Carlo Matteucci
L’attività di ricerca di Matteucci si collocò nella scia delle esperienze compiute da Alessandro Volta, Luigi Galvani e Leopoldo Nobili (1787-1835), in relazione soprattutto agli esperimenti sull’elettricità presente nei muscoli delle rane e delle torpedini. Si avvalse di buoni rapporti con i ricercatori inglesi e francesi per compiere e pubblicare su riviste straniere studi di elettrologia collegati al sistema nervoso. Affermatosi come l’iniziatore della elettrofisiologia, vide però il suo primato duramente contestato dal tedesco Emil Du Bois-Reymond (1818-1896).
Carlo Matteucci nacque a Forlì – città delle Legazioni pontificie, allora sotto la dominazione francese – il 20 giugno 1811, da Vincenzo e da Chiara Folfi. Dal padre, medico, apprese le prime tecniche di ricerca che, avvalendosi di strumenti rudimentali, portò avanti prima e dopo il conseguimento della laurea in fisica presso l’Università di Bologna (1828). Per un anno proseguì gli studi alla Sorbona (ottobre 1829-30), dove stabilì rapporti con la ricerca francese, in particolare con François-Jean-Dominique Arago (1786-1853) e con Antoine-César Becquerel (1788-1878); riuscì in tal modo ad avere accesso a prestigiose riviste scientifiche e a pubblicarvi numerose memorie contenenti i risultati delle sue osservazioni sull’elettricità presente nei muscoli degli organismi animali e sui suoi effetti sulla fisiologia. Nel 1840, grazie a una segnalazione di Alexander von Humboldt (1769-1859), ottenne la cattedra di fisiologia sperimentale presso l’Università di Pisa. Attraversava allora la fase più intensa dei suoi studi: la Toscana gli mise a disposizione i laboratori più attrezzati e un clima favorevole alla ricerca scientifica. In breve la posizione accademica enfatizzò la centralità del suo ruolo anche come organizzatore culturale, mettendolo in condizione di fondare nel 1844, con Raffaele Piria (1814-1865), Ottaviano Fabrizio Mossotti, Leopoldo Pilla, Paolo e Pietro Savi, la rivista «Il Cimento» (dal 1855 «Il Nuovo Cimento»).
Dopo le rivoluzioni del 1848-49, pur non abbandonando la ricerca, fu sempre più preso dalle questioni politiche, cui approdò con simpatie per il federalismo giobertiano e ambizioni da mediatore messe alla prova – ma non sempre felicemente – negli anni di costruzione dell’unità nazionale, pur senza credere alla soluzione unitaria. Ciò nonostante, nel 1862 entrò come ministro dell’Istruzione nel governo di Urbano Rattazzi, con il quale cercò di attuare una più razionale organizzazione degli studi universitari. Fu poi vicepresidente del Consiglio superiore dell’Istruzione (dal 6 novembre 1864), senza tuttavia poter realizzare i suoi progetti di riforma. Con il passaggio della capitale a Firenze, vi si trasferì per assumere la direzione del prestigioso Istituto di studi superiori, presso il quale nel 1868 fu nominato titolare della cattedra di fisica. Morì a Livorno il 24 giugno 1868.
Dopo essere stato chirurgo militare al tempo della Repubblica Cisalpina, il padre di Matteucci aveva preso servizio nell’ospedale cittadino. L’ambiente familiare fu dunque determinante per stimolare i primi studi scientifici ai quali il giovane si appassionò ancor più negli anni del ginnasio forlivese, sotto la guida di alcuni validi docenti. Filosofia e matematiche furono appunto le discipline che studiò dopo che nel 1825 venne iscritto ai corsi del secondo anno presso l’Università di Bologna, dove fu seguito in particolare da Francesco Orioli (1785-1856), un rinomato fisico il quale, oltre che come professore, si era segnalato come esponente di una ristretta cerchia di docenti liberali impegnati su una linea politica riformatrice puntualmente disattesa dal governo papale e anzi sottoposta spesso a misure repressive (tanto che dopo la rivoluzione del 1831 Orioli fu costretto all’esilio). Il primo lavoro di Matteucci, Cenni sulla influenza dell’elettricità nella formazione delle prime meteore acquee (1827), apparso quando egli aveva 15 anni, metteva già in luce quello che sarebbe stato il suo primo settore di ricerca.
Dopo aver conseguito la laurea in fisica il 7 aprile 1828, e dopo un breve ritorno nella città natale che gli rivelò la povertà di strutture e di mezzi di cui poteva disporre per i suoi studi, nell’ottobre del 1829 si trasferì a Parigi per frequentare i corsi dell’École polytéchnique alla Sorbona (con qualche interesse parallelo per i corsi di storia di François Guizot). Tale scelta gli permise di entrare in contatto con alcuni personaggi di rilievo della ricerca scientifica in Francia (primo fra tutti Arago) e di approfondire le indagini sull’elettricità, in particolare su quella presente negli organismi animali, oggetto nel 1830 di un saggio Sulla contrazione provata dagli animali all’aprirsi del circolo elettrico in che trovansi. Osservazioni. La linea di ricerca cui si appassionò era quella aperta alcuni decenni prima dagli esperimenti di Alessandro Volta e di Luigi Galvani: si propose di perfezionarla dedicandosi soprattutto alla conoscenza degli effetti fisiologici dell’elettricità, in particolare di quella muscolare: lo muoveva un’intuizione che era già stata di Galvani, e cioè che «l’impulso nervoso è un fenomeno di natura elettrica» (G. Cimino, Neurofisiologia e neuroistologia, in Storia della scienza, Istituto della Enciclopedia Italiana, 7° vol., L’Ottocento, 2003, p. 768); suo merito fu anzitutto quello di sviluppare tale concetto, aprendo così la strada alla nascita dell’elettrofisiologia.
Tornato in patria nel 1830, se ne allontanò nel 1834 dopo che la rivoluzione del 1831 aveva aperto una stagione di cospirazioni e repressioni poco adatta alla serenità degli studi e al suo carattere, che le fonti definiscono scontroso e irascibile. Passò dunque a Firenze dove trovò nel Museo di fisica e storia naturale, e in Nobili che vi insegnava fisica, l’ambiente giusto per la prosecuzione dei suoi lavori, ora orientati anche a esperienze sull’arco voltaico le quali, assieme a quelle sull’azione delle correnti elettrolitiche nelle reazioni chimiche, lo fecero notare da von Humboldt. Viste però deluse le proprie aspettative di succedere a Nobili sulla cattedra di fisica, nel 1835 Matteucci tornò a Forlì adattandosi per qualche anno, a partire dal 1837, a dirigere la spezieria e il laboratorio chimico-farmaceutico dell’ospedale ravennate di S. Maria delle Croci. Si trattò di un ripiego, dal momento che in precedenza il tentativo di creare un’industria chimica di produzione di colle e concimi aveva avuto esito negativo, ma fu un ripiego che lo mise in condizione di disporre di un apparato scientifico mediocre, e allo stesso tempo capace di placare almeno in parte la sua sete di conoscenza. Secondo una testimonianza di Gino Capponi (1792-1876), suo amico di una vita, «dello scienziato Matteucci aveva questo, che l’ingegno suo di continuo lo portava a fare esperienze sopra gli uomini, sopra alle cose e sopra a se stesso» (Bianchi 1874, p. 45).
Gli anni tra il 1836 e il 1844 furono i più fecondi per l’attività di Matteucci, autore in questo periodo di una lunga serie di articoli che, accolti in importanti riviste straniere, quali gli «Annales de chimie et de physique», i «Comptes rendus hebdomadaires des séances de l’Académie des sciences» di Parigi, la «Bibliothèque universelle de Genève» e le «Philosophical transactions of the Royal society of London», sottoponevano al vaglio della comunità scientifica internazionale le procedure e i risultati dei suoi esperimenti. Alla base c’era il Discorso sul metodo razionale scientifico, pubblicato da Matteucci nel 1835 per esporre i principi di un’indagine che, come la sua, puntava a mettere a frutto i rapporti tra discipline quali la chimica, la fisica e la fisiologia. Funzionale all’esecuzione degli esperimenti erano lo spirito d’osservazione e l’ingegnosità di Matteucci che, lavorando in un primo tempo in un locale della propria abitazione forlivese e poi nel laboratorio dell’ospedale di Ravenna, si avvaleva di strumenti da lui stesso costruiti, quali, ad es., una pila formata da muscoli di rana collegati fra loro. Il carattere artigianale di questi strumenti rendeva abbastanza precarie le sue rilevazioni e ne penalizzava la stessa portata innovativa. Al centro della sua ricerca restava, comunque, lo studio dei fenomeni provocati dalla presenza di elettricità nei muscoli striati degli organismi animali (Essai sur les phénomènes électriques des animaux, 1840): fondamentali, in tal senso, le sue Expériences de M. Matteucci sur la torpille, illustrate nei «Comptes rendus» del 1836 (t. 3, pp. 430-31), seguite l’anno dopo dalle Nouvelles expériences sur la torpille, sempre sulla stessa rivista (t. 5, pp. 501-504: l’encefalo delle torpedini, da lui indagate direttamente sui pescherecci a Cesenatico, era individuato come l’organo dal quale partono le scariche elettriche). Indagini analoghe furono da lui condotte sulle contrazioni muscolari della rana e poi descritte in vari articoli, tutti in francese, quali: Sur le courant électrique ou propre de la grénouille («Annales de chimie et de physique», 1838, t. 68, pp. 93-106); Recherches sur le courant électrique de la grénouille et sur celui des animaux à sang chaud («Comptes rendus hebdomadaires des séances de l’Académie des sciences», 1842, t. 14, pp. 310, 315), volto a evidenziare la presenza di elettricità di origine biologica nel muscolo striato della rana e la differenza di potenziale, in quello a riposo, tra la parte lesa e la parte intatta, per cui, se opportunamente stimolato con un ridotto potenziale elettrico «l’esterno del muscolo libera una forza elettromotrice opposta a quella liberata dall’interno del muscolo stesso» (Storia della scienza moderna e contemporanea, 2° vol., t. 2, 1988, p. 871); Sur le courant électrique des muscles des animaux vivants ou récemment tués («Comptes rendus», 1843, t. 16, pp. 197-200), condotto in collaborazione con von Humboldt. Ne sarebbe derivato un contributo pionieristico alla comprensione dei fenomeni fisici del sistema nervoso di tutti gli esseri viventi.
Il giovane Matteucci si distinse soprattutto per la capacità di comunicare a scienziati di gran parte dell’Europa gli scritti che illustravano le sue esperienze. Gli interessava entrare in contatto con ricercatori che gli avrebbero consentito di portare i propri interessi fuori dall’asfittico e arretrato ambiente italiano, da lui guardato, peraltro, con una certa sufficienza. Tuttavia fu proprio nel campo degli studi di elettrofisiologia che gli toccò di dover subire – e proprio da uno straniero – gli attacchi sempre più stizziti di un altro esperto, il tedesco Du Bois-Reymond. Questi, oltre a verificare puntigliosamente i risultati dei suoi esperimenti e a contestargli il primato e l’originalità in quel tipo specifico di ricerca, lo accusò animosamente di essersi basato essenzialmente sugli aspetti fisici più che su quelli elettrofisiologici dell’elettricità animale, di aver mancato di sistematicità e, in definitiva, di aver ben poco contribuito allo sviluppo di quella branca del sapere. La realtà è che Matteucci, pur capace di grandi intuizioni, forse per mancanza di strumenti adeguati non sempre aveva saputo inquadrare nel modo più corretto la portata delle sue scoperte e spesso nella valutazione dei fenomeni da lui osservati era caduto in qualche contraddizione: di qui i giudizi quanto meno perplessi anche di alcuni ricercatori italiani (Guglielmo Libri, Antonio Pacinotti, Francesco Puccinotti).
La sua vasta produzione, culminata nel Traité des phénomènes électro-phisiologiques des animaux (1844), ripresa e completamento di un precedente Essai sur les phénomènes électriques des animaux (1840), fu in ogni caso considerata in genere così valida da meritargli, oltre ad alcuni riconoscimenti internazionali non certo secondari (1842: premio dell’Académie des sciences di Parigi per gli studi sulla fisiologia sperimentale; 1848: medaglia Copley della Royal society di Londra, dove nel 1844 aveva presentato i propri esperimenti sull’elettricità animale trovando l’apprezzamento di un’autorità quale l’inglese Michael Faraday), la cattedra di fisiologia sperimentale nell’Università di Pisa (1840). Era stato proprio von Humboldt che alla morte del titolare, Ranieri Gerbi (1763-1839), aveva fatto il suo nome al granduca di Toscana Leopoldo II di Asburgo Lorena, all’epoca molto interessato a rafforzare il settore scientifico dell’insegnamento universitario attraverso il reclutamento di giovani studiosi di provato valore provenienti da ogni parte d’Italia, e ciò ai fini di un potenziamento del rapporto tra ricerca scientifica, sfruttamento delle risorse e produzione di beni materiali, da cui sperava di incrementare la ricchezza dello Stato. Rispose bene alle attese del governo toscano, che lo chiamò a tener lezione anche nel Museo di fisica di Firenze. Dal 1845, anno in cui sposò l’inglese Robinia Young, figlia di un noto fisico, si dedicò a un altro tipo di ricerca, più vicino alla fisica: studiò, tra l’altro, la polarizzazione dei coibenti e la propagazione dell’elettricità nei corpi isolati.
Anche se tra il 1849 e il 1859 pubblicò circa 180 memorie, la permanenza in Toscana e la vicinanza a uomini come Capponi, Giovan Pietro Vieusseux (1779-1863) e Cosimo Ridolfi (1794-1865) lo sensibilizzarono sempre più alle questioni politiche, a scapito di una piena dedizione all’attività sperimentale. Inoltre, le amicizie sapientemente coltivate e comunque ben supportate dal suo profilo di scienziato consentirono la sua cooptazione nel consiglio d’amministrazione della società anonima della miniera di carbone di Montebamboli (1841) e l’incarico di direttore delle linee telegrafiche toscane che il granduca Leopoldo II gli conferì nel 1846. Finché aveva vissuto nel territorio pontificio in cui era nato aveva evitato di esporsi pubblicamente; l’aria della Toscana lo rese sensibile agli ideali di indipendenza nazionale e lo attestò sulla linea del programma federalistico giobertiano. Anche per Matteucci, tendenzialmente un moderato, tra gli obiettivi del momento c’era senz’altro la Costituzione. Nel 1848 si aggregò ai volontari pisani partiti per la guerra in Lombardia come commissario civile e inviato al campo del re di Sardegna Carlo Alberto, in rappresentanza della Toscana.
Matteucci ambiva infatti a ruoli di rappresentanza che lo introducessero nelle corti e pertanto fu lieto di essere incaricato dal governo granducale (al potere c’era Capponi) di un’inutile missione ufficiosa in Germania come osservatore presso l’Assemblea nazionale di Francoforte. L’anno dopo, quando Leopoldo II raggiunse il pontefice Pio IX nell’esilio di Gaeta, fece parte di una deputazione inviata al sovrano per convincerlo a tornare a Firenze, così da risparmiare al Paese un intervento militare austriaco e salvarne gli ordinamenti costituzionali. Poco prima si era invano offerto di intervenire anche sul papa – in cui aveva creduto – affinché lo si restituisse a Roma e all’amore dei suoi sudditi. A tanto attivismo non corrispose altro che la soddisfazione di vivere da protagonista un momento storico.
Non molto diverso fu il suo comportamento nel 1859, ancora una volta nella persuasione che non l’unità ma la federazione dovesse essere lo sbocco della lotta nazionale per l’indipendenza. Si considerava ormai un toscano d’adozione e, come altri esponenti della classe politica granducale, era convinto che la Toscana dovesse conservare la propria autonomia. Purtroppo per lui, a credere profondamente nell’unità c’era a Firenze Bettino Ricasoli che, per sbarazzarsi di lui e delle sue insistenze, lo mandò in missione a Parigi, con esiti non dissimili da quelle affidategli in precedenza. Il copione si ripeté nel 1860, in occasione della spedizione militare piemontese organizzata da Cavour con il consenso dell’imperatore dei francesi Napoleone III per bloccare un eventuale assalto di Giuseppe Garibaldi al potere temporale del papa. Diventato senatore il 18 marzo 1860, si propose come mediatore per una soluzione indolore della Questione romana che salvaguardasse l’indipendenza della Chiesa. Per ottenere credibilità scrisse al papa, a qualche cardinale, agli amici gesuiti, al principe Napoleone, ma Cavour fu irremovibile e, lungi dal ricorrere ai suoi servigi, portò avanti l’iniziativa che avrebbe consentito di annettere al nascituro Regno d’Italia i domini pontifici delle Marche e dell’Umbria.
A distanza di circa un anno Matteucci si prese una piccola rivincita consegnando alla stampa la lettera che gli era stata inviata il 2 agosto da Massimo d’Azeglio nella quale criticava la soluzione unitaria sostenendo che, se i meridionali non ne erano entusiasti e costringevano l’esercito regio a presidiare le loro terre, non li si poteva prendere a fucilate. La pubblicazione della lettera fece molto scalpore e sulle prime tolse agli occhi dell’opinione pubblica una parte di credibilità alla lotta che lo Stato stava combattendo contro il brigantaggio.
L’episodio, per quanto significativo, non interruppe però la scalata di Matteucci ai posti di vertice. Dovette infatti aspettare solo pochi mesi prima di ottenere, nel marzo del 1862, un importante incarico ministeriale con il governo di Rattazzi. Ministro della Pubblica istruzione, per l’occasione non ebbe problemi a far suo il centralismo liberale cui s’ispirava la linea di governo della Destra storica. In verità, già il 5 giugno 1861 egli aveva presentato in Senato un progetto di legge sul riordinamento dell’istruzione superiore secondo una logica accentratrice che prevedeva si destinassero energie umane e finanziarie a poche grandi università. Come ministro riprese con spirito dirigistico il proprio progetto, ma non lo ripropose. Emanò, invece, con regio decreto un Regolamento, datato 14 settembre 1862, che lo ampliava e lo rendeva più organico in vista della necessità di organizzare una istruzione superiore di respiro nazionale (basata su sei grandi università e su sei commissioni di laurea, nonché su una maggiore severità nella valutazione degli esami). Come aveva scritto a Capponi, «la dispersione di forze, di uomini, di quattrini che oggi si fa nell’istruzione superiore, l’anarchia di esami, di tasse, di regolamenti, e tira via, non può andare» (Bianchi 1874, p. 423). Voleva evitare particolarismi; soprattutto, avendo conosciuto l’organizzazione degli studi superiori di Francia, Svizzera, Germania, Inghilterra, gli premeva modernizzare la vecchia struttura degli Stati preunitari, e fu infatti con essa che dovette fare i conti imbattendosi nell’opposizione dell‘ateneo di Napoli e di altre piccole università minacciate dal suo Regolamento. Così le sole innovazioni che gli riuscirono furono la creazione dell’Istituto tecnico superiore di Milano (il futuro Politecnico), per il quale si giovò della collaborazione di Francesco Brioschi (1824-1897), segretario generale del suo ministero, il riordinamento della Scuola Normale di Pisa e l’istituzione della Deputazione di storia patria per Toscana, Marche e Umbria. Da vicepresidente del Consiglio superiore della Pubblica istruzione (nomina del 6 novembre 1864), continuò a confrontarsi con questi problemi, contribuendo alla stesura di nuovi regolamenti, ma fu giocoforza per lui rinunziare ai grandi propositi di rinnovamento coltivati in precedenza.
Anche se meno intensamente, Matteucci, che nel 1864 fu chiamato a presiedere la Commissione incaricata di proporre norme per l’istituzione di stazioni meteorologiche per la previsione e prevenzione dei disastri ambientali, proseguì sia l’attività didattica (che dopo la nomina a senatore svolse a Torino), sia la ricerca scientifica. Con il passaggio della capitale a Firenze, vi si trasferì per assumere la direzione dell’Istituto di Studi superiori.
Cattolico praticante, ispirò sempre i ruoli direttivi che si trovò a esercitare a un principio di compatibilità della scienza con la fede. Incessante fu la sua collaborazione ai periodici stranieri e a quelli da lui stesso fondati, in genere per illustrare con brevi memorie le ricerche su elettricità, elettrofisiologia, sistema nervoso, talvolta per tornare sull’annosa polemica con Du Bois-Reymond. In effetti, a rivestire qualche importanza fu solo «il suo studio sul cosiddetto elettrotono fisico del nervo, con il quale, paragonando il nervo integro e la sua guaina a un filo metallico rivestito da uno strato di cotone o di lino imbevuto da una soluzione di solfato di zinco, fornì per la prima volta un modello fisico del nervo» (Farnetani, Monsagrati 2009, p. 269).
Malato da qualche tempo, nei primi giorni di giugno del 1868 si spostò ad Ardenza di Livorno per cercare di rimettersi in salute: fu invece lì che il 24 giugno 1868 lo colpì la crisi finale del suo troppo logoro organismo. Portò con sé nella tomba la soddisfazione di essere stato da poco nominato titolare di fisica nell’Istituto di Studi superiori di Firenze e il dispiacere di non essere stato eletto socio dell’Académie des sciences di Parigi.
Tra le opere di Matteucci si vedano anche:
Sulla contrazione provata dagl’animali nell'aprirsi del circolo elettrico in che trovansi, Forlì 1830.
Sulle correnti elettro-magnetiche di Faraday, Forlì 1833.
Discorso sul metodo razionale scientifico, Forlì 1835.
Essai sur les phénomènes électriques des animaux, Paris 1840.
Lezioni di fisica date all’Università di Pisa, Pisa 1844.
Traité des phénomènes électro-phisiologiques des animaux, Paris 1844.
Leçons sur les phénomènes des corps vivants, Paris 1847.
Lezioni di elettricità applicata alle arti industriali, all’economia domestica ed alla terapeutica, Torino 1852.
R. Felici, Carlo Matteucci, «Nuova Antologia», 1868, 8, 7, pp. 645-47.
Commemorazione, in Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, legislatura VI, 28 giugno 1868.
F. Sclopis, Notizie della vita di Carlo Matteucci, «Atti della Reale Accademia delle scienze di Torino», 1868-1869, 4, pp. 17-31.
N. Bianchi, Carlo Matteucci e l’Italia del suo tempo, Torino 1874 (in Appendice, pp. 551-90, un elenco completo delle monografie, memorie, articoli e discorsi di Matteucci nei periodici scientifici italiani e stranieri).
A. Battelli, Centenario della nascita di Carlo Matteucci. Discorso commemorativo pronunciato nel Teatro comunale di Forlì, 20 giugno 1911, Forlì 1911.
V. Nigrisoli, Il fisico Carlo Matteucci. Farmacista, combattente, ministro, e alcune sue lettere familiari inedite, Forlì 1931.
G. Dragoni, S. Bergia, G. Gottardi, Dizionario biografico degli scienziati e dei tecnici, Bologna 1999, ad vocem.
F. Gabici, Carlo Matteucci, in F. Gabici, F. Toscano, Scienziati di Romagna, Milano 2006, pp. 157-62.
F. Farnetani, G. Monsagrati, Matteucci Carlo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 72° vol., Roma 2009, ad vocem.