propositi politici del duca. Sottovalutare le novità che si rafforzarono o che nacquero allora condurrebbe fuori strada ogni tentativo di valutare quel tempo, e di confrontarlo con i precedenti. La tradizione contò poi anche per Emanuele Filiberto, e per più di una ragione e in più di un modo; ma contarono di più le novità, e il successore di C. lo provò ampiamente. Nel suo quarto tempo C. fu sempre meno in grado di esprimere qualcosa di proprio, di far valere una voce personale. Quel tempo aveva avuto inizio con la catastrofe dell'ordine che il duca aveva cercato sempre più faticosamente di costruire; e terminò affacciato, per così dire, su strade che si sarebbero allontanate sempre di più da quell'ordine. Se fino al 1536 la responsabilità personale e i meriti e i limiti del lavoro politico di C. erano stati organicamente anche quelli della maggioranza sociale e politica del ducato, dopo di allora essi non furono più qualificati da nessuna organicità. E di conseguenza gli anni dal 1536 al 1553, così aperti sul futuro dello Stato, furono anche gli anni della apertura più critica, del rischio maggiore, non solo del lavoro di C., ma della condizione stessa del potere ducale sabaudo.
C. morì nella città di Vercelli il 17 agosto 1553.
Fonti e Bibl.: Valgono soprattutto (e vedi ivi bibliogr.): L. Marini, René de Lucinge signor des Allymes. Le fortune savoiarde nello Stato sabaudo e il trattato di Lione (1601), in Riv. stor. ital., LXVII(1955), pp. 339-344; H. Naef, Claude d'Estavayer évêque de Belley, confident de Charles II duc de Savoie (1483-1534), in Zeitschrift für Schweizerische Kirchengeschichte, L (1956), pp. 85-137; LI (1957), pp. 199-221, 281-298; Id., L'occupation militaire di Genève et la combourgeoisie manquée de 1519,ibid., LII(1958), pp. 48-86; Id., La croix de Savoie confirmée au pays de Vaud par un évêque (1519-1522),ibid., LII (1958), pp. 303-338; LIII(1959), pp. 35-60; Id., La chrétienté déchirée et la maison de Savoie (1521-1522),ibid., LIV (1960), pp. 29-52, 114-135; con le recensioni, a questi lavori del Naef, di A. Dufour, in Boll. stor.-bibl. sub., LX (1962) pp. 554-557, e di L. Marini, in Riv. stor. ital., LXXV (1963), pp. 202-205; L. Marini, Savoiardi e Piemontesi nello Stato sabaudo (1418-1601), I, 1418-1536, Roma 1962, pp. 312-401; Id., I primi tempi della Riforma: conservaz. e reazione nello Stato sabaudo, in Boll. della Soc. di studi valdesi, LXXXII (1962), III, pp. 43-53; F.Cognasso, I Savoia, Milano 1971, pp. 305-318; I.Soffietti, Introd. ai Verbali del "consilium cum domino residens" del ducato di Savoia, editi da lui, Milano 1971; L. Marini, Libertà e tramonti di libertà nell'Italia subalpina occidentale, 1418-1560, in prima parte di Id., Libertà e privilegio. Dalla Savoia al Monferrato, da Amedeo VIII a Carlo Emanuele I, Bologna 1972 - nelle note ai capitoli, e passim agli anni di Carlo II. V. inoltre, in questo Diz. biogr. degli Italiani, le voci Beatrice di Portogallo; Belli, Pierino; Berruti, Amedeo; Bonifacio IV, marchese di Monferrato.
Il Memoriale di Henry Pugnet è stato edito da M. Abrate in Studi in onore di A. Fanfani, Milano 1962, IV, pp. 1-38. E su tutta questa materia, e su C. di fronte ad essa, rimane sempre in particolare da vedersi M. Chiaudano, La riforma monetaria di Emanuele Filiberto, in Lo Stato sabaudo al tempo di Emanuele Filiberto, a cura di C. Patrucco, III, Torino 1928, pp. 171 ss.