PIANCASTELLI, Carlo
PIANCASTELLI, Carlo. – Figlio naturale, e unico, dell’avvocato Giuseppe, di Fusignano (Ravenna) e della domestica Francesca Golfari, nacque a Imola, in provincia di Bologna, il 27 agosto 1867, riscuotendo il riconoscimento paterno, con atto discrezionale, solo due anni più tardi.
Questa pur posticipata legalizzazione del suo stato civile, se da un lato ne rinsaldò i legami con la famiglia d’origine, tra le più cospicue della fertile pianura ravennate alla sinistra del Senio, dall’altro lo provvide di larghissimi mezzi di fortuna, sapientemente messi a frutto lungo l’intero arco della sua esistenza.
Rimasto orfano di padre nel 1876, venne affidato alla tutela della madre e messo a convitto nel prestigioso collegio San Carlo di Modena, da cui uscì diplomato, non ancora diciassettenne, nel 1884. Nel medesimo anno, in ossequio a una consolidata tradizione domestico-borghese, si trasferì a Roma per intraprendervi studi di livello universitario, che concluse all’Università di Roma l’8 dicembre 1888 con la laurea in legge, mai adoperata a fini professionali.
Il fascino operoso dei monumenti e della storia plurimillenaria dell’Urbe, dopo aver instillato in lui l’interesse per la numismatica classica, che coltivò senza sosta sino ad allestire un monetiere giudicato tra i maggiori del Novecento, lo aveva ispirato ad ambire a una seconda laurea, in lettere: proposito presto frustrato dalla morte dello zio Tommaso (1890), fin lì sagace amministratore delle proprietà familiari, e dalla conseguente necessità di occuparsi direttamente della quota di capitale fondiario a lui toccato in eredità, composto di circa settanta poderi, su mille ettari di estensione, nei comuni di Alfonsine, Fusignano, Filo e Longastrino. Da allora la sua vita si divise abbastanza equamente, in un pratico compromesso logistico-organizzativo, tra il cuore della Romagna rurale e la capitale del Regno (dove pure amava trascorrere gran parte dell’anno) e tra la gestione ordinata e diligente del patrimonio agricolo-zootecnico avito e il ‘morboso’ soddisfacimento delle sue innate passioni collezionistiche.
Dagli ultimi anni dell’Ottocento, infatti, e sino alla morte, non cessò mai di adunare nel maestoso palazzo fusignanese – fattosi quasi appositamente edificare in eleganti linee neoclassiche (1889-94) dall’architetto eclettico Enrico Gui – il frutto della sua paziente e indefessa opera di raccoglitore di ‘memorie’ romagnole, ovvero dei più mirabili e raffinati prodotti dell’ingegno dei suoi conterranei nelle lettere, nella storia, nelle arti e nel costume.
Ponendosi nel solco spirituale dei grandi bibliofili e bibliografi di cui la regione era stata prodiga nei secoli XVIII e XIX, come il lughese Giacomo Manzoni e il ferrarese Giuseppe Cavalieri, Piancastelli ebbe sin da giovane chiara contezza dell’importante ruolo giocato dalla Romagna (latamente intesa oltre i confini geografico-amministrativi) nella storia d’Italia d’ogni tempo e, intravedendo nell’uso avveduto di una notevole ricchezza un peculiare modo di operare nel campo della cultura, si diede a un’impresa ‘neoumanistica’ senza precedenti: documentare la civiltà della sua terra con ogni tipo di testimonianza materiale (come libri rari, autografi di pregio, opuscoli, incisioni grafiche, monete medievali e moderne, medaglie, ceramiche, quadri, cartoline illustrate, francobolli, minuterie curiose).
Tale straordinaria opera di raccolta tematica, continuamente aggiornata e divenuta nel tempo di valore e consistenza inestimabili, fu realizzata con oculati e sovente dispendiosi acquisti, favoriti da una non comune competenza in materia antiquariale e da una rete quanto mai fitta e complessa di qualificati rapporti con privati collezionisti, intermediari di cose d’arte, librai e titolari di case d’asta italiani e stranieri.
Ciò che ne sortì fu un complesso organico e unitario (pur nell’eterogeneità e nel pluralismo disciplinare delle singole componenti), ove l’intento primario del filantropo di conservare memoria di una cultura locale messa a rischio dalle vicende politiche e dai grandi mutamenti sociali del periodo postunitario, si saldava non con l’ostentata e aristocratica compiacenza di un collezionismo fine a se stesso, ma con il mecenatistico disegno di salvare dalla dispersione e assicurare agli studi patrii quante più informazioni possibile per una più ampia conoscenza storica della periferica provincia romagnola vitalizzata dal rapporto con Roma.
Nella primavera del 1889 conobbe Isabella Bombrini, la maggiore delle sei figlie dell’industriale genovese Giovanni e della marchesa Giovanna Carrega, con cui stabilì di sposarsi di lì a un anno. Il matrimonio, tuttavia, fissato per il 27 aprile 1900, auspice il noto barnabita Giovanni Semeria, fu rinviato dal padre di Isabella a data da destinarsi a causa dei «fallaci dubbi» sulla legittimità della sua nascita, forse propalati ad arte dal concittadino Leone Vicchi, un dotto letterato con cui era entrato in aspro dissenso tempo prima su questioni di politica locale (Belletti, in La storia di Fusignano, 2006, pp. 913 ss.). Benché lo strappo tra le due famiglie, che puntavano a un legame di prestigio e interesse, fosse stato in breve ricucito grazie ai buoni uffici del senatore Eugenio Bonvicini, Piancastelli rinunziò definitivamente alle nozze, avendo nel frattempo contratto una malattia venerea che, oltre a minarne irrimediabilmente la salute, lo rese sterile.
Solo e malato, «senza passato e senza futuro, si ancorò disperatamente al presente» (Belletti, in La storia di Fusignano, 2006, p. 916) e si legò sempre più ai propri latifondi condotti a mezzadria e alla sua ‘salvifica’ attività di collezionista, che riprese alacremente superando però la dimensione del puro diletto. Risalgono difatti agli anni seguenti, sino all’inizio della Grande Guerra, i maggiori incrementi della Biblioteca storica romagnola (in tal modo definiva la sua creatura), con l’acquisizione – isolata o cumulativa – di un gran numero di stampati e manoscritti a integrare i primitivi nuclei documentari provenienti dalle biblioteche private Manzoni (e dunque Borghesi), Borghese e Boncompagni-Ludovisi, alienate in larga misura dagli eredi tra il 1892 e il 1896.
In tal modo entrarono a far parte del corpus piancastelliano, talvolta con vere e proprie «acrobazie contrattuali», oltre a singoli pezzi procacciati ‘alla spicciolata’, gli archivi Spreti, Annichini e Strocchi, 800 autografi musicali rossiniani (letteralmente incettati tra il 1906 e il 1912), le raccolte forlivesi del conte Filippo Guarini (1907), le carte montiane di proprietà di un discendente ferrarese del poeta Vincenzo, molti dei codici appartenuti al canonico riminese Angelo Battaglini e, non ultimi, i fondi risorgimentali di Francesco Miserocchi e dei fratelli modenesi Luigi e Giuseppe Azzolini.
Il trovarsi a ‘ereditare’ insiemi collezionistici d’impianto preesistente non mise naturalmente al riparo il sagace gentiluomo campagnolo dall’incorporare, tra gli altri, quantità di materiali estranei al concetto portante di ‘romagnolità’ (per contenuto e circolazione) da sempre al centro dei suoi interessi. A questa incresciosa contingenza Piancastelli rimediò destrutturando l’ordine del collettore originario, smistando i pezzi congruenti nelle diverse ripartizioni della propria mastodontica biblioteca-archivio, ma soprattutto non rinunciando ad associare nuove sezioni cartacee a quelle inizialmente previste.
È il caso delle cosiddette Carte Risorgimento, che documentano in extenso, sul piano politico-patriottico, il complesso periodo storico 1789-1861, oppure dell’autografoteca relativa a grandi esponenti della Chiesa cattolica (santi, beati, venerabili, pontefici, cardinali, vescovi, teologi ed eretici) dal Medioevo all’Ottocento, e ancora delle due ragguardevoli serie internazionali di decine di migliaia di testimonianze manoscritte e ritratti pertinenti a personaggi celebri dei secoli XII-XIX.
Già nel 1904 e poi compiutamente nel 1915, quando pensava di essere giunto al punto culminante della sua ipertrofica esperienza di raccoglitore di cimeli d’arte e storia, Piancastelli aveva definito la struttura delle proprie collezioni, distinguendo nettamente in schemi riassuntivi manoscritti le componenti non ‘bibliotecabili’ (definite Appendici) dal materiale più propriamente bibliografico, suddiviso nelle due grosse famiglie delle Carte Romagna (173.000 autografi, fogli volanti, abbozzi, minute e appunti dal XII al XX secolo) e della Libreria (oltre 50.000 unità editoriali, articolate in quattro parti, a certificare quanto fu prodotto in Romagna dagli albori dell’età comunale sotto il profilo topografico, biografico, filologico-letterario-demologico e tipografico). Se gli elementi appena menzionati costituirono, già a detta dei contemporanei, i veri tesori delle «miniere Piancastelli» e furono liberalmente prestati per mostre temporanee nonché dispensati per studio all’intellettualità erudita locale e nazionale, non minor valenza culturale presentano, tra le tante altre, alcune collaterali appendici al blocco primario, quali i fondi iconografici e musicali, la quadreria rinascimentale e il gabinetto numismatico.
Con l’avanzare dell’età, privo di un discendente diretto che ne ereditasse la vasta proprietà terriera, ma più di tutto preoccupato per la sorte delle sue raccolte, che desiderava integre e indivise in perpetuum, Piancastelli si rassegnò gradualmente al pensiero di affidarle, nella loro completezza, a un istituto di conservazione pubblico. Tale pensiero, a conclusione di esitazioni e di prospettive diverse, si concretizzò nella munifica donazione ex testamento alla città di Forlì (dove ancora oggi si trovano), che prevalse sulla più quotata Ravenna, cui erano state in un primo momento destinate.
A questa travagliata decisione, presa nel 1930 e confermata pochi mesi prima della morte, concorsero il consiglio di alcuni amici, primo fra tutti Antonio Mambelli, la constatazione della cura con cui erano stati accolti e valorizzati alcuni documenti da lui prestati per mostre storiche allestite presso la Biblioteca civica forlivese nei primi anni Trenta, le mortificazioni e gli affronti subiti nel tempo da parte di notabili fascisti ravennati con il veto opposto alla sua nomina a commendatore dell’Ordine d’Italia per la quale era stato comunque proposto nel 1933, e infine l’idea di rendere omaggio alla città del duce e a Benito Mussolini stesso, di cui era fervente ammiratore.
Da tempo minato nel fisico e nello spirito, morì a Roma, nella sua abitazione di piazza Adriana, il 19 febbraio 1938.
La sua esistenza, infelice dal punto di vista affettivo quanto gratificante sotto il profilo dell’affermazione culturale, sociale ed economica, fu vissuta nella coscienza della sua fuggevolezza e assieme nell’urgenza di non consumarla senza lasciare un duraturo segno di sé alla posterità.
Subito dopo la sua morte, non ancora conclusasi un’acrimoniosa vicenda giudiziaria avviata sulle accuse di malevoli congiunti a proposito della sua reputazione, si profilava già all’orizzonte la lunga sequela di cause per la disputa della sua favolosa eredità (Belletti, in La storia di Fusignano, 2006, pp. 931-933, 937-939).
Opere. L’assidua ricerca su cataloghi d’antiquaria a caccia delle migliori offerte del mercato, così come il disbrigo della voluminosa corrispondenza giornaliera, nonché la frenetica attività di riordino e di schedatura del materiale documentario via via incamerato, non impedirono a Piancastelli di cimentarsi in studi storico-biografico-letterari e folklorico-dialettali-etnoantropologici sulla Romagna. Parte di questa produzione, basata sull’osservazione diretta di fenomeni demopsicologici e su originali ricerche bibliografiche, è stata riedita, a cura di G. Bellosi, in Studi sulle tradizioni popolari della Romagna, Imola 2001 (alle pp. 37-40 un elenco completo delle sue opere a stampa).
Fonti e Bibl.: Centocinquanta sono i riferimenti bibliografici sulla figura, la formazione culturale e l’attività collezionistica di Piancastelli (al 1995) menzionati in calce al volume La Romagna allo specchio. Il patrimonio culturale della Romagna e C. P. sessant’anni dopo: le iniziative, il Fondo e la sua consistenza, a cura di P. Brigliadori - S. Spada, Forlì 1998, pp. 75-78. Tra questi si segnalano: A. Mambelli, Un umanista della Romagna: C. P., Faenza 1938 (essenziale per addentrarsi nelle vicende dell’uomo e del collezionista, malgrado il tono smaccatamente apologetico e celebrativo); A. Ravaglioli, Ricordo di C. P.: un autentico romano di elezione, in Strenna dei Romanisti, XLVIII (1987), pp. 507-526. Si vedano, inoltre, gli Atti del Convegno C. P. e il collezionismo in Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di P. Brigliadori - P. Palmieri, Bologna 2003 (con interventi di A. Belletti, M.L. Troncossi et al.), e la sezione dedicata al Piancastelli bibliofilo, mecenate e agricoltore (pp. 641-672, 909-1035), in La storia di Fusignano, a cura di M. Baioni - A. Belletti - G. Bellosi, Ravenna 2006, con contributi di F. Landi, A. Belletti, L. Michelacci, R. Balzani, R. Zama, S. Casadio, C. Poggi, E. Ercolani Cocchi. Tra la letteratura più recente: A. Imolesi Pozzi, C. P. e le sue Raccolte a Forlì. Con il testamento P., in La Piê, LXXVII (2008), 6, pp. 246-253; Ead., Le Raccolte P. della Biblioteca comunale di Forlì. Un patrimonio unico per la storia della Romagna, in La Ludla, XIV (2010), 6, pp. 4-5.