POMA, Carlo
POMA, Carlo. – Nacque il 7 dicembre 1823 a Mantova da Leopoldo, giurista e consigliere del Regio tribunale di prima istanza, e da Anna Filippini, appartenente a una ricca famiglia di Mulo (Comune nel Mantovano nel 1869 rinominato Villa Poma).
Gli furono fratelli: Angelo, nato da un primo matrimonio del padre, Luigi, Alessandro, Giusto, Carolina, Teresa. Appassionato era l’amore tra i coniugi e grande l’affetto dei genitori per i loro ragazzi. Sia Leopoldo sia Anna erano molto religiosi e nell’educazione che impartirono ai figli il richiamo alla carità evangelica ebbe una parte molto importante. Donna molto colta, le cui poesie e le cui lettere manifestano non comuni doti letterarie, dopo la morte del marito, nel 1836, Anna consacrò ai figli tutta se stessa. La riconoscenza e la venerazione di Carlo nei confronti della madre sono testimoniate dalle lettere e dalle poesie del periodo del carcere e dai colloqui con don Luigi Martini nei giorni del confortatorio.
Allorché Carlo Poma, compiuti gli studi liceali a Mantova, si iscrisse al corso di medicina all’Università di Pavia, la madre vi si trasferì con tutta la famiglia. Oltre alle discipline scientifiche, Poma coltivò la filosofia e le lettere e si dedicò allo studio delle lingue straniere antiche e moderne. Che gli studi, e non solo quelli universitari, avessero concorso a formare in lui una mentalità razionalistica e ad allontanarlo dalla religione materna fu lui stesso a ricordarlo nelle conversazioni con Martini: «Anch’io – gli avrebbe detto – negli anni passati ebbi qualche dubbio sopra la fede e dissi qualche parola non abbastanza religiosa» (Martini, 1952, p. 307). E alla madre così scriveva dal carcere il 10 settembre 1852: «Prima d’ora la mia ragione sola guidava le mie azioni, ispirava i miei pensieri, e [...] il carcere mi ha fatto trovare il cuore» (Cenni biografici, 1867, p. 110).
Quest’ultima notazione documenta come nelle condizioni psicologiche determinate dalla dura carcerazione e dall’incertezza circa la propria sorte si era compiuta un’evoluzione che secondo Martini mise capo a una piena riconciliazione con la religione a cui era stato educato. Che alla fine i due si trovassero d’accordo nel rifiuto di «un paradiso antropomorfitico o voluttuoso» (Martini, 1952, p. 310) conferma d’altra parte che l’interpretazione della religione cattolica nella quale Poma poteva riconoscersi era la medesima, fortemente improntata di razionalismo, di Enrico Tazzoli e degli altri preti del seminario di Mantova. Se le opere buone, insieme alle verità persuadenti, costituirono una componente fondamentale dell’ideale religioso proprio di quell’ambiente, anche sotto questo profilo la cultura di Poma si accordava con le idee dei tazzoliani.
Dopo la laurea, svolse, infatti, con dedizione la sua attività di medico nell’ospedale di Mantova, dimostrando sollecitudine in particolare verso gli infermi più poveri. Che egli non fosse tuttavia soddisfatto della sua condizione professionale lo rivela una lettera del 10 ottobre 1851 in cui la madre raccontava alla figlia Carolina dell’intenzione di Carlo di lasciare l’ospedale di cui era «ristucco» e si doleva «di vedere un’anima sì fervida, che sente tanto il bisogno d’agire per sé e per gli altri, condannata all’inerzia e quindi a tormentare se stessa» (Cenni biografici, 1867, pp. 16 s.). Forse anche tale inquietudine concorse a indurlo a promuovere insieme ad altri, alla fine del 1850, l’iniziativa cospirativa ricordata sotto il nome di ‘congiura di Belfiore’ e marcata dall’ispirazione democratica e repubblicana nonché dal rapporto con i coevi programmi mazziniani.
Nulla si sa peraltro di precedenti contatti di Poma con Giuseppe Mazzini o con gli ambienti mazziniani, mentre una nota della polizia stilata nel 1853 escluse che egli avesse preso parte al moto del 1848. Non pare tuttavia che si possa parlare di un’infatuazione superficiale. Nel primo dei colloqui degli ultimi giorni con Martini egli esordì affermando di essere carcerato e condannato in conseguenza del «grande amore» che manifestò «alla libertà, alla uguaglianza e quindi all’indipendenza del nostro paese» (Martini, 1952, p. 279). Le precisazioni riduttive a cui Martini lo spinse subito dopo non impediscono di interpretare la notazione come un riferimento positivo ai principi dell’Ottantanove. Quanto al suo repubblicanesimo, vale ciò che fieramente proclamò nel suo secondo costituto: «Soltanto nella Repubblica trovo la garanzia della felicità di mia patria e dei diritti santi del popolo italiano […] e per questo unico scopo avrei combattuto eternamente» (Belfiore, 2006, II, p. 460).
Sono convinzioni probabilmente maturate negli anni degli studi universitari, ma a proposito dei suoi sentimenti patriottici si deve tenere conto che l’avversione al dominio austriaco era stata già del padre. La speranza confidata a Martini che la Provvidenza avrebbe suscitato «Re Vittorio Emanuele ad essere il Ciro di noi Italiani» (Martini, 1952, p. 284) si direbbe dunque l’espressione del profondo scoramento in cui l’aveva gettato la condanna piuttosto che il frutto di un meditato distacco critico dalla linea mazziniana (verso cui si orientarono in quei frangenti molti seguaci del capo genovese). Quanto all’opinione che Martini gli attribuì secondo cui l’indipendenza dell’Italia dovesse essere affidata alla «forza morale dell’educazione», come proponeva Vincenzo Gioberti, piuttosto che all’azione rivoluzionaria, si potrebbe pensare che riflettesse più il pensiero del confortatore che non quello del confortato.
Poma era stato arrestato nella notte tra il 16 e il 17 giugno 1852 in seguito alla decifrazione compiuta a Vienna del registro in codice in cui Tazzoli aveva annotato i nomi degli affiliati e i contributi da loro versati: il nome di Poma vi figurava più volte. Luigi Castellazzo e Tazzoli negli interrogatori rispettivamente del 19 e del 26 giugno attestarono la sua partecipazione alla riunione istitutiva del comitato, mentre Bernardo Canal il 14 luglio fece il nome di Poma come uno di coloro che cooperarono al trasporto da Mantova a Venezia di componenti di una macchina lanciarazzi. Inoltre, dalle deposizioni di Dario Tassoni e di Carlo Marchi del 23 e 25 giugno risultò che la seconda riunione del comitato si era tenuta in casa Poma. Nel primo suo interrogatorio del 16 luglio Poma respinse gli addebiti. Ulteriori elementi a suo carico emersero quindi dalle deposizioni di Tazzoli e di altri imputati. Nel suo secondo interrogatorio del 22 agosto, Poma persistette sulle prime a negare ma, messo a confronto con Tazzoli, si risolse a confessare, ammettendo la propria appartenenza all’organizzazione segreta, negando tuttavia di aver affiliato qualcun altro, di aver conservato in casa manifestini e cartelle del prestito e di conoscere l’uso a cui servivano i pezzi di ferro inoltrati a Venezia. La sua posizione processuale fu aggravata dalla deposizione di Castellazzo del 18 ottobre in cui questi riferì che anche Poma era stato partecipe del fallito attentato al commissario di polizia Filippo Rossi, che aveva avuto luogo nel precedente Carnevale. Il 29 ottobre Poma ammise la propria partecipazione, ma sostenne di aver volontariamente sventato la trama non avvertendo per tempo i sicari, ripugnandogli «l’animo di entrare parte in un omicidio» (Belfiore, 2006, II, p. 553).
Il 13 novembre 1852 Poma insieme ad altri nove congiurati fu tradotto dinanzi al Consiglio di guerra: tutti furono dichiarati rei del delitto di alto tradimento, «aggravato in riguardo al dottor Poma di correità nell’attentato di assassinio per mandato» (Luzio, 1905, II, p. 26), e vennero condannati alla pena di morte da eseguirsi con la forca. Radetzky, che non aveva voluto ascoltare le suppliche della madre di Anna Filippini e di altre illustri mantovane, confermò la sentenza per Tazzoli, Angelo Scarsellini, Bernardo Canal, Giovanni Zambelli e per Poma, mentre commutò la pena di morte in pena carceraria agli altri quattro imputati.
L’esecuzione fu eseguita il 7 dicembre 1852 nella valletta di Belfiore.
Le autorità vietarono la sepoltura in terra consacrata e le salme furono inumate sul luogo dell’esecuzione, dove rimasero fino al 1866 quando Mantova fu unita all’Italia.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Mantova, Catasto teresiano, Libri partitari di Villa Poma, regg. 1472, 1474; Auditorato di Guarnigione di Mantova, bb. 1, ff. 36, 96; 2, ff. 127, 148, 202, 212, 238; 3, f. 287; 4, ff. 406, 410, 411, 413, 415, 425-426, 428, 434, 441, 564; 7, f. 160. Inoltre: A. Luzio, I martiri di Belfiore e il loro processo. Narrazione storica documentata, I-II, Milano 1905, ad ind.; L. Martini, Il confortatorio di Mantova negli anni 1851-’52-’53-’55, introduzione e note storiche di A. Rezzaghi, I-II, Mantova 1952 (Mantova 1867), ad ind.; Cenni biografici e scritti varj di Anna Filippini Poma e del dottore C. P. martire dell’indipendenza italiana, Mantova 1867; B. Simonetta, Luigi Castellazzo ed i processi di Mantova del 1852-53 alla luce di alcuni documenti inediti, in Rassegna storica del Risorgimento, XLIII (1956), 1, pp. 87-123; Compromessi politici nel mantovano (1848-1866), a cura di R. Giusti, Mantova 1966, ad ind.; Belfiore, II, Costituti, documenti tradotti dal tedesco ed altri materiali inediti del processo ai Comitati insurrezionali del Lombardo-Veneto (1852-1853), a cura di C. Cipolla, Milano 2006, ad indicem.
M. Bertolotti, Le complicazioni della vita. Storie del Risorgimento, Milano 1998, pp. 10, 55, 106, 110, 136, 138, 222 s.; C. Cipolla, Belfiore, I, I comitati insurrezionali del Lombardo-Veneto e il loro processo a Mantova del 1852-1853, Milano 2006, ad indicem.