CARLO III di Borbone, duca di Parma
Figlio di Carlo Ludovico di Borbone-Parma, duca di Lucca (poi Carlo II di Parma), e di Maria Teresa di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele I, nacque il 14 gennaio del 1823 a Lucca e venne battezzato col nome di Ferdinando Carlo. Passò i primi anni della sua vita seguendo i genitori nei loro continui spostamenti attraverso l'Europa, fino al ritorno della corte ducale a Lucca nel 1833.
La debole e contraddittoria personalità del padre, l'ambiente di corte, caratterizzato dalla presenza di avventurieri e di uomini di dubbia fama, ebbero certamente una influenza negativa sulla sua formazione. Della primissima educazione impartitagli dalla madre, austera e religiosissima, ben poca traccia doveva rimanere in lui nella maturità. Né il precettore ungherese mons. Deaki, né la vicinanza di maestri come Lazzaro Papi, suo insegnante di lettere e storia, riuscirono a raddrizzare l'indole ribelle e violenta del principe. Nel 1841 Carlo Ludovico, giudicando utile assecondare le tendenze del figlio, che manifestava più passione per le armi che per i libri, ottenne da re Carlo Alberto di farlo ammettere nell'esercito sardo. Ma la condotta scapestrata di Ferdinando suscitò solo indignazione nell'austero ambiente torinese e deluse profondamente Maria Teresa, che sperava nella rigida disciplina militare piemontese per piegare la natura disordinata e scioperata del figlio. Negli ambienti diplomatici si disse che la duchessa aveva voluto allontanare il figlio da Lucca temendo che, sulle orme paterne, anch'egli volesse abbracciare il protestantesimo. Ma Ferdinando non si poneva problemi di natura religiosa e il soggiorno alla corte sabauda, dove ancora si respirava l'atmosfera del cattolicesimo della Restaurazione, non risvegliò in lui quei sentimenti che sua madre aveva cercato di inculcargli da fanciullo.
Ferdinando è stato definito un "impetuoso, cocciuto ragazzo non finito di crescere"; anche negli anni della maturità egli conserverà certi aspetti infantili, che si manifesteranno con atti di prepotenze irrazionali, non certo idonei a procurargli la simpatia altrui; più virile, più rude del padre, non ne aveva ereditato la capacità di raddolcire con la gentilezza le proprie stravaganze. La passione per la vita militare destò molta perplessità nel pacifico mondo lucchese, più incline a giustificare le crisi religiose o il dongiovannismo del duca, che non il militarismo del figlio.
Nel 1845 sposò Luisa Maria di Berry, sorella del conte di Chambord; questo matrimonio segnò l'alleanza dei Borboni di Lucca col partito legittimista di Francia.
Nel 1846 Ferdinando riuscì a realizzare una sua grande aspirazione, ottenendo dal padre il comando generale delle forze armate lucchesi. L'anno successivo, senza rendersi conto della instabilità della situazione politica, partì con la moglie per la Germania e per l'Inghilterra. Ritornò precipitosamente nel luglio, quando gli giunsero le notizie dei disordini nel ducato. Ripreso il comando dell'esercito, egli pose la città quasi in uno stato d'assedio, col risultato di eccitare il popolo alla ribellione. La sua azione repressiva nei giorni caldi del mese di agosto fu giudicata una provocazione e diede origine a tumulti. Alcuni contemporanei colsero invece solo l'aspetto grottesco di un principe che voleva fare il "poliziotto" e una parte dell'opinione pubblica lo soprannominò ironicamente il "prode Bayardo".
Il 1º settembre, quando il duca, dopo la concessione delle riforme, fuggì a Massa, minacciando l'abdicazione, Ferdinando, il quale ignorava le trattative che erano state già avviate per la reversione anticipata del ducato alla Toscana, fu tra coloro che riuscirono a convincerlo a tornare a Lucca. Padre e figlio rientrarono così insieme in città il 3 settembre in un clima di trionfale accoglienza. In questa occasione lo stesso principe avrebbe preso l'iniziativa di esporre la bandiera tricolore nella sede del comando militare lucchese, esclamando: "se vi piace d'essere liberali, io sarò giacobino". Alcuni diaristi contemporanei attribuiscono questo episodio ad altri, ma non è inverosimile che l'autore ne sia stato proprio Ferdinando, data la sua forte antipatia per l'Austria. Quando Carlo Ludovico firmò l'atto di cessione di Lucca alla Toscana, il principe ne rimase profondamente sdegnato e come gesto di ribellione avrebbe fomentato la sommossa militare scoppiata successivamente a Viareggio.
Costretto ad abbandonare Lucca, si recò in Piemonte, dove la sua avversione alla Austria si rafforzò per l'influsso dell'opinione pubblica piemontese ormai decisamente ostile all'Impero asburgico. Si trovò perciò in grande imbarazzo nel momento in cui il padre, divenuto Carlo II di Parma, alla morte di Maria Luisa d'Austria, lo chiamò presso di sé, proprio mentre stava completando il trattato militare con l'Austria.
Nel 1848 Ferdinando, con la sua rozza mentalità da militare, seppe meglio di suo padre, intellettualmente più raffinato ma anche più indeciso cogliere la serie di contraddizioni insita negli improvvisi mutamenti di fronte operata da Carlo II e, meno duttile alle sottigliezze della politica, finì col rivelarsi più logico e in fondo più retto e lineare. Manifestò, senza troppo riflettere, i suoi sentimenti antiaustriaci in diverse circostanze, fino al momento in cui, dopo lo scoppio della guerra, vedendo frustrati i suoi tentativi di parteciparvi a capo delle truppe parmensi, cercò di raggiungere il quartier generale di Carlo Alberto in forma privata, ma fu fermato per strada dal governo provvisorio lombardo e, solo dopo un mese, fu rimesso in libertà e autorizzato a partire per l'Inghilterra. Ferdinando non comprese l'inopportunità del suo atto, perché non riuscì a cogliere la nuova linea politica del re di Sardegna indirizzata verso le annessioni dei ducati al Piemonte.
Rimase in Inghilterra con la moglie (che nel mese di luglio, a Firenze, aveva dato alla luce un figlio, il futuro duca Roberto) fino all'abdicazione del padre nel marzo del 1849, quando divenne duca di Parma col nome di Carlo III.
Il breve periodo del suo regno è caratterizzato da diversi passi falsi, che confermano la sua impreparazione in campo politico e la assoluta mancanza di duttilità e di tatto diplomatico. Mentre ancora perdurava a Parma l'occupazione da parte dell'Austria, che diffidava del giovane duca a causa della sua condotta dell'anno precedente, questi manifestò segni di resistenza e di opposizione alla invadente interferenza esterna negli affari del suo Stato, ma lo Schwarzenberg riuscì facilmente a reprimere ogni sua velleità di sottrarsi al controllo del governo di Vienna.
C. III dedicò le cure più attente alle forze armate, portando il suo esercito ad un livello numerico sproporzionato alle necessità del piccolo ducato e alle relative risorse finanziarie. La forma quasi maniaca con cui si occupò di questioni militari fu, anche a Parma, oggetto di critiche e di ironie; non è mancato però chi ha visto in lui non il semplice dilettante, ma un esperto in materia, giudicando positivamente le sue opinioni e i suoi studi, particolarmente quelli relativi all'artiglieria. Se le forze armate ebbero nell'organizzazione dello Stato una importanza sempre maggiore, C. non tralasciò di proseguire nelle riforme iniziate dal padre, tendenti ad una più netta articolazione dei ministeri. Ma in realtà il potere finì con l'accentrarsi nella segreteria di gabinetto, alle dirette dipendenze del duca e composta quasi per intero di militari, la quale via via si arrogò competenze sempre più estese, sconfinanti nella sfera propria dei vari dicasteri.
C. fu accusato di aver ridotto il ducato in condizioni economiche disastrose non solo con le eccessive spese per l'esercito, ma anche a causa degli sperperi per le sue folli prodigalità e la vita sregolata. Data la situazione, furono male accolti determinati provvedimenti in materia finanziaria e assolutamente impopolare fu la decisione di entrare nella lega doganale austro-estense del 1853, che si rivelò dannosa alla economia parmense.
Il dispotico modo di governare di C. III destò un progressivo malumore in vari ceti della popolazione, colpiti nei propri interessi. I proprietari terrieri non gli perdonarono il favore accordato ai contadini nelle controversie per gli sfratti agrari; i ceti medi in genere guardarono con diffidenza a certe disposizioni che giudicarono ispirate ad una forma di "socialismo". Il duca sembrava mostrare particolare benevolenza per gli strati più bassi del popolo, in particolare delle campagne, che giudicava i più "fedeli al legittimo governo", mentre avvertiva l'ostilità dilagante nell'ambiente dell'aristocrazia e della borghesia più colta ed economicamente più attiva. La più grave accusa rivoltagli dai suoi numerosi oppositori fu di aver ripristinato la pena del bastone, che adottò in sostituzione di quella capitale, cui era decisamente contrario. Con questi sistemi di governo egli finì col suscitare contro di sé l'avversione della maggior parte dei suoi sudditi e col cadere nella totale disistima delle potenze.
In questa atmosfera maturò nel 1853 la "congiura di palazzo", alla quale la duchessa stessa non sarebbe rimasta estranea: nel tentativo di salvare per i figli il ducato, che vedeva in pericolo a causa del contegno del marito, ella avrebbe avviato pratiche segrete con alcuni governi esteri allo scopo di esautorare C., aiutata in ciò da personaggi di corte a lei devoti e spronata dai suoi stessi familiari. Il duca scoprì tutta la manovra e sembra si abbandonasse ad atti di vendetta, giudicati particolarmente crudeli. Il rancore contro di lui crebbe progressivamente e scritte minacciose apparvero sui muri di Parma. Nonostante ciò, egli continuò a girare a piedi per la città, come aveva sempre fatto. La sera del 26 marzo 1854, mentre faceva la solita passeggiata, fu all'improvviso colpito da un colpo di pugnale al basso ventre infertogli - sembra - dal sellaio Antonio Carra. Trasportato a palazzo ducale ebbe una lunga, atroce agonia durante la quale, perfettamente cosciente del proprio stato, dimostrò una forza e una rassegnazione che lo riscattarono nella opinione dei più da tutte le debolezze della sua vita. Si spense cristianamente ventiquattr'ore dopo l'attentato. La salma, secondo la sua stessa volontà, fu trasportata nella cappella ducale dei Borboni presso Viareggio, non lontano dalle Pianore dove viveva sua madre, alla quale non furono rivelate le tragiche circostanze della morte del figlio.
Sull'assassinio di C. si diffusero voci disparate; all'interrogativo se si sia trattato di vendetta privata, di complotto di corte o di delitto politico non è stata data esauriente risposta. Anche sulla paternità del regicidio, rivendicata dal Carra con una lettera dall'esilio americano al governo di Parma, non sono mancate le discussioni, come pure sul comportamento della polizia e sull'andamento dei processi. Non fu mai chiarito o non si volle chiarire chi fossero i mandanti. L'alone di mistero che circonda questa drammatica morte ha contribuito a fare di C. un personaggio da romanzo, come dimostra la vasta letteratura - per lo più popolaresca, ricca di fantasia - fiorita sull'argomento.
Fonti e Bibl.: Per le fonti inedite sivedano le indicazioni relative alla voce Carlo II di Borbone, duca di Parma, in questo Dizionario.Un quadro complessivo della bibliografia è in Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di A. M. Ghisalberti, I ducati dell'Italia centrale, a cura di M. L. Trebiliani, II, Firenze 1972, pp. 39-115. Tra le opere principali su tutto il periodo borbonico cfr. G. Dalla Rosa, Alcune pagine di storia parmense, Parma 1878-11879, passim;E. Casa, Parma da Maria Luigia imperiale a Vittorio Emanuele II (1847-1860), Parma 1901. Su C. III, a parte la letteratura romanesca fiorita subito dopo l'Unità e il più recente volume, sempre sotto forma di romanzo, di G. Ferrata-E. Vittorini, Sangue a Parma (La tragica vicenda di C. III). 1848-1859, Verona 1939, vi sono solo pochi saggi e articoli tra cui: L. Cappelletti, Un tirannello del sec. XIX. C. III di Borbone, duca di Parma, in Rassegna nazionale, 16 marzo 1906, pp. 184-221; C. Laurenzi, Memoria di C. III di Parma, Sarzana 1962; G. Capacchi, Ilprecettore ungherese di C. III, in Aurea Parma, XLV(1961), pp. 9-21; M. De Grazia, Una lettera sconosciuta di C. III di Borbone-Parma, in Arch. stor. per le prov. parmensi, s. 4, XXI(1969), pp. 255-70.