MARATTI (Maratta), Carlo
Nacque a Camerano, nei pressi di Ancona, il 18 maggio 1625, figlio di Tommaso (di natali dalmati) e di Faustina Masini. Grazie al sostegno economico dell'amico di famiglia Corinzio Benincampi (segretario di Taddeo Barberini, nipote di Urbano VIII), appena undicenne il M. si trasferì a Roma, stando a Giovan Pietro Bellori (fonte principe e mirabilmente dettagliata sul M., di cui fu intimo amico e interlocutore culturale privilegiato), a seguito degli incoraggiamenti ricevuti da parte di Andrea Camassei, che aveva avuto modo di apprezzare alcune prove grafiche del giovanissimo artista (pp. 574 s.). Nella città capitolina fu quindi ospitato dal fratellastro Bernabeo Francioni (pittore a sua volta, ma di nessuna fortuna): e colà si sarebbe svolta tutta l'esistenza del M. pressoché senza soluzione di continuità. Subito dopo il suo arrivo, probabilmente nello stesso 1636, egli entrò a far parte della prestigiosa bottega di Andrea Sacchi, presso la quale rimase sino alla morte del maestro nel 1661: e di questo ben presto il M. divenne il migliore collaboratore e seguace, al punto di meritare il soprannome di "Carluccio d'Andrea Sacchi". I primi anni romani del M. furono altresì caratterizzati da uno studio caparbio dei testi chiave del Rinascimento maturo, in primis le opere vaticane di Raffaello, esempio affatto ineludibile stante la sua immediata adesione al paradigma classicistico.
Alla maniera di Sacchi sono essenzialmente legate le opere di esordio del M., dipinte nel corso del quinto decennio, a cominciare dalla Nascita della Vergine per la chiesa di S. Chiara a Nocera Umbra, commissionata da Benincampi che era nativo di quella cittadina. Pur ispirata a una tela sacchiana di analogo soggetto databile intorno al 1628-29 (oggi conservata al Museo del Prado di Madrid), la pala d'altare si mostra già sorprendentemente sicura e autorevole. A essa fecero seguito la Gloria dei ss. Pietro, Paolo, Michele e Giacomo per il duomo di Monterotondo, commissionata da Taddeo Barberini prima del suo trasferimento in Francia, avvenuto al principio del 1646; la Madonna con Bambino e i ss. Monica, Agostino e Domenico per la chiesa parrocchiale del natio borgo di Camerano (ove per oltre un anno, in un lasso di tempo da collocare fra il 1646 e il 1649, il M. si risolse a soggiornare in conseguenza di gravi dissapori intercorsi con Bernabeo, che cercava di sfruttare per il proprio tornaconto il talento del fratellastro); gli affreschi su cartoni di Sacchi del battistero di S. Giovanni in Laterano raffiguranti Costantino ordina la distruzione degli idoli pagani e due Figure allegoriche a monocromo poste ai lati dello stemma di papa Innocenzo X Pamphili; e infine l'Adorazione dei pastori per la chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami, eseguita tra il 1650 e il 1651, prima opera ecclesiastica romana citata da Bellori e brillante preludio di un'ininterrotta teoria di commissioni, che ne avrebbe rapidamente sancito il primato sulla scena capitolina e il ruolo di arbitro del gusto artistico per oltre mezzo secolo.
Nelle opere eseguite entro la metà del secolo già si riconoscono gli ingredienti stilistici essenziali del linguaggio pittorico marattesco, in cui la sigla classicista sacchiana funzionava da componente di base arricchita da una trama di suggestioni tanto articolata quanto sapientemente governata. Si trovavano così a coesistere il modello universale e supremo dell'arte di Raffaello, una speciale ammirazione per il morbido luminismo del Correggio (Antonio Allegri), i riferimenti già canonici ad Annibale Carracci, Francesco Albani, Guido Reni e il Domenichino (Domenico Zampieri), un colorismo più sontuoso di marca neoveneta (che guardava soprattutto a Tiziano) e ponderate aperture in senso barocco, da modulare fra la maniera dominante di Sacchi e quelle di Pietro Berrettini da Cortona, Giovanni Lanfranco e del più giovane Giacinto Gimignani.
Da una commissione dell'erudito inglese John Evelyn, residente a Roma fra il 1644 e il 1645 (che durante il suo soggiorno nell'Urbe impegnò il M. in una serie di copie di opere celebri), scaturì l'unica incursione del pittore nel campo della natura morta, lampante dimostrazione, proprio agli esordi della sua attività autonoma, di completezza professionale e proprietà di stile su tutte le possibili tipologie di richiesta artistica. Di rigore compositivo impressionante, la piccola tela, imperniata su una croce poggiata su un libro, fu eseguita nel 1646 (collezione privata: ripr. in Rudolph, 1977, tav. 47). Di lì a qualche anno, subito dopo la metà del secolo, il M. diede anche avvio a un'attività di collaborazione, in qualità di pittore di figure, con specialisti nel paesaggio o nella natura morta: una nicchia del suo corpus decisamente alternativa alle grandi imprese "di storia" che gli guadagnarono fama e prestigio insuperabili, ma per la quale il M. dovette nutrire una genuina disposizione se non l'abbandonò mai nell'arco di tutta la sua carriera, e che nel tempo lo vide lavorare a fianco dei pittori di genere di più alto rango attivi a Roma lungo la seconda metà del Seicento: in primis, fra i paesaggisti, Gaspard Dughet, della collaborazione col quale sono testimonianza il Paesaggio con Didone ed Enea, Londra, National Gallery (eseguito verso il 1557-58 per uno dei suoi principali committenti di quadri "da camera", Paolo Francesco Falconieri), il Paesaggio con Diana e Atteone, Chatsworth, collezione del duca di Devonshire (eseguito per Lorenzo Onofrio Colonna), e il Paesaggio con Maria Maddalena, Madrid, Prado (tutte opere databili nella seconda metà del VI decennio). Fra i protagonisti della natura morta romana nella seconda metà del XVII secolo, spiccano le collaborazioni del M. con Mario Nuzzi detto "de' Fiori", e più tardi con Abraham Brueghel, Franz Werner Tamm (Putti e ghirlande di fiori, Parigi, Louvre, e Roma, palazzo Pallavicini) e Christian Berentz (Natura morta con donna che raccoglie l'uva, San Pietroburgo, Ermitage, del 1689, e Natura morta con fanciullo che porge un grappolo d'uva a una donna, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte, del 1696).
Della matura metabolizzazione del M. di una composita costellazione di riferimenti artistici, costituiscono una limpida testimonianza le opere principali eseguite nel sesto decennio, a cominciare dai dipinti realizzati tra il 1653 e il 1656 circa per la cappella dedicata a S. Giuseppe nella chiesa romana di S. Isidoro, il cui patronato era stato concesso a Flavio Alaleona. Questi morì nel 1653 lasciando all'avvocato Ercole Ronconi, suo amico ed erede, la responsabilità delle decorazioni pittoriche della cappella che non erano ancora state avviate.
Ivi il M. eseguì tre tele: lo Sposalizio della Vergine per l'altare maggiore (requisita nel 1798 da parte dei francesi durante l'occupazione di Roma, in esecuzione delle clausole del trattato di Tolentino, e sostituita in loco da una copia) e le due laterali, il Transito di s. Giuseppe (pure trafugata nella stessa circostanza e sostituita da una copia) e la Fuga in Egitto; due lunette ad affresco (il Sogno di s. Giuseppe e l'Adorazione dei pastori) e l'affresco della cupola con la Gloria di s. Giuseppe con angeli e santi. Le opere realizzate in S. Isidoro consentirono al giovane M. di mettere adeguatamente in luce tutto il superiore arsenale tecnico ed espressivo su cui poteva fare affidamento: e le fonti non mancano di registrare l'immediata risonanza suscitata da questo ciclo pittorico. In occasione di tale impresa ebbe inoltre origine il legame tra il M. e Bellori, come narrato dallo stesso erudito (p. 580), che presto sarebbe divenuto ammiratore, protettore e sorta di alter ego intellettuale del pittore. Alla cappella Alaleona seguirono nella stessa chiesa entro il 1657 i ricchi arredi pittorici della cappella del Crocifisso, di proprietà della principessa Costanza Ludovisi Pamphili. Questi consistevano nelle tele, anch'esse requisite nel 1798, che rappresentavano, sull'altare, la Crocifissione e, sulle pareti laterali, Cristo flagellato (Boston, Museum of fine arts) e la Salita al Calvario (di cui una replica si conserva a Roma, collezione Lemme), nonché gli affreschi delle due lunette (Orazione nell'orto e Incoronazione di spine) e della cupola (Trionfo della Croce). Quest'ultima opera, in particolare, si presenta tra le composizioni del M. più sbilanciate verso il fronte della decorazione barocca e fertilmente reattive rispetto ai modelli dell'arte di Gian Lorenzo Bernini e di Lanfranco.
La tela con S. Francesca Romana in adorazione della Madonna con Bambino, dipinta per la chiesa di S. Angelo Magno in Ascoli Piceno e databile al 1653-54, e la coeva S. Francesca Romana in lettura, oggi nella Pinacoteca civica della stessa città marchigiana, mettono in luce le ricerche, essenziali in questa fase dell'evoluzione del linguaggio pittorico marattesco, orientate nel senso della monumentalità compositiva e della brillantezza sotto il profilo coloristico: ricerche che qui, come pure nella rappresentazione potente e scultorea del S. Agostino e il mistero della ss. Trinità, del 1655-56 circa (Roma, S. Maria dei Sette Dolori), trovano i principali termini di confronto, accanto a Sacchi, nel Guercino (Giovan Francesco Barbieri) e Lanfranco. In queste opere impegnative, per quanto tutte significativamente imperniate su pochi personaggi, il M. si confermò una voce singolarmente autorevole nel proteiforme contesto romano. Si succedettero così, a un ritmo sempre crescente, commissioni prestigiose pubbliche e private, e partecipazioni nelle imprese collettive di maggiore rilievo.
È il caso della grande tela con Augusto che chiude le porte del tempio di Giano (Lille, Musée des beaux-arts, 1655-60 circa), commissionata da L. Phélypeaux de La Vrillière, che fu nominato segretario di Stato da Luigi XIV nel 1661, per la galleria del suo magnifico palazzo parigino, progettato da François Mansart. Il dipinto del M. era collocato tra La Sibilla annuncia ad Augusto la nascita di Cristo di Pietro da Cortona (Nancy, Musée des beaux-arts) e la Morte di Cleopatra e Marco Antonio di Alessandro Turchi (Parigi, Louvre), ma in tale impresa il M. si trovò a confronto anche con le opere di altri artisti di massimo spicco (Reni, Guercino e Nicolas Poussin), tutti alle prese con episodi della storia antica greca e romana, impegnati a concretizzare un raffinato progetto di gusto iperclassicista e paradigmaticamente "all'italiana".
Per volontà di papa Alessandro VII Chigi, il M. eseguì verso gli anni 1656-58 la Visitazione nella tribuna della chiesa romana di S. Maria della Pace (appena reduce dall'intervento architettonico di Pietro da Cortona) e contribuì nel 1657, con l'Adorazione dei pastori posta sulla parete di fondo, all'imponente fregio di affreschi della galleria del palazzo del Quirinale con scene del Vecchio e Nuovo Testamento.
Si tratta di una delle imprese pittoriche collettive di maggiore rilievo e risonanza eseguite a Roma nel sesto decennio del Seicento. Alessandro VII aveva pensato di affidare il ciclo al solo Pietro da Cortona, il quale però non ritenne d'impegnarsi direttamente nei lavori pittorici e si limitò ad assumerne la direzione, scegliendo gli artisti a cui affidare la decorazione delle pareti (tra gli altri, oltre al M., Pier Francesco Mola, Lazzaro Baldi, Guillaume Courtois detto il Borgognone, Ciro Ferri, Dughet). Le circostanze che portarono alla realizzazione della serie spiegano l'accento particolarmente cortonesco assunto dal M. in occasione di questo affresco.
Accanto alle commissioni Chigi, si moltiplicarono nella seconda metà degli anni Cinquanta gli impegni del M. nelle principali chiese romane.
Verso il 1656 eseguì in S. Marco, sull'altare della terza cappella di destra, la superba pala con l'Adorazione dei magi, e, nella cappella battesimale, le figure allegoriche della Prudenza e dell'Innocenza, ad affresco: opere realizzate su commissione di Niccolò Sagredo, ambasciatore di Venezia a Roma, nelle quali il M. mostra di confrontarsi strettamente con l'arte di Reni e François Du Quesnoy. Intorno agli anni 1656-58, dipinse il S. Bernardo sottomette l'antipapa Vittore IV a Innocenzo II in S. Croce in Gerusalemme, pala d'altare ordinata da Alberico Melzi, abate superiore del convento. Intorno agli anni 1657-60 il M. dipinse per il principe Maffeo Barberini, come pala votiva per la peste del 1656, la S. Rosalia tra gli appestati, destinata alla chiesa di Palestrina di S. Rosalia posta accanto al palazzo di famiglia (oggi nella collezione Corsini a Firenze). Al 1659 risale, infine, l'Annunciazione per la chiesa di S. Antonio Abate ad Anagni.
Questa sequenza pur tanto serrata di impegni ecclesiastici non indusse il M. a defilarsi dalla realtà delle commissioni private di tema pagano e di carattere più decorativo, a cominciare da quelle che lo vedevano all'opera in collaborazione con gli specialisti del paesaggio o della natura morta.
Ne sono testimonianza, a cavallo tra sesto e settimo decennio, le figure di Cerere con quattro putti nell'Estate dipinta nel 1659 con Mario de' Fiori per il palazzo Chigi di Ariccia (Rudolph, 1979, p. 12). L'opera fa parte del ciclo di Quattro stagioni commissionato dal cardinale Flavio Chigi, nel quale Nuzzi fu responsabile unico della componente naturamortistica, di volta in volta affiancato per la realizzazione delle figure, oltre che dal M., da Giacinto Brandi, Bernardino Mei e Filippo Lauri. Della stessa specie si deve considerare l'impegno nella mirabile e celebrata serie dei quattro grandi specchi dipinti dal M. intorno al 1660 per la galleria del palazzo Colonna, ancora in collaborazione con Mario de' Fiori e con il di lui allievo Giovanni Stanchi.
Lungo il settimo decennio del Seicento ebbe pieno compimento l'inarrestabile processo di affermazione sul mercato romano del M., che guadagnò l'ammirazione incondizionata, pressoché senza eccezioni, dei collezionisti e committenti più attivi e influenti, a partire dalle maggiori famiglie aristocratiche e dai più alti prelati. Per tutti costoro, il M. sarebbe divenuto per circa mezzo secolo il principale punto di riferimento artistico e sin quasi l'arbitro del gusto, incarnando in termini insuperabili il modello dell'artista accademico e liberale postvasariano: colto, distinto, perfettamente inserito nell'alta società e, non da ultimo, decisamente benestante.
Gli anni Sessanta si aprirono e si chiusero, del resto, con l'uscita di scena di due dominatori del contesto pittorico dell'Urbe, nonché capofila delle principali e contrapposte tendenze stilistiche dell'epoca, quella "classica" (che prediligeva gruppi di pochi personaggi, atteggiati in pose di studiato equilibrio) e quella "barocca" (ove si privilegiavano masse cospicue di figure in atteggiamenti spiccatamente dinamici): Andrea Sacchi, morto nel 1661, e Pietro da Cortona, morto nel 1669. In questa congiuntura di trapasso epocale, il M. fu l'unico che dimostrò le qualità adeguate - in termini di personalità, gusto, mestiere e affidabilità professionale - ad assumere la leadership rimasta vacante, e a mantenerla vieppiù saldamente nei decenni a seguire, ponendosi a capo di una bottega non meno efficiente che ampia, che avrebbe formato alcuni fra i più sicuri professionisti della scena romana tra la fine del XVII e i primi decenni del XVIII secolo (Giuseppe Chiari, Niccolò Berrettoni, Giacinto Calandrucci, Andrea Procaccini, Agostino Masucci, Giuseppe Passeri).
Al principio degli anni Sessanta il M. fu nuovamente all'opera nella chiesa romana di S. Isidoro, eseguendo nella cappella della Concezione la sontuosa tela ovale sull'altare, raffigurante l'Immacolata Concezione.
Il dipinto gli era stato commissionato da Rodrigo López de Sylva, ricco cittadino portoghese che si fregiava del titolo di cavaliere dell'Ordine di S. Giacomo di Compostella, il quale deteneva il patronato della cappella dal febbraio 1661. Il lavoro fu ultimato entro il 1663 che, come risulta da un'iscrizione posta sulla parete sinistra, segnò il termine degli spettacolari arredi della cappella, dovuti alla regia di Bernini pur se eseguiti prevalentemente dalla sua bottega: esempio mirabile, seppur minore, di "bel composto", frutto dell'interazione organica e calibratissima di architettura, scultura e pittura. Il M. tornò ancora una volta a confrontarsi col tema dell'Immacolata Concezione, stavolta sotto forma di Visione dei ss. Tommaso da Villanova e Francesco di Sales, dipingendo tra il 1663 e il 1667 una pala per la chiesa senese di S. Agostino su commissione di Agostino Chigi, nipote di papa Alessandro VII. Per la città toscana, nella prima metà del settimo decennio, il M. eseguì anche due importanti opere nel duomo: la Visitazione e la Fuga in Egitto (quest'ultima rimossa alla fine del XVIII secolo e sostituita da una copia a mosaico).
Il 27 ag. 1662 il M. fu ammesso all'Accademia di S. Luca. Nel 1664 il pittore fu per la prima volta eletto principe dell'importante istituzione, che qualche decennio più tardi si sarebbe legata a filo doppio alla sua autorità.
Nello stesso 1664, la terza domenica di maggio, Bellori lesse la celeberrima prolusione "L'idea del pittore, dello scultore e dell'architetto", manifesto delle tendenze classiciste che l'arte del M. incarnava in termini esemplari, e che di lì a un paio di decenni si sarebbe trasformato nell'introduzione teorica delle Vite de' pittori, scultori e architetti moderni. In essa (d'accordo coi postulati classicisti che nella letteratura artistica rinascimentale si trovavano sanciti, sotto l'egida ciceroniana, nei trattati di Leon Battista Alberti o nella lettera di Raffaello a Baldassarre Castiglione), antico e moderno, arte e natura venivano chiamati a cooperare equilibratamente in nome di quella selettiva idealizzazione che costituiva l'auspicato traguardo della creazione artistica. Il M. sarebbe stato nuovamente nominato principe dell'Accademia nel 1699, status che nel 1706, per volontà del pontefice, sarebbe divenuto perpetuo, anche se l'artista aveva chiesto in precedenza di essere sollevato da tale carica onorifica (per alleggerirlo dagli oneri legati all'attività ordinaria dell'istituzione, gli fu allora affiancato Francesco Fontana come vicepresidente). Si tratta di una gratificazione senza precedenti, che documenta irrefutabilmente l'insuperabile prestigio raggiunto dal pittore. Egli fu così in grado di imprimere il proprio marchio all'iter formativo accademico, definendo direttrici di principio indelebili per il futuro dell'istituzione, imperniate sull'universale autorità della statuaria greca e romana e della più eletta tradizione del maturo Rinascimento italiano, in primis Raffaello, armoniosamente coniugate col capillare e sistematico esercizio del disegno dal vero.
A partire dal 1666 il M. fu impegnato dal cardinale Antonio Barberini in un ciclo di tele dedicato agli Apostoli, che in origine era stato affidato a Sacchi (quasi tutti gli esemplari esistenti sono oggi conservati nella Galleria nazionale d'arte antica a Palazzo Barberini a Roma).
Prima della morte Sacchi fece in tempo a dipingere esclusivamente un S. Pietro; il resto dell'impresa passò così alla responsabilità del Maratti. Stando alle indicazioni che si ricavano da Bellori e dagli inventari barberiniani (Lo Bianco), il M. avrebbe eseguito altri otto, o nove, apostoli a figura intera e a grandezza naturale (ma a detta di Lione Pascoli, pp. 204 s., egli portò la serie a compimento), di cui sei tra la fine del 1666 e il principio del 1671, e altri due, o tre, per volontà del cardinale Carlo Barberini, tra il 1696 e il 1701. Derivati dagli Apostoli barberiniani risultano i disegni approntati dal M. per il ciclo dei colossali Apostoli in marmo nelle edicole dei pilastri della navata centrale di S. Giovanni in Laterano. Iniziato nel 1701, ed eseguito fra gli altri da Camillo Rusconi, Pierre-étienne Monnot, Pierre Legros, il ciclo fu ultimato pochi anni dopo la morte del pittore.
Verso la fine del decennio il M. fu ancora all'opera per Antonio Barberini, realizzandone il sontuoso ritratto a figura intera oggi nella Galleria nazionale d'arte antica di Palazzo Barberini a Roma. Il cardinale (che sarebbe morto nel 1671) vi appare fregiato della croce dell'Ordine di Santo Spirito che aveva ricevuto in Francia durante il suo esilio fra il 1645 e il 1653. Più o meno contemporaneamente, si concentra una serie di imprese pittoriche realizzate dal M. per la famiglia Altieri.
Databile al 1669-70 circa è la tela raffigurante il Miracolo di s. Filippo Benizzi, nel salone al piano nobile di palazzo Altieri. L'opera fu commissionata dal generale dell'Ordine dei serviti per volontà di Clemente IX Rospigliosi in prossimità della canonizzazione del beato Filippo Benizzi, che avvenne nel 1671 durante il pontificato di Clemente X Altieri, al quale il dipinto fu donato. Seguì, nel 1672, la pala con S. Pietro presenta alla Vergine cinque nuovi santi: Luigi Beltrame, Rosa da Lima, Filippo Benizzi, Francesco Borgia, Gaetano da Thiene (tutti canonizzati nel 1671 da Clemente X), per l'altare della cappella Altieri di S. Maria sopra Minerva. Infine l'affresco con l'Allegoria della Clemenza (soggetto che faceva riferimento al nome del pontefice) per il salone dell'udienza di palazzo Altieri, che fu realizzato intorno agli anni 1673-75 secondo un programma iconografico definito da Bellori. Si tratta dell'unico effettivo contributo del M. alla grande voga decorativa delle volte affrescate barocche, nonché di un'opera topica per la definizione di una poetica capace d'incarnare compiutamente l'ideale norma classicista, costituendo quasi una risposta all'invenzione visionaria e straripante espressa dal Baciccio (Giovan Battista Gaulli) sulla volta del Gesù. Dell'affresco del M. esistono due bozzetti alternativi, di proprietà dell'Associazione banche italiane, pure conservati in palazzo Altieri. Lo stesso Bellori c'informa che la decorazione del salone avrebbe dovuto comprendere anche lunette e peducci, che non furono mai realizzati ma per i quali il M. aveva predisposto i disegni preparatori, e che a tale scopo, finito l'affresco della volta, erano stati lasciati in piedi i ponteggi (pp. 597 s.).
A questo medesimo periodo risalgono alcuni capolavori della produzione ritrattistica del M., a cominciare dal Clemente IX Rospigliosi, firmato e datato 1669 (anno di morte del ritrattato), della Pinacoteca Vaticana, che può essere utilmente raffrontato col pur mirabile ritratto del papa eseguito dal Baciccio, conservato nella Galleria nazionale di arte antica a Palazzo Barberini a Roma.
Per efficacia realistica, minuziosità d'esecuzione, perfetto equilibrio di contegno ed espressività, calibrata interazione fra piano introspettivo ed esibizione del carattere pubblico, e naturalmente per splendore pittorico, la tela del M. (di cui esiste una replica autografa all'Ermitage di San Pietroburgo) si colloca accanto ai capolavori di Antonie Van Dyck e Diego Velázquez in un'ideale tavola alta del ritratto seicentesco di uomini potenti. Ma l'effigie dell'amico Giovan Pietro Bellori, Roma, collezione privata (ripr. in L'idea del Bello, p. 492), databile all'incirca al 1672-73, illustra le non minori qualità del M. anche sul versante di una più asciutta ritrattistica "borghese".
Per quanto riguarda le opere ecclesiastiche, si situano sempre nella prima metà dell'ottavo decennio la Madonna con i ss. Francesco di Sales, Nicola di Bari e Ambrogio, dipinta nel 1672 per l'altare maggiore della chiesa anconetana di S. Nicola (oggi Ancona, Pinacoteca comunale), la Madonna col Bambino tra i ss. Carlo Borromeo e Ignazio, commissionata nel 1672 dal marchese Orazio Spada per la cappella di famiglia in S. Maria in Vallicella ma consegnata dal M. solo nel 1679, e la Morte di s. Giuseppe (Vienna, Kunsthistorisches Museum), datata 1676, commissionata dall'imperatrice Eleonora Gonzaga Nevers per l'altare della sua cappella privata nella Hofburg, a Vienna.
Tra il 1677 e il 1685, il M. eseguì parte dei cartoni con soggetti dell'Antico Testamento per i mosaici delle lunette e dei pennacchi della cappella delle Presentazioni in S. Pietro, impresa che egli avrebbe ultimato negli anni 1705-08, con l'ausilio di Giuseppe Chiari. Nel 1679 consegnò la Morte di s. Francesco Saverio, commissionata dal cardinale Giovanni Francesco Negroni per il proprio altare del transetto destro della chiesa del Gesù, dianzi ultimato sulla base di un disegno predisposto da Pietro da Cortona: un'opera che dimostra una certa reattività nei confronti della maniera, oltre che di Bernini, anche del "rivale" Baciccio. In quegli anni, peraltro, i due artisti si trovarono a lavorare entrambi per la chiesa di S. Andrea al Quirinale, uno tra i vertici dell'architettura berniniana: il Baciccio con una tela pure raffigurante la Morte di s. Francesco Saverio e il M. nell'Apparizione della Madonna col Bambino a s. Stanislao Kotska, commissionata nel 1679 e consegnata dal pittore nel 1687.
Nello stesso periodo il M. licenziò anche una serie di opere di tema mitologico per committenti di primissimo piano seppur di diverso lignaggio: intanto gli affreschi con la Nascita di Venere e le lunette sottostanti, dipinti con l'ausilio dell'allievo Niccolò Berrettoni per Paolo Francesco Falconieri sul soffitto d'ingresso della sua villa di Frascati (gravemente danneggiati dal bombardamento dell'8 sett. 1943); il Ratto d'Europa (Dublino, National Gallery of Ireland) eseguito all'incirca contemporaneamente per il cardinale Paolo Savelli (in coppia con un'Arianna oggi irreperibile). Nel 1681, infine, il M. dipinse per Luigi XIV, su incarico di Jean-Baptiste Colbert, l'Apollo e Dafne oggi nei Musées royaux des beaux-arts di Bruxelles. L'opera gli fece ottenere, in aggiunta a una lauta ricompensa, la nomina a "peintre du roi" di Francia, e mostra una preziosa e inedita approssimazione al gusto dell'Arcadia (e dell'omonima accademia romana, di cui il M. sarebbe divenuto membro nel 1704).
La morte di Bernini nel 1680 rese ancor più nitida e incontrastata la supremazia del M. sulla scena romana, che non fu messa in crisi neppure da un graduale rallentamento della sua attività pittorica (in particolare sul fronte delle commissioni ecclesiastiche) rilevabile a partire dall'inizio dell'ultimo decennio del Seicento.
Giocò un ruolo non trascurabile per la crescita inarrestabile della fortuna del M. anche la sapiente promozione e diffusione del proprio prodotto attraverso lo strumento privilegiato dell'incisione. Come indicano tutte le fonti, infatti, grazie a una squadra di impeccabili professionisti da lui adeguatamente controllati, il M., che era stato egli stesso in gioventù buon incisore, garantì con continuità e sollecitudine la traduzione a stampa delle sue opere più importanti o meglio riuscite sotto il profilo dell'invenzione compositiva.
Per volontà del cardinale Alderano Cibo - che in passato aveva commissionato al pittore l'Immacolata Concezione del 1655 (Potsdam, Sanssouci) e il proprio Ritratto (Marsiglia, Musée des beaux-arts) di poco successivo - furono compiuti due tra i dipinti più importanti eseguiti dal M. nel corso degli anni Ottanta.
Si tratta della monumentale, studiatissima e un po' algida Madonna Immacolata tra i ss. Giovanni Evangelista, Gregorio, Giovanni Crisostomo e Agostino, realizzata a olio su muro nel 1686 sull'altare maggiore della cappella Cibo di S. Maria del Popolo (uno dei vertici del tardo barocco romano, nel suo magniloquente e sontuoso equilibrio di pittura, scultura e arti decorative sotto la regia architettonica di Carlo Fontana), e della contemporanea Morte della Vergine (Roma, villa Albani), che presenta come principale termine di riferimento la pittura di Poussin, caratterizzandosi per la composizione ponderatissima e il tenore emotivo nobilmente contegnoso. Per un altro dei suoi principali ammiratori e collezionisti, il ricco banchiere Francesco Montioni, il M. dipinse nel 1687 la Madonna col Bambino e i ss. Francesco e Giacomo Maggiore, destinata all'altare della cappella di famiglia in S. Maria di Montesanto; intorno al 1685 il M. ricevette dal cardinale Alvigi Omodei la commissione della Gloria dei ss. Ambrogio e Carlo, monumentale pala dell'altare maggiore della chiesa di S. Carlo al Corso, che venne inaugurata solo il giorno della festa del Santo dell'anno 1690. Per il marchese Niccolò Maria Pallavicini, ricchissimo banchiere anch'egli tra i suoi committenti maggiori, il M. dipinse il Romolo e Remo, conservato a Potsdam, Sanssouci, che, pur richiesto nel 1680, fu ultimato solo nel 1692.
Nel corso degli anni Novanta, solo poche tra le opere di destinazione ecclesiastica uscite dal suo atelier possono essere considerate totalmente o largamente autografe.
Sono la Madonna del Rosario, Palermo, oratorio di S. Zita, commissionata dalla Confraternita del Rosario ed eseguita nel 1695; e il Battesimo di Cristo (Roma, S. Maria degli Angeli), dipinto per volontà di papa Innocenzo XII tra il 1696 e il 1698 e destinato all'altare maggiore della cappella battesimale di S. Pietro in Vaticano (architettura dovuta a Carlo Fontana). Nel 1730 la tela fu trasferita dalla sede originaria in quella attuale e colà sostituita con una copia a mosaico, ultimata nel marzo 1734 da Pietro Paolo Cristofari.
In effetti, nelle opere realizzate negli ultimi anni del Seicento iniziò a divenire abituale un ricorso agli aiuti che nel giro di qualche anno sarebbe divenuto preponderante, quantunque attraverso i propri disegni preparatori il M. non abbia mai fatto venir meno il supporto di un rigore progettuale e di una scienza compositiva che seppero salvaguardare lo standard del marchio di fabbrica. Accanto a tale rallentamento del proprio impegno diretto nelle opere pittoriche, dovuto in primis all'avanzare dell'età (e al tremolio delle mani conseguente: Pascoli, p. 207), il M. riservò un'attenzione crescente verso quelle ulteriori attività artistiche che contribuirono a sancirne il ruolo di sovrano dello stile classico e principe del gusto. Si moltiplicarono, dunque, i suoi disegni destinati a imprese scultoree e architettoniche (Monumento funebre di Innocenzo XI, realizzato da Pierre-étienne Monnot nel 1701 in S. Pietro; i summenzionati Apostoli per S. Giovanni in Laterano; il proprio monumento funebre in S. Maria degli Angeli, eseguito nel 1704 da Francesco Moratti), e assunse un peso e un significato strategico crescenti la sua attività di autorevole e ammirato restauratore.
Tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII secolo il M. fu così incaricato di intervenire su alcune delle opere simbolo della pittura italiana del Cinquecento. Restaurò dunque gli affreschi carracceschi di palazzo Farnese, e a più riprese lavorò insieme con i suoi collaboratori sui capolavori romani di Raffaello: dapprima gli affreschi della Farnesina e poi, nel 1693 e tra il 1702 e il 1703, le stanze vaticane (sulle quali, unitamente alle logge, esercitava dai tempi di Innocenzo XI un compito di custodia e sovrintendenza). Il 24 apr. 1704 papa Clemente XI Albani insignì il M. (di cui era vecchio ammiratore e collezionista), con una cerimonia solenne in Campidoglio, del titolo di cavaliere di Cristo: "Con annuale pensione di trecento scudi, e fu il sesto Pontefice con cui Carlo trattò familiarmente" (Pascoli, p. 206). In più occasioni il M. esibì il titolo di "eques" nella firma delle sue opere successive, e vestì l'attributo della croce di cavaliere nell'autoritratto in compagnia delle tre Grazie incluso nel celebre Ritratto allegorico del marchese Niccolò Maria Pallavicini (Stourhead, Wiltshire, The National Trust), sotto molti rispetti uno dei vertici della sua produzione (terminato intorno al 1699 e ritoccato verso il 1706: Rudolph, 1995, pp. 75-80). Il coevo Autoritratto con figure allegoriche, Bruxelles, Musées royaux des beaux-arts, fotografa con efficacia non meno lampante il prestigio e l'autostima che contraddistinguevano la personalità del M. in questa fase apicale della sua carriera. Lo stesso Clemente XI fece del M. il proprio interlocutore artistico privilegiato e il principale tramite (nonostante la ridotta efficienza, ma grazie al suo atelier sempre più affidabile e rodato) dell'ambizioso progetto di renovatio Urbis che intese porre in atto nel corso del suo lungo pontificato (Id., 2001).
D'altro canto, grazie a un benessere economico che non aveva termini di paragone né fra gli artisti del passato né fra i contemporanei (e di cui era eloquente testimonianza il palazzetto di proprietà nel quale abitava, nei pressi di palazzo Barberini), il M. poté liberare le briglie alla propria passione collezionistica. Giunse, così, a mettere insieme un quantitativo imponente di dipinti, disegni e incisioni, al quale contribuì anche la seconda moglie Francesca Gommi, tale da far supporre da parte dei coniugi un'attività parallela di mercanti d'arte. Da Francesca Gommi, che fu ritratta più volte dal M., il pittore aveva avuto nel 1679 la figlia Faustina (che sarebbe diventata una celebre poetessa); ma la coppia poté sposarsi, dopo decenni di unione more uxorio, solo sul finire del 1700, a seguito del decesso della prima consorte, con la quale il M. aveva cessato di convivere già nel 1659.
Come risulta dai dettagliati inventari redatti nel giugno 1711 e nell'aprile 1712, nell'abitazione del M. si trovavano, tra gli altri, dipinti di Raffaello e di tutti i suoi allievi principali, di Correggio, Tiziano, Annibale Carracci, Domenichino, Lanfranco, Pieter Paul Rubens, Mario de' Fiori, Sacchi, Pietro da Cortona, Poussin: una mappa pressoché completa dei gusti figurativi del pittore (Bershad, pp. 68-84). La gran parte della collezione dei coniugi Maratti, insieme con la somma enorme di più di 40.000 scudi e con "un grosso volume di stampe di quasi tutte le sue opere, e la maggior parte de' rami" (Pascoli, p. 208), passò in eredità a Faustina, la quale nel 1722 la vendette in blocco a Filippo V di Spagna per la cifra decisamente cospicua di 17.000 scudi. Della figlia il M. sul finire del secolo dipinse un bel Ritratto (noto pure come Allegoria della Pittura), oggi conservato alla Galleria nazionale d'arte antica a Palazzo Corsini a Roma. La Sacra Famiglia con s. Giovannino su rame, del Kunsthistorisches Museum di Vienna, datata 1704 accanto allo stemma cardinalizio della famiglia Ottoboni, e la Sacra Famiglia (o La lezione di lettura), dell'anno seguente, all'Ermitage di San Pietroburgo, incarnano, nella loro grazia e semplicità, l'ultimo stadio di evoluzione del linguaggio marattesco, testimoniato ormai solo dalle opere di piccolo formato. Per contro, l'Assunta per la cappella della Concezione del duomo di Urbino (eseguita con l'ausilio di Giuseppe Chiari e, seppur datata 1707, da questo condotta a perfezione solo nel 1726), ma ancor più il Battesimo di Cristo per la certosa di S. Martino a Napoli, del 1710, e la Madonna col Bambino e santi della chiesa torinese di S. Filippo Neri stanno a rappresentare quelle estreme imprese pubbliche del M. nelle quali la realizzazione era ormai affidata soprattutto ai suoi collaboratori.
Nel 1711 morì Francesca Gommi; il M. due anni dopo a Roma il 15 dic. 1713.
Le sue spoglie furono onorate con incredibile sfarzo e partecipazione. Un testimone illustre documentò come al funerale, "oltre alla gran parte della gente si romana che forestiera, concorsero anche molte signore e principesse, principi e prelati, coi nipoti di Sua Santità. Che, uniti tutti agl'Accademici di San Luca, fecero una sì pomposa mostra in tal funzione che più nobile non poteva farsi per ogn'altro meritevole personaggio" (Baldinucci, p. 305).
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