SELLITTO, Carlo
‒ Nato a Napoli e battezzato nella parrocchia di S. Giovanni Maggiore il 10 luglio 1580 (Stoughton, 1977, p. 366), fu il secondo dei sei figli venuti alla luce dal matrimonio tra Sebastiano Infantino (che assunse il cognome della madre, Margherita Sellitto, poi adottato anche da Carlo: Barbone Pugliese, 1983, p. 98 nota 37), pittore e indoratore originario di Montemurro (Potenza), e la napoletana Lucente de Senna (Prota-Giurleo, 1952, p. 17).
Dopo aver appreso i primi rudimenti nella bottega paterna, appena quindicenne collaborò con Girolamo Imparato all’esecuzione di un «quadro de una Madonna», di difficile identificazione, realizzato su commissione del vescovo di Ariano Alfonso de Herrera (De Mieri, 2008, pp. 205, 212 nota 17). Parimenti documentato è il passaggio del pittore nell’atelier del carrarese Giovanni Antonio Ardito, presso il quale, stando al referto di Cesare Soriano, testimone alle nozze di Carlo con la vedova Porzia Perrone (30 marzo 1613), il giovane fu posto a «creato» (Prota-Giurleo, 1952, p. 25).
Non è invece possibile verificare la notizia del discepolato dell’artista presso il fiammingo Louis Croys (pp. 19-21), di cui Sellitto avrebbe dovuto sposare la figlia Claudia, che però lasciò poco prima delle nozze per andare a convivere con Porzia, la quale, separatasi da Mario Pianese, poté risposarsi, dopo tre anni di concubinato, solo alla morte del coniuge, che sopraggiunse alla fine del 1612.
La perdita pressoché totale della produzione di Croys, a dispetto delle numerose commissioni ‒ specialmente ritratti ‒ ricordate dalle carte d’archivio (De Mieri, 2008, pp. 210 s. nota 8), non permette di chiarire il debito che, sul piano figurativo, Sellitto poté contrarre dalla frequentazione del fiammingo. In ogni caso, la bottega di Croys, animata anche da musicisti e compositori come Giovanni Maria Trabaci (Prota-Giurleo, 1952, p. 20), committente nel 1613 della celebre S. Cecilia ora al Museo di Capodimonte, ma destinata alla cappella omonima nella chiesa napoletana di S. Maria della Solitaria (de Lellis, ante 1689, 2013, p. 178; Causa, 2008, pp. 194 s., n. 190), dovette rappresentare un riferimento importante per il pittore, i cui interessi musicali sono testimoniati, altresì, dall’inventario dei suoi beni (1614), nel quale ricorrono «uno organo et uno ciambalo, [...] dui liuti, dua tiorbia et due chitarre» (Prota-Giurleo, 1952, pp. 22 s., 34, 37 s.).
Le esperienze formative di cui riferiscono i documenti trovano un riscontro quanto mai palmare nella cultura figurativa degli esordi di Sellitto, che ne tradiscono la piena adesione alla tradizione tardomanieristica partenopea (Causa, 1995; De Mieri, 2008).
Entro il primo lustro del Seicento va verosimilmente datata la ruvida Madonna del Rosario e santi nella chiesa domenicana di S. Maria del Popolo a San Chirico Raparo, borgo potentino a poche miglia da Montemurro (De Mieri, 2008, pp. 206-208, 213 note 24-30, 217, fig. 4, 219 s., figg. 6-8). La pala, d’impianto tradizionale, riflette la conoscenza degli esempi di Dirck Hendricksz e di Aert Mijtens, rappresentanti di spicco della folta colonia di pittori fiamminghi di stanza a Napoli sullo scorcio del Cinquecento; mentre nel pathos devozionale e nelle marcature luministiche sembra già evidente l’accostamento di Sellitto al naturalismo ‘riformato’ di Fabrizio Santafede (ibid.), con cui Sebastiano Sellitto aveva avuto modo di collaborare, nel 1598, alla doratura dell’ancona con l’Immacolata Concezione per la chiesa dei cappuccini di Aversa (Prota-Giurleo, 1952, p. 16).
Il medesimo nodo culturale è riproposto nella coeva Madonna degli angeli tra i ss. Francesco d’Assisi e Antonio di Padova della chiesa di S. Nicola di Bari a Lauria Superiore (Potenza), attribuita a Sellitto da Maria Vittoria Regina (2004), la cui intelaiatura compositiva pare esemplata sui modelli e sui formulari approntati da Francesco Curia e dall’Imparato, al quale rinviano finanche il timbro baroccesco dei santi e il motivo dei cherubini diademati (De Mieri, 2008, pp. 204-206, 211-213 note 14-23, 214 s., figg. 1-2).
Tali persistenze sopravvivono pure nell’impianto della firmata Madonna del suffragio con le anime purganti e donatore della chiesa di S. Luigi Gonzaga ad Aliano (Matera). La tela è ben nota in virtù della presenza ‘in abisso’ del portentoso ritratto del committente, che, «già intinto di ‘verità’ schiettamente caravaggesca», quasi «si scambierebbe con un pezzo di pittura sivigliana o proto-velazqueña» (Bologna, 1991, p. 34), mentre il brano dei cherubini che sbucano dalle nubi ritorna alla lettera nella devozionale Madonna della Vallicella della quadreria dei Girolamini (Porzio, 2013b).
Alla metà del primo decennio del secolo, ovvero al decisivo momento di transizione dall’esperienza tardomanieristica alla rivelazione caravaggesca, è da riferire il potente S. Bruno in preghiera davanti al Crocifisso del Musée des beaux-arts di Strasburgo (Causa, 1995). Nonostante che per la tela del museo alsaziano, tradizionalmente attribuita a Paolo Finoglio, resti ancora in auge l’infondato riferimento all’ambito del Cavalier d’Arpino suggerito da Nicola Spinosa (Il Maestro dell’Annuncio ai pastori, Bartolomeo Bassante, Antonio de Bellis o Bernardo Cavallino? Riflessioni e dubbi sul primo Seicento a Napoli, in Ricerche sul ’600 napoletano. Scritti in memoria di Raffaello Causa, Napoli 1996, p. 255 nota 8), la paternità sellittiana si rivela nei sottosquadri angolosi del panneggio, nella caratteristica articolazione prospettica delle dita, nell’indagine impietosa delle carni flaccide e grinzose del santo e persino nella superba ambientazione paesistica, gravida di umori nordici.
Intorno al 1607, vale a dire agli esordi dell’attività autonoma del pittore, andrebbe invece collocata la notevole Cena in Emmaus ritrovata di recente in una collezione privata spagnola (Papi, 2017, pp. 14 s., 17). L’aggiunta appare tanto più significativa in quanto la tela rappresenterebbe ‒ finanche nell’arcaico e sensazionale inserto di natura morta ‒ l’incunabolo delle molte interpretazioni che del tema avrebbe poi fornito il giovane Filippo Vitale (pp. 16-19, 21 note 11-15), anch’egli transitato nella bottega di Croys (G. Porzio, in Regards croisés sur quatre tableaux caravagesques (catal.), Paris 2012, pp. 20, 22 nota 13). L’amicizia tra i due dovette in ogni caso andare oltre la circostanza del comune alunnato, se nel 1613 Sellitto tenne a battesimo il primogenito di Vitale, chiamato Carlo in onore del padrino (Prota-Giurleo, 1952, p. 26; D.A. D’Alessandro, Verifiche documentarie e nuove ipotesi per la data di nascita di Filippo Vitale, in Filippo Vitale. Novità ed ipotesi per un protagonista della pittura del ’600 a Napoli (catal.), Milano 2008, p. 11), e se lo stesso Vitale fu più tardi coinvolto nella vendita dei beni rimasti nella bottega dell’amico alla morte prematura di quest’ultimo nel 1614 (Mostra didattica..., 1977, pp. 139, doc. 60, 140, doc. 68, 141 s., doc. 74).
Dal 1608 al 1612 Sellitto fu impegnato nella commissione più importante della sua carriera: la decorazione della cappella ‒ «intitulata sotto il nome di San Pietro» ‒ dei bergamaschi Pietro, Giovan Domenico e Annibale Curtoni in S. Anna dei Lombardi a Napoli (Prohaska, 1975, pp. 3-5, 7; D. de Conciliis et al., in Mostra didattica..., 1977, pp. 63-71, nn. 1-1a, tavv. I-XI). Del ciclo sono sopravvissute solamente le due tele laterali, raffiguranti La consegna delle chiavi e L’apostolo Pietro salvato dalle acque, trasferite nella vicina S. Maria di Monteoliveto a seguito del crollo della chiesa nel 1798 (Spinosa, 2005). Tuttavia, al medesimo complesso appartenevano anche la pala d’altare raffigurante «la Vergine santissima con l’apostolo san Pietro et un altro santo», il tondo nella volta con la «Crocifissione di san Pietro» e «i due [quadri] piccioli» al di sopra dei laterali, «in uno con la figura di San Francesco, nell’altro di San Domenico» (Celano, 1692, 2010, p. 4), il primo dei quali è stato collegato da ultimo all’impressionante S. Francesco in atto di ricevere le stimmate di collezione privata recentemente tornato alla luce (Porzio, 2011 e 2014).
Alla prolifica attività ritrattistica di Sellitto, la cui fama, restituita dai documenti, è testimoniata, ancora nel 1673, dalla nota lettera spedita da Giacomo Di Castro al messinese Flavio Ruffo (Mostra didattica..., 1977, pp. 144 s., doc. 90), è oggi possibile ricondurre unicamente il Ritratto di Adriana Basile presso l’antiquario Porcini a Napoli (Bologna, 1991, pp. 34, 171 nota 56; Porzio, 2017), eseguito poco prima del trasferimento della celebre cantante, nel maggio del 1610, alla corte mantovana di Vincenzo Gonzaga, al quale il ritratto era verosimilmente destinato (ibid.).
Al principio del secondo decennio risalgono le prove più eloquenti della conversione caravaggesca di Sellitto, alla quale dovette imprimere una svolta decisiva il secondo soggiorno napoletano di Merisi (1609-10), che Carlo poté vedere al lavoro nel cantiere medesimo di S. Anna dei Lombardi, dove Caravaggio, com’è noto, era eccezionalmente rappresentato dai tre quadri, oggi perduti, che decoravano la cappella Fenaroli (M. Cinotti, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. Tutte le opere. Saggio critico di Gian Alberto Dell’Acqua, Bergamo 1983, pp. 572 s., nn. 112-114). Al 1610 è documentata, d’altronde, l’esecuzione dell’ancona raffigurante S. Antonio di Padova e angeli della chiesa della Ss. Annunziata di Arienzo (Petrelli, 1985), di cui è stata identificata di recente una seconda redazione, divisa in frammenti tra il Museo Antoniano di Padova e il mercato antiquario, e realizzata, al pari della prima, con il concorso della bottega (Porzio, 2013a); mentre al 1612 è generalmente datata la guasta ‒ ma viepiù caravaggesca ‒ Adorazione dei pastori del complesso napoletano di S. Maria del Popolo agli Incurabili (Prohaska, 1975, pp. 6, fig. 7, 9 nota 42; Pacelli, 1984, p. 175), a lungo attribuita a Battistello Caracciolo sulla scorta del referto di Bernardo De Dominici (1742-1745 circa, 2003, p. 984 nota 54).
Le opere del biennio conclusivo della pur breve parabola di Sellitto sembrerebbero rivelare, accanto all’ascendente merisiano, una cultura più complessa, forse debitrice della conoscenza di Guido Reni, documentato a Napoli già nel 1612 (F. Bologna, Un documento napoletano per Guido Reni, in Paragone, XI (1960), 129, pp. 54-56). A tale svolta sarebbero improntati gli apici indiscussi della produzione estrema del maestro: la già citata S. Cecilia del Museo di Capodimonte; il S. Carlo Borromeo eseguito per la cappella Ametrano in S. Aniello a Caponapoli e ora anch’esso a Capodimonte (Causa, 2008, pp. 193 s., n. 189), di cui è nota una seconda versione, verosimilmente di bottega, nella chiesa di S. Giovanni di Dio a Troia (Acanfora, 2010, pp. 18 s., n. 6); la Visione di s. Candida della cappella Brancaccio nella chiesa napoletana di S. Angelo a Nilo (C. Paolillo - V. Pacelli, in Mostra didattica..., 1977, pp. 80-82, n. 8, tavv. XXVI-XXXI); e, infine, la stupefacente tela di collezione privata con Salomè ed Erodiade che presentano a Erode la testa di Giovanni Battista, restituita al catalogo del napoletano da Gianni Papi (2001).
Morì a Napoli il 2 ottobre 1614 (Prota-Giurleo, 1952, pp. 27 s., 35).
Lasciò incompiuti, tra gli altri lavori rimasti in bottega, il Crocifisso già nella chiesa napoletana di S. Maria in Cosmedin a Portanova (P. Leone de Castris - S. Guida, in Mostra didattica..., 1977, pp. 82-92, nn. 9-9a, tavv. XXXII-XXXIX) e il S. Antonio di Padova con Gesù Bambino già in S. Nicola alla Dogana e oggi nella basilica dell’Incoronata Madre del Buon Consiglio a Capodimonte (pp. 92 s., n. 10, tavv. XL-XLI), opere saldate agli eredi del pittore, rispettivamente, il 18 febbraio e il 22 aprile del 1615 (p. 140, doc. 68, p. 142, doc. 77).
Fonti e Bibl.: C. de Lellis, Aggiunta alla “Napoli sacra” dell’Engenio Caracciolo (ante 1689), IV, a cura di E. Scirocco - M. Tarallo, con la collaborazione di A. Dentamaro, Napoli-Firenze 2013, p. 178; C. Celano, Notitie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli... (1692), Giornata seconda, a cura di P. Coniglio - R. Prencipe, Napoli-Firenze 2010, pp. 4 s.; B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani (1742-1745 circa), a cura di F. Sricchia Santoro - A. Zezza, II, Napoli 2003, pp. 909 s. (note di I. di Majo), 978 s., 984, 991 s. (note di V. Farina); U. Prota-Giurleo, Pittori montemurresi del 600. Con “Addizioni” del dott. Antonio Ragona, Montemurro 1952, pp. 15-39; F. Strazzullo, Precisazioni sul pittore S., in Il Fuidoro, III (1956), 1-2, pp. 77-79; R. Causa, La pittura napoletana del Seicento a Napoli dal naturalismo al barocco, in Storia di Napoli, V, 2, Napoli 1972, pp. 915-994 (in partic. pp. 920-922, 967 s. note 16-24); W. Prohaska, C. S., in The Burlington Magazine, CXVII (1975), pp. 2-11; M. Stoughton, Mostra didattica di C. S.: primo caravaggesco napoletano, in Antologia di belle arti, I (1977), 4, pp. 366-369; Mostra didattica di C. S. primo caravaggesco napoletano (catal.), a cura di F. Bologna - R. Causa, Napoli 1977; W. Prohaska, S. at Capodimonte, in The Burlington Magazine, CXX (1978), pp. 261-264; N. Barbone Pugliese, Contributo alla pittura napoletana del Seicento in Basilicata, in Napoli nobilissima, s. 3, XXII (1983), pp. 81-99 (in partic. pp. 89 s., 98 note 37-41); V. Pacelli, in Civiltà del Seicento a Napoli (catal.), I, Napoli 1984, pp. 175, 446-450, nn. 2.232-2.234; La pittura napoletana del ’600, a cura di N. Spinosa, Milano 1984, figg. 721-729; F. Petrelli, Un’ipotesi per C. S., in Storia dell’arte, 1985, n. 54, pp. 209-214; V. Pacelli, Filippo Vitale nel secondo decennio del seicento al seguito di C. S., in Ricerche sul ’600 napoletano. Saggi e documenti per la storia dell’arte, Milano 1990, pp. 187-200; F. Bologna, Battistello e gli altri. Il primo tempo della pittura caravaggesca a Napoli, in Battistello Caracciolo e il primo naturalismo a Napoli (catal.), a cura di F. Bologna, Napoli 1991, pp. 15-180 (in partic. pp. 17, figg. 2-3, 19, fig. 5, 30-38, 52, tav. 15, 170-172 note 39-67); F. Navarro, ibid., pp. 262-266, nn. 2.5-2.10; S. Causa, Il giovane S., in Dialoghi di storia dell’arte, 1995, n. 1, pp. 156-163; G. Papi, Una nuova prospettiva per C. S., in Paragone, s. 3, LII (2001), 36, pp. 10-18; M.V. Regina, in Visibile latente. Il patrimonio artistico dell’antica Diocesi di Policastro (catal., Policastro Bussentino), a cura di F. Abbate, Roma 2004, pp. 84-87; N. Spinosa, in Caravaggio e l’Europa. Il movimento caravaggesco internazionale da Caravaggio a Mattia Preti (catal.), Milano 2005, pp. 412 s., n. VI.5; S. Causa, in Museo e Gallerie nazionali di Capodimonte. Dipinti del XVII secolo. La scuola napoletana, Napoli 2008, pp. 175 (tav.), 193-195, nn. 189-190; S. De Mieri, Una cona del Rosario, ed altro, per la prima attività di C. S., in Percorsi di conoscenza e tutela. Studi in onore di Michele d’Elia, a cura di F. Abbate, Napoli 2008, pp. 203-221; G. Porzio, in Ritorno al Barocco. Da Caravaggio a Vanvitelli (catal.), a cura di N. Spinosa, I, Napoli 2009, pp. 72 s., n. 1.9; E. Acanfora, in Echi caravaggeschi in Puglia (catal., Lecce-Bitonto), a cura di A. Cassano - F. Vona, Irsina 2010, pp. 16-19, nn. 5-6; B. Savina, C. S. (Napoli 1580-1614), in I caravaggeschi. Percorsi e protagonisti, a cura di A. Zuccari, II, Milano 2010, pp. 667-677; G. Porzio, Un “San Francesco” di C. S. da ritrovare, in Ricerche sul ’600 napoletano. Saggi e documenti 2010-2011, Napoli 2011, pp. 147-152; Id., Una «cona» (e il suo doppio) di C. S., in Cinquantacinque racconti per i dieci anni. Scritti di storia dell’arte, a cura del Centro Studi sulla civiltà artistica dell’Italia meridionale Giovanni Previtali, Soveria Mannelli 2013a, pp. 279-284; Id., Una tela di C. S. ai Girolamini di Napoli, in Bollettino d’arte, s. 7, XCVIII (2013b), 18, pp. 101-106; M.V. Fontana, in Tanzio da Varallo incontra Caravaggio. Pittura a Napoli nel primo Seicento (catal., Napoli), a cura di M.C. Terzaghi, Cinisello Balsamo 2014, pp. 168 s., n. 27; G. Porzio, ibid., pp. 170-173, nn. 28-29; G. Papi, Novità per C. S., in Davanti al naturale. Contributi sul movimento caravaggesco a Napoli, a cura di F. De Luca - G. Papi, Milano 2017, pp. 7-21; G. Porzio, History, devotion, and myth. A selection of old master paintings (catal., Bruxelles), Napoli 2017, pp. 4-11, 59-61, n. 1.