PORTA, Carlo
Nacque il 15 giugno 1776 a Milano, dove morì il 5 gennaio 1821. Studiò prima a Monza, poi nel seminario di Milano. Sono queste le prime esperienze di quel mondo ecclesiastico, che diventerà poi uno dei temi dominanti della sua poesia. Sui sedici anni fu mandato ad Augusta, in Germania, perché si avviasse alla mercatura. Ma non si sentiva adatto a questa vita: perciò ben presto si fece richiamare a Milano, dove cominciò la sua carriera d'impiegato. E impiegato rimase sempre, prima alle Finanze, a Milano, e poi per due anni a Venezia, infine al Debito pubblico. Nel 1806 aveva sposato Vincenza Prevosti vedova Arauco, che teneva e continuò a tenere un salotto; col matrimonio la sua vita prese definitivamente un andamento regolare e tranquillo. Le sue lettere e le sue poesie ci dànno la sensazione di questa vita di buon compagnone, di ambrosiano d'antico stampo e d'impiegato. Aveva parecchi amici letterati, che si raccoglievano intorno a lui, formando un crocchio, che egli rese famoso con la denominazione di "camaretta": c'erano tra questi L. Rossari, G. Torti, T. Grossi, ai quali leggeva di mano in mano i versi che scriveva nel suo ufficio, quando allo sportello non c'era pubblico. La sua vita inseparabile d'impiegato e di poeta è tutta in queste poche righe di una lettera al Grossi: "Anche oggi scrivo nel mio modo solito, nel tiretto cioè del mio bancone d'ufficio, e tratto tratto conviene che lasci la penna per servire i bravi e buoni reverendoni che vengono a truppe a riscuotere le loro congrue e i redditi de' loro benefici". I suoi clienti diventavano gli eroi delle sue poesie. Ascoltandoli e osservandoli dovette riuscire a conoscerli bene, a sapere quali attenuanti meritassero quei preti zotici e fiacchi e poverissimi, in quei tempi di persecuzioni e di angustie.
Nella Milano del tempo questo modesto impiegato contò ben poco. Non si occupò quasi affatto di politica, e s'interessò della letteratura contemporanea solo perché, vissuto nel periodo della polemica fra classicisti e romantici, poetando di materia viva e con l'atteggiamento d'un uomo di solido buon senso, non poteva non professarsi romantico, di quel particolare romanticismo che più tardi doveva esser riassunto e difeso da uno spirito più alto di lui, ma, per più rispetti, affine a lui di temperamento, il Manzoni.
Era un uomo buono, incline al riso e alla malinconia, uno spirito di romantico e di verista. Aveva una cultura modesta, ma una innata tendenza alla concezione bene equilibrata e all'espressione finita dei classici; e perciò, come il Manzoni, fu insieme romantico e classico. I suoi argomenti rientrano solo apparentemente nel cerchio dei temi abituali alla letteratura dialettale moderna d'Italia. Le sue abitudini di modesto ambrosiano e i suoi argomenti profondamente radicati nell'ambiente milanese potrebbero far pensare che sia anche lui un cronista poetico della propria città. Ma in lui la scelta dei motivi è ben altrimenti geniale e il disegno è ben più significativo e più largo: in questo egli supera anche il Belli dei sonetti migliori. Egli non fa il quadretto di genere ma il quadro di costumi, non la macchietta ma il ritratto; sicché, pur rimanendo indissolubilmente legato a un periodo storico, ne supera l'interesse effimero con un largo e forte interesse umano. In pochi componimenti egli ci ha lasciato l'immagine immortale della Milano della rivoluzione francese e della reazione austriaca, osservata nelle sue tre classi: il clero, i nobili e il popolo: il clero, perseguitato dai decreti napoleonici; i nobili, detronizzati dai principî rivoluzionarî; i poveri diavoli, malmenati dagl'invasori.
Le sue migliori poesie sono: Desgrazi e Olter desgrazi de Giovannin Bongee (un popolano, tornando dalla sua bottega di sarto da rigattiere s'imbatte nella ronda che, dopo un breve interrogatorio, lo lascia libero, e, salendo le scale di casa, trova un soldato di cavalleria francese che gli spiattella beffardamente la propria simpatia per la moglie e lo prende a cazzotti; un'altra volta, alla Scala, è vittima di un'altra ridicola disavventura coniugale e finisce, come la prima volta, con l'avere il danno e le beffe); Lament del Marchionn di gamb avert (un disgraziato s'innamora d'una mala femmina, la sposa ed è piantato in casa con un maschietto); La Ninetta del Verzee (storia lurida e pietosa d'una prostituta); El viagg de fraa Condutt, El Miserere, Fraa Diodatt, Fraa Zenever, Meneghin biroeu di ex-monegh, La messa noeuva, La guerra di pret - rimasta incompiuta - (varia rappresentazione del mondo clericale contemporaneo); Ona vision, La preghiera, La nomina del cappellan (quadri della vita nobiliare del tempo intimamente legata con quella del clero).
Il P. ha rappresentato alcuni aspetti della vita contemporanea in quadri ricchi di sfumature, animati da uno spirito che non si può chiamare lepido o satirico se non dimenticando l'indefinibile umanità del grande poeta, per il quale il maggiore interesse. è quello di ritrarre la vita in tutta la sua potenza e in tutta la sua varietà contraddittoria.
La qualità fondamentale della sua poesia è la vitalità gagliarda e comunicativa. Leggendo le sue pagine, dove ogni cosa è chiamata col suo nome, dove non ci sono attenuazioni o eufemismi eleganti, dove tutte le scene sono ritratte con una simpatia così spregiudicata e con una così franca bonomia che, anche quando la materia è satirica, quello che colpisce non è tanto lo sdegno quanto lo spontaneo accostarsi e immedesimarsi del poeta con il suo tema, si ripensa alla tempra sanguigna, cordiale e rumorosa del Rabelais.
Con tanta sostanza morale quanta se ne trova nelle novelle popolari, anticlericali e antinobiliari del P. e nelle sue caricature del classicismo, il fondo della sua poesia sfugge a una definizione etica del contenuto: sicché, quando s'è descritto il suo atteggiamento di fronte a questa e a quella classe sociale, non s'è detto ancora nulla che spieghi l'impressione che egli lascia nel lettore. Con tanta oscenità quanta se ne trova nelle sue poesie, non si può dire che egli sia un poeta corrotto; perché anche in questo argomento quelli che dominano sovrani sono il senso della verità e il senso della vita. Senza il secondo, il P. sarebbe stato un piccolo e pesante naturalista: il senso della vita ha alleggerito e purificato quel suo amore della verità. La moralità e la poesia del P. sono questo suo avvicinarsi sereno e franco alle scene più disparate. Perciò si può parlare di simpatia anche a proposito dei personaggi che sembrano più evidentemente canzonati: fraa Condutt, la marchesa Travasa, Polpetta de rognon. C'è in essi la simpatia che hanno certi grandi scrittori per i loro personaggi: la simpatia del Boccaccio per frate Cipolla, per ser Ciappelletto, per la Ciciliana. C'è la spia della gioia con cui certi poeti creano le loro figure, siano esse di candido marmo o di fango: la gioia di sentire la vita, senza aggettivi, e di tradurla in parole. La nomina del cappellan, El viagg de fraa Condutt, Meneghin biroeu di ex-monegh sono pieni di una vivacità che non nasce verȧmente dal piacere di far la caricatura o la satira d'una dama o d'un religioso ma da quella gioia più ricca e più profonda, propria di pochi scrittori di linfa gagliarda, che sembrano guardare la vita a braccia conserte, con la faccia spianata e la risata pronta.
Il P. era uno spirito sano, rude, chiaro: un popolano di genio. Il buon senso, le reazioni istintive del sentimento, il gesto largo, il linguaggio sonoro, il modo di raccontare alla buona, l'intima poesia e la tecnica dei versi sono il riflesso del suo temperamento.
La verità umana nella sua opera è veduta con una prontezza di popolano: quadri, figure, schizzi, discorsi, tutto è tagliato e dipinto con una forza ruvida, in cui si sente, non la mano esile del poeta aristocratico, ma la mano quadrata del popolano. Veduta sotto questo riguardo, l'opera del P., che sembra così svariata da non potersi definire, comincia a svelare la ricca uniformità delle creazioni di altri grandi poeti: donne da trivio, soldatacci, poveri diavoli, preti, beghine, dame, classicisti, taverne, postriboli, catapecchie, tinelli di curati, palazzi di nobili, tutto nella sua poesia è nitido e individuato, eppure tutto è lavorato con quel disegno e con quel colore. Dovunque si scopre quella facilità nel cogliere gli aspetti della vita, quel buon senso istintivo, quella tinta viva, rumorosa, quel dipingere a colpi di pollice, senza delicatezze, ma con una sicurezza straordinaria nel far convergere la luce sui particolari significativi e nel farli confluire verso il tema dominante.
Poesie di C. P. rivedute sugli originali, annotate da P. Campagnani (Milano 1887); Poesie edite e inedite, 1ª ed. compiuta, a cura di A. Ottolini (Milano 1929). Notevoli gruppi di lettere furono pubblicati da C. Salvioni, in Giorn. stor. d. lett. ital., XXXVII, pp. 278-389, e in Arch. stor. lomb., XXXV, pp. 70-128, 340-355. Il Salvioni morì senza potere stampare l'edizione critica delle poesie, che da lunghi anni preparava.
Bibl.: A. Momigliano, C. P., 2ª ed., Roma 1923; E. Rota, pref. all'ed. delle Poesie a cura della Famiglia Meneghina, Milano 1933.