RIDOLFI, Carlo
RIDOLFI, Carlo. – Nacque a Lonigo (Vicenza) il 1° aprile 1594, con il nome di Carlo Sartor, da Marco e da Angela Boschetto, e fu battezzato il successivo 22 aprile, come attestano i registri parrocchiali (Vitaliani, 1911, p. 272). Non è dato conoscere le circostanze che lo portarono ad assumere il cognome di Ridolfi, che verosimilmente gli servì per riscattarsi dalle umili origini.
Molte delle informazioni sul suo conto derivano – o, per meglio dire, dipendono – dall’autobiografia posta a suggello delle Maraviglie dell’arte (1648, 1924, II, pp. 306-323), l’opera letteraria per cui è maggiormente conosciuto. In questa sede riferisce che i suoi antenati, originari dalla Germania, si erano trasferiti nel Veneto agli inizi del Cinquecento, dedicandosi al commercio: attività che garantì loro una relativa prosperità. Senonché il padre Marco, da Vicenza dove si era stabilito, vista «desolata la famiglia, e per i vari accidenti scemate le sostanze, […] raccolte finalmente le reliquie rimaste, circa l’anno 1570 rinovò la casa in Lonico, terra del Vicentino» (pp. 294 s.). Dal testamento del genitore risulta che la famiglia teneva casa in «contrada di Piazza», nel cuore del borgo leoniceno (Vitaliani, 1911, pp. 266-269). Nel 1602 morì il padre, lasciando Carlo e i suoi tre fratelli con la madre che, per sottrarsi alle mire interessate dei parenti, passò in seconde nozze con tale Andrea Schiasero (p. 277).
Appresi i rudimenti della pittura da un artista tedesco, e rivelando subito «un naturale istinto», nel 1607 fu condotto a Venezia e messo a bottega del pittore Antonio Vassilacchi, detto l’Aliense (Le maraviglie dell’arte, 1648, 1924, II, p. 295). Presso di lui svolse il garzonato per cinque anni, durante i quali acquisì i fondamenti del mestiere, assistendolo forse nelle commissioni più impegnative.
In occasione di un breve ritorno in patria, nel 1612, Ridolfi realizzò la sua prima opera pubblica, una Visione dell’Apocalisse di s. Giovanni Evangelista (perduta) per l’altare dei notai nella chiesa di S. Marco. A questa congiuntura risalgono forse una Decollazione di s. Giovanni Battista, nell’omonima chiesa leonicena, e un’altra pala per la chiesa di Bagnolo di Lonigo (Polati, 2010, pp. 151 s.).
Tornato a Venezia, intraprese studi di retorica, logica e filosofia «sotto erudito maestro», senza trascurare la prospettiva e l’architettura. Fu in questo periodo che diede inoltre sfogo alla sua vena letteraria, cimentandosi in ‘pensieri’ e poesie amorose; secondo Domenico Moreni (1805, p. 251) nel 1620 consegnò alle stampe una Novella di Madonna Isotta da Pisa, non ancora identificata.
I primi incarichi di un certo rilievo si devono all’iniziativa dei canonici di S. Giorgio in Alga di Lonigo, che nel 1622 gli commissionarono due grandi teleri, tuttora nella chiesa di S. Fermo, raffiguranti S. Lorenzo Giustiniani e S. Giorgio e il drago, che in seguito avrebbe definito «errori della [sua] gioventù» (Le maraviglie dell’arte, 1648, 1924, II, pp. 297 s.).
A detta dell’autore, compiuti i trent’anni, riuscì a guadagnare un certo credito tra le fila del patriziato lagunare, talché gli «crebbero gl’impieghi della professione; onde fec[e] molte opere a Signori, come fregi di stanze et altre cose, passando spesso nel Vicentino per occasione di pitture» (p. 298). In questo periodo, ad esempio, i Barbarigo della Terrazza gli affidarono la decorazione ad affresco di alcuni saloni del loro palazzo sul Canal Grande e di una villa a Merlara (Padova).
Nell’estate del 1628 passò a Verona, dove ebbe modo di visitare la città, eseguendo una copia – per «un gran personaggio» di cui però non sappiamo il nome – della Cena in casa di Simone di Paolo Veronese, che allora era custodita nella chiesa dei Ss. Nazaro e Celso. Molto affezionato al maestro Vassilacchi, fu al suo capezzale e si preoccupò di organizzarne le esequie, occorse il 15 aprile 1629.
Durante la pestilenza del 1630 riparò nelle vicine campagne trevigiane, presso un «amico di casa Stefani» (p. 299) a Spinea, e non a Spineda di Riese come si è a lungo creduto (Polati, 2010, pp. 21 s.). Qui si fermò fino alla fine del 1631 firmando, tra l’altro, una pala con una Madonna e santi per la chiesa parrocchiale su istanza di tale Andrea Doria, e un’altra per la vicina Mirano (entrambe perdute).
Cessata l’epidemia fece ritorno a Venezia, fissando la propria abitazione nella contrada di S. Samuele (Tassini, 1915, p. 580). Privo di molti dei suoi primi e più generosi mecenati, scomparsi per la peste, in un quadro artistico ormai orientato alle novità caravaggesche, riuscì a trovare impiego in circuiti di committenza periferici, dove la sua pittura neocinquecentesca trovava ancora estimatori.
Nel 1632, su richiesta di Giovanni Azzolini, mercante veronese, trasse una copia (non pervenuta) dall’Assunta di Tiziano nel Duomo della città scaligera. A questo periodo risalgono soprattutto una serie di pale d’altare, tutte caratterizzate da un fare genericamente palmesco, con stanche citazioni della pittura veronesiana (Pallucchini, 1981, p. 79).
Tra queste si ricordano: l’Adorazione dei Magi per la chiesa di S. Giacomo a Battaglia Terme (Padova), la Madonna con il Bambino e i ss. Pietro, Rocco e Sebastiano nella chiesa di Parre (Bergamo), l’Assunta con i ss. Valentino e Filippo Neri per la parrocchiale di Galzignano Terme (Padova). Nessuna traccia rimane delle opere veneziane licenziate in quel torno di anni e citate nelle guide antiche, come la Fuga in Egitto per la chiesa di S. Matteo a Murano, il S. Filippo Neri e la Decollazione di s. Giovanni Battista già nella chiesa di S. Giovanni Decollato, e l’Annunciata per la Scuola dei falegnami (Boschini, 1674, passim). Ancora esistente è, invece, l’Adorazione dei Magi nella chiesa di S. Giovanni Elemosinario, databile al 1640 circa.
Malgrado la sua condizione sociale gli impedisse di accedere ai ranghi accademici, egli stesso attesta di aver frequentato alcuni «virtuosi ridotti»: su tutti l’Accademia degli Incogniti, dalla quale venne occasionalmente ingaggiato come ritrattista e disegnatore di antiporte librarie (Polati, 2010, pp. 49-53).
Il declinare dell’ondata tardomanieristica a Venezia comportò un grave ostacolo alla carriera di un nostalgico epigono come Ridolfi, la cui pittura riuscì non senza fatica a imporsi sulla scena artistica lagunare. Dopo essersi speso vanamente presso le autorità veneziane per l’ottenimento di una «gratia» che gli potesse garantire qualche beneficio per la vecchiaia, con i buoni uffici degli amici accademici, decise di assecondare le ambizioni letterarie, applicandosi al genere delle biografie illustri. Nel 1642 licenziò la Vita di Giacopo Robusti detto il Tintoretto per le cure di Guglielmo Oddoni, con una dedica al Senato veneziano che gli valse il cavalierato di S. Marco (Le maraviglie dell’arte, 1648, 1924, II, p. 303).
Sul versante pittorico questo periodo si caratterizza per un rinnovato fervore, a giudicare almeno dal numero di opere dipinte, tra cui le tele (perdute) con S. Bonaventura e S. Luigi, per i Riformati di Vicenza, la Vergine che porge l’abito al beato Filippo Benizi consegnata alla chiesa delle francescane di Zogno (Bergamo), la Madonna del Rosario destinata alla parrocchiale di Boloventa (Padova), la Madonna del Carmine per l’isola di Morter, insieme ad altre pale ancora per la Dalmazia (Prijatelj, 1968).
Stando sempre all’autobiografia, Ridolfi nel 1645 fu insignito del titolo di cavaliere aurato pontificio da papa Innocenzo X, su interessamento di Giovanni Querini, arcivescovo di Candia (Le maraviglie dell’arte, 1648, 1924, II, p. 304).
Nel 1646 pubblicò per i tipi di Matteo Leni la Vita di Paolo Caliari, come estratto del suo libro più importante, che sarebbe uscito nel 1648 con il titolo Le maraviglie dell’arte. Pubblicata in due ponderosi tomi, l’opera ripercorre la storia della pittura veneta in forma di biografie artistiche (più di 150), da Guariento fin quasi ai tempi dell’autore, in una parabola ampia tre secoli.
Malgrado una prosa ampollosa, imbevuta di citazioni erudite e sentenze moralistiche, Le maraviglie dell’arte costituiscono una fonte insostituibile di notizie sui pittori veneti, spesso di prima mano, tanto da divenire subito un testo di riferimento, sia per studiosi sia per semplici ‘dilettanti’ (Schlosser, 1964, p. 531). A fronte di lacune e difficoltà evidenti in ambito critico, l’autore si dimostra informato conoscitore del collezionismo veneziano, segno di un suo probabile coinvolgimento diretto come perito e sensale, seppure con risvolti talora sfocati e controversi (Puppi, 2005).
Concepito come una risposta alle Vite di Giorgio Vasari, il testo ne mutua l’impianto storiografico per adeguarlo alla scuola veneta. Pur contestando la visione toscanocentrica di Vasari, la posizione di Ridolfi si rivela più morbida rispetto ad autori come Marco Boschini (Sohm, 2001), Se l’intento era di ampliare e aggiornare quanto riferito da Vasari sui pittori veneziani, è ben possibile che a promuovere l’impresa sia stato il fiorentino Bernardo Giunti, erede della grande stirpe di tipografi che in quegli anni risiedeva a Venezia (Polati, 2014, p. 177). Sulla scorta del modello vasariano, Ridolfi si dedicò, tra l’altro, a formare una notevole raccolta di disegni, disposti in album, i cui lacerti si trovano a Oxford (Byam Shaw, 1976, pp. 401 s.) e, in parte, a Lisbona (Mason, 2007, pp. 61 s.). Questo impegno collezionistico potrebbe avergli fornito il pretesto per redigere brevi profili biografici degli artisti di cui possedeva i disegni; abbozzi in seguito amalgamati in un più organico disegno storiografico (Puppi, 1976, pp. 416-419).
Ripreso il pennello dopo la parentesi letteraria, nel corso del sesto decennio Ridolfi licenziò una serie di grandi pitture religiose, che spesso si tradussero in saggi accademici senza ispirazione e di routine. Nel 1650-52 gli furono allogate quattro grandi tele dai bergamaschi Antonio e Rocco Olivi, che ne fecero dono alla chiesa di S. Giovanni Battista a Dossena (Bergamo). I dipinti, tuttora in loco, raffigurano la Flagellazione, la Coronazione di spine, l’Andata al Calvario e la Crocifissione (Omacini, 1974, p. 79).
Tra le pitture dell’ultimo periodo si annoverano una Visitazione di Maria, collocata in origine nella chiesa veneziana di Ognissanti (oggi alle Gallerie dell’Accademia), e due teleri con i Miracoli di s. Pietro apostolo (1655), ancora nella chiesa domenicana di S. Niccolò a Treviso per la quale furono dipinti (Villa, 2000, p. 192). Probabilmente dallo stesso edificio proviene anche la pala con il Miracolo di Soriano (Venezia, Gallerie dell’Accademia), che reca la data 1656 (Moschini Marconi, 1970, p. 91).
Morì a Venezia il 5 settembre 1658, affetto da «febbre terzana doppia», dopo diciannove giorni di malattia (Vitaliani, 1911, p. 34). Fu tumulato nel chiostro del convento agostiniano di S. Stefano, come disposto per testamento, in cui figura il nome del suo unico allievo, Tomio Renier, al quale furono destinati i materiali della bottega. Come erede principale nominò invece la moglie Pasquetta Vidali, che aveva sposato nel 1656, ma dalla quale non ebbe figli (Vitaliani, 1911, pp. 290 s.).
Forse sull’onda del successo sortito dalle Maraviglie dell’arte, Ridolfi «era anco per dar alle stampe, prima ch’egli morisse, un dottissimo et utilissimo trattato della scoltura e delle immagini», giusta la precisazione di Giustiniano Martinioni (in F. Sansovino, Venetia..., a cura di G. Martinioni, 1663, p. 2).
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