RAINALDI, Carlo
RAINALDI, Carlo. – Nacque a Roma il 4 maggio 1611, da Girolamo, architetto papale e «del Popolo Romano» (Mandl, 1933, p. 578), e da Girolama Verovio (cfr. la voce Rainaldi Girolamo, in questo Dizionario). La guida paterna nel disegno e nella professione accompagnò Carlo nei suoi studi al Collegio Romano e alla Sapienza, fornendo solidi attributi intellettuali a un talento precocemente esibito in disegni «per giardini, per fonti, e per fuochi artificiali» (Pascoli, 1730, p. 306). Dalla famiglia materna acquisì e coltivò uno spiccato talento musicale, che permeò quello primario dell’architettura. Nel 1628, adolescente, elaborò una scenografia per lo spettacolo inaugurale del gran teatro farnesiano di Parma in occasione delle nozze ducali tra Odoardo Farnese e Margherita de’ Medici, avendo Girolamo, architetto farnesiano, curato gli apparati in città (Delsere, 2012, pp. 31 s.). Intorno al 1633 si colloca la serie di Disegni di ospedali e lazzaretti fatti da Carlo Rainaldi architetto d’ordine del Sig. Cardinal Barberino in occasione della peste (Biblioteca Apostolica Vaticana [BAV], Barb. lat. 4411, 27 carte; Curcio - Manieri Elia, 1989).
All’epoca Carlo fu impegnato in opere ornamentali in Campidoglio (1627-33; Benedetti, 2001 [2002]); il 12 dicembre del 1634 fu designato coadiutore e successore del padre nelle opere capitoline (Benedetti, 2001 [2002], pp. 73, 76), comprendenti la costruzione del «Palazzo Nuovo» previsto dal piano michelangiolesco (1645-62; Güthlein, 2003a). A un anno dal rientro del padre da Parma nel 1644, chiamato da Innocenzo X per servirlo come architetto, nel 1645 Carlo si fece notare tra i progettisti invitati a presentare proposte che risolvessero i problemi statici causati alla facciata di S. Pietro dai campanili berniniani (McPhee, 2002, pp. 148, 159 s.); richiestegli quindi idee per la piazza, elaborò un impianto porticato nelle alternative forme di «quadro perfetto», «circolare, ovale» in lungo ed esagona, rimaste senza seguito per la morte del papa nel 1655 (Baldinucci, 1728, p. 488).
Nel 1644, con gli archi trionfali per il «Possesso» di Innocenzo X, aveva raccolto il testimone dal padre quale noto specialista di architettura effimera (Fagiolo Dell’Arco - Carandini, 1977, pp. 131-133). «Architetto del Popolo Romano» dal 1651, curò i pubblici allestimenti a ogni apertura di pontificato: nel 1655, nel 1667, nel 1669, verosimilmente nel 1676, e nel 1689 (ibid., pp. 163, 240 s., 265-268, 321-323); un impiego postumo toccò nel 1701 a un suo progetto ripreso da Carlo Fontana (Fagiolo Dell’Arco, 1997, II, pp. 6 s.).
Notevoli furono i due apparati approntati per l’anno santo 1650. Il «Teatro» delle Quarantore allestito in febbraio nella chiesa del Gesù rappresentò il rito di dedicazione del Tempio di Salomone: sequenza di campate risonante della luminosa fuga di doppie coppie di colonne in aggetto sui contropilastri. L’ideata «prospettiva», illustrata da una stampa, venne però ridotta poiché, notò il diarista Gigli, «non capì nella scena tutto il disegno» (Fagiolo Dell’Arco - Carandini, 1977, p. 138): inconveniente non isolato nei rapporti con i gesuiti (avviati nel 1647 con i lavori per la cappella votiva progettata gratis per il vestibolo del Collegio Romano). Incaricato di vari progetti nei due seguenti decenni, restarono inattuati quelli per la cappella di S. Ignazio per la chiesa omonima e, per il Gesù, i progetti per le cappelle di S. Luigi Gonzaga e della testata destra del transetto, mentre un’inibizione papale impedì il rifacimento interno della chiesa di S. Apollinare (1656-57; Bösel, 1986, pp. 231, 240).
Impressionarono in aprile gli apparati di piazza Navona per la festa della Resurrezione. La creazione emergeva come un immenso trionfo da tavola nella profonda platea cinta di un lineare pergolato di verzura, imperniata sull’appena eretto Obelisco agonale; lo riecheggiavano due collaterali guglie pirotecniche e gli obelischetti sommitali di due colossali edicole quadrifronti, cupolate a bulbo, contrapposte sul medesimo asse longitudinale, incornicianti con le aggettanti colonne libere le grandi statue di un Cristo risorto e dell’Immacolata (Fagiolo Dell’Arco - Carandini, 1977, pp. 140-145).
Altre memorabili creazioni furono la superba facciata posticcia con cui nel dicembre del 1655 il duca di Parma Ranuccio II volle trasformare palazzo Farnese per la trionfale accoglienza di Cristina di Svezia (ibid., pp. 165-168) e il Castrum doloris del 1665 in S. Maria Maggiore per le esequie di Filippo IV di Spagna (ibid., pp. 212 s.).
Il tema della cappella e dell’altare, nodo basilare dell’ordine nello spazio, impegnò l’architetto sin dagli esordi di un’opera esemplarmente vasta in ambito ecclesiale. Per la Consolazione di Todi, prima isolata notizia, gli fu pagato il disegno del capoaltare il 1° dicembre 1634 (Gualdi Sabatini, 1991, p. 158; l’attuale altare è tardobarocco). Concepito due anni dopo il progetto per l’edicola di schema dellaportiano dell’altare maggiore di S. Girolamo della Carità (Fasolo, 1961, pp. 425 s.), il ciborio dell’altare maggiore di S. Maria della Scala (1647-50) dominò come fulcro lo spazio concavo absidale con un’edicola colonnata ispirata agli eterodossi Tempietti di Montano. Il frontale movimento plastico e ritmico sarebbe stato ripreso da Rainaldi, in più rigido assetto, nella loggia a suggello dei lavori a palazzo Borghese (1671-80). Forti accenti di stipiti e sopraornato serrano, nella «struttura totalizzante» della chiesa di Gesù e Maria al Corso degli agostiniani scalzi (1670-85; Trevisani, 1971), la pala d’altare e le composizioni dei confessionali integrati ai sovrapposti monumenti Bolognetti (1680-82). Altare come chiesa in nuce: la centinata e spessa edicola marmorea del capoaltare della basilica di S. Lorenzo in Lucina dei chierici regolari minori (1669-79) – per i quali Rainaldi studiò una nuova facciata, irrealizzata, affine per concezione a quella di Campitelli, ed eresse il convento (1663-65; Metzger Habel, 1984) – esibì fasci di colonne ispirati al «canneto» della recente chiesa dei Ss. Vincenzo e Anastasio a Trevi, compiuta alcuni anni prima da Martino Longhi il Giovane per il cardinale Giulio Mazzarino.
Analoga tensione dilata l’altare ligneo progettato nel 1679 o poco dopo per la chiesa dell’Angelo Custode di Ascoli Piceno, degli agostiniani scalzi, e comprime nella morsa di due colonne giganti addossate l’incompiuta facciata, iniziata nel 1684; per la locale chiesa del Carmine la facciata rettangolare a due ordini prevedeva «mezze colonne» in progressivo aggetto centrale, mutate per economia in lesene all’atto dell’esecuzione nel 1687 (Marchegiani, 1998-1999 [2002], pp. 157-161). Il dossale che nel 1681 Carlo realizzò per la piccola chiesa romana a pianta circolare dell’arciconfraternita dell’Angelo Custode, su incarico del vescovo di Rieti Giorgio Bolognetti (Pascoli, 1730, p. 309), accorda l’assetto strombato di doppie colonne alla curva absidale. Altri progetti del genere, fra attuati e irrealizzati, impegnarono l’architetto nella piena maturità (Delsere, 2012, pp. 24 s.).
Attiene, invece, al tema della facciata monumentale la formula michelangiolesca dell’intreccio fra ordini gigante e minore di colonne libere. Dopo i lavori per palazzo Pamphilj a piazza Navona (1644-50), nel 1652-53 i Rainaldi adottarono tale motivo nell’ideata facciata di S. Agnese in Agone: ambivalente messaggio capitolino e petriano di una macchinosa parafrasi michelangiolesca suggellata dalla cupola, tesa a fondere nella pianta a chrismon l’idea della cappella Sforza e dei progetti per la chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini. Scartato dal papa il progetto e subentrato Francesco Borromini nel 1653, Carlo riuscì in seguito a estrometterlo e a completare l’opera, riformando in parte l’immagine della cupola borrominiana (1657-66).
Echi petriani informarono del resto la tarda opera di unitaria riforma della tribuna di S. Maria Maggiore, pur aderendo al formulario del prospetto della cappella Paolina di Flaminio Ponzio (1669-75). Vi risuona il leitmotiv della compressione di luci incolonnate fra gli ordini, accentuato dalle statue sulle due superiori balaustrate: orizzonte di marca berniniana che connotava anche la rielaborata facciata dei Ss. Apostoli (1674-75), chiesa dove Carlo, architetto di quei padri francescani sino al 1681, attuò ampi interventi (1666-75), obliterati dalle trasformazioni settecentesche (Finocchi-Ghersi, 1995).
Sotto il pontificato di Alessandro VII (1655-67), funestato dalla peste, Rainaldi studiò per lo spazio e per la struttura di alcune chiese votive una pregnante integrazione. Per le chiese gemelle di piazza del Popolo (S. Maria dei Miracoli, 1662-81, compiuta da Carlo Fontana, e S. Maria di Montesanto, terminata nel 1675 su un nuovo progetto «ovato» rivisto da Bernini) pensò nel 1661 a una cortoniana oblunga croce greca prima di optare per una «rotonda».
Per la chiesa del Suffragio (costruita negli anni 1662-69) e per quella di S. Maria in Campitelli (prima elaborazione: 1658-62; realizzazione definitiva: 1663-67, con coordinata piazza trasversale) Rainaldi sperimentò in un primo tempo un’aula ovale, che innovava i modelli cinquecenteschi (Roca De Amicis, 2012, pp. 9 s.). Nella piccola chiesa di via Giulia prevalse lo standard rettangolare, mentre in quella prossima al Campidoglio «l’andamento curvilineo dell’ellissi» fu trasposto in una sequenza di «vani quadrangolari di diversa ampiezza e profondità», per una drammatica convergenza sull’«oggetto di culto» (Argan, 1960, p. 79), non esente da «ambiguità dell’organismo» (Portoghesi, 199811, p. 280) eppure inedita nel suo magnetismo, compendiato nell’attrazione spaziale della profonda volumetria della facciata, di impressionante facies romana tardoimperiale.
L’opera ricerca una nuova logica iconografico-strutturale da tradurre dentro e fuori in coinvolgente immagine: dialettica fra movimentazione plastica e vigoroso accordo pittorico di trame luminose sugli intensi scuri di sfondi indefiniti, attuato dal recupero espressivo della colonna libera. Pregi barocchi che la critica neoclassica apprezzò, cogliendosi tuttora «una sorta di neocinquecentismo» (Portoghesi, 199811, p. 280), ma con sostanziali riserve: «Disegnava da pittore, riusciva bene nell’invenzione delle piante, era fecondo d’idee, e d’idee grandi, eseguiva prontamente, ed ornava con sodezza; ma poco corretto, poco semplice, specialmente nelle facciate delle chiese» ([Milizia], 1768, p. 355). Tradizionalmente associato alla triade dei grandi architetti del Barocco, lo si considera un epigono, benché di altissimo rango (Brandi, 1970, p. 168). Pur avendo «subito la limitazione del Wittkower» in chiave di «ascendenza manieristica», in verità «del tutto disciolta nella spazialità barocca dell’architettura, restando a livello di codice senza ingaggiare la struttura», capolavori di «drammatizzazione spaziale» quali S. Maria in Campitelli (Brandi, 1985, p. 212) – in cui si esprime «per la prima volta il principio barocco dell’arte come persuasione» (Argan, 1960, pp. 76 s., 85) – e la facciata di S. Andrea della Valle (1661-65) – il cui «spessore straordinario» mette in gioco una densa «internità» atta a penetrare e «spezzare il muro di fondo» (Brandi, 1970, p. 34) – restano «pietre miliari del grande barocco romano»: «come una felice declamazione» di uno «stile eroico del Seicento, accanto a quello epico del Bernini e quello lirico del Cortona» (Brandi, 1985, pp. 212, 215).
Imprecisati «servigj» per cui fu «molto impiegato» dal giovane Carlo Emanuele II di Savoia e dallo zio di questi, cardinal Maurizio, finché sino al 1637 fu alla corte papale, gli valsero intorno al 1649 il cavalierato dei Ss. Maurizio e Lazzaro (Baldinucci, 1728, p. 490; Tabarrini, 2012, p. 303). Si è ipotizzato un suggerimento dell’architetto per la riforma della cappella torinese della Sindone, posta in opera da Bernardino Quadri e Carlo di Castellamonte nel 1657, allorché a Roma l’arciconfraternita del Ss. Sudario dei Piemontesi decise di ampliare la piccola chiesa nazionale, incaricandolo dei lavori; il «cavaliere don Carlo Rainaldi» curò successive trasformazioni, tra il 1659 e il 1667, e dal 1682 al 1687 (Tabarrini, 2012, p. 303), quando l’aula a rettangolo con accento biassiale fu ulteriormente dilatata da un’alta volta a botte e ornata dall’unificante logica di lesene e colonne ioniche addossate, in cui fu integrato lo stesso capoaltare.
Prestigiosi furono anche i rapporti con la Francia. Tramite l’agente romano abate Elpidio Benedetti, il cardinale Giulio Mazzarino chiese a Rainaldi nel 1660 il progetto (perduto e di incerta attuazione) del complesso di un «sontuoso tempio, con palazzo e biblioteca», da realizzare in via del Corso a Roma per il cognato Lorenzo Mancini e il fratello di questi cardinale Francesco Maria, estendendo la «casa Mancina» (Guerci, 2006, pp. 124 s.). Rainaldi partecipò, fra il 1664 e il 1665, alle proposte progettuali per l’ampliamento del palazzo reale del Louvre (Parigi, Louvre, Cabinet des Dessins, Recueil du Louvre, I, foll. 8-10), con una soluzione di neocinquecentesca magnificenza che non incontrò il gusto classicista della corte, benché sostenuta da aurei rapporti proporzionali e bilanciata con la «simmetria più rigorosa» dal puro quadrato di base (Portoghesi, 1959-1961 [1961]). Le armonie pitagoriche furono del resto un interesse profondo del raffinato musicista e compositore che dimostrò di essere Rainaldi, del quale restano diverse cantate profane e sacre (Marx, 1969) e la nomea di virtuoso nel suonare «squisitamente il cimbalo, l’organo, l’arpa doppia, la lira, la rosidra, con maniere rare e soavi» (Passeri, 1772, p. 223).
In tema di architettura civile Rainaldi progettò, fra l’altro, la propria casa in via del Babuino (1661), guardando a modelli genovesi divulgati da Rubens (Varagnoli, 1998 [1999]). Vi si trasferì dopo aver risieduto presso il duca Paolo Giordano II Orsini, da cui fu stipendiato (già al servizio dei Farnese, Carlo operò dagli anni Sessanta come architetto di casa Borghese, anche nel feudo di Monte Porzio Catone). Sposatosi nel 1642 con la nobile romana Margherita Maffei, dama della consorte del duca, Carlo era passato dalla casa paterna al palazzo di Monte Giordano, dove risiedette con la moglie, senza prole, sino alla morte, nel 1661, della principessa Aragona Appiani ormai vedova (Eimer, 1970-1971, pp. 124 s.; Tabarrini, 2012, pp. 302 s.). Visse more nobilium, tenendo «cavalli in istalla, servidori in sala, carrozze nelle rimesse, e tutti insieme componevano un nobile, e ben inteso treno» (Pascoli, 1730, pp. 311 s.).
Morto nel 1658 Domenico Castelli, che esercitò «un proprio diritto di successione a Girolamo Rainaldi» (Ferraris, 1991, p. 429), Carlo prese effettivo possesso del ruolo di «architetto del Senato e Popolo Romano», di «misuratore della Camera» e di successore del Castelli come «architetto della Sacra Congregazione del Tevere», rilasciando licenze sino al 1677 (Segarra Lagunes, 2004, p. 393), mentre dal 1657 era architetto della Presidenza degli acquedotti urbani (Ferraris, 1991, p. 429). Ascritto fra i Virtuosi al Pantheon nel 1641, principe dell’Accademia di S. Luca nel 1673, l’anno seguente Carlo collaborò al corso di architettura di Gregorio Tomassini, rivedendo le lezioni insieme a Mattia de Rossi, con il quale condivise nel 1675 il ruolo di «stimatore d’architetture», istituito nel suo principato (Antinori, 2013-2014, pp. 172, 181).
Morì a Roma l’8 febbraio 1691 e fu sepolto nella chiesa delle Stimmate (Pascoli, 1730, p. 312).
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