Carlo Sigonio
L’opera di Carlo Sigonio rappresenta un momento di passaggio tra la storiografia politica del primo Cinquecento e le opere del 17° sec., in un periodo di profonda trasformazione che i conflitti religiosi avevano impresso all’ars historica. Nelle sue ricerche sull’Italia medioevale, egli produsse una serie di lavori che si inseriscono nella grande stagione storiografica europea, nella quale s’intrecciavano esigenze apologetiche e critica della tradizione. In questo contesto, Sigonio disegna una parabola della storia istituzionale europea che, se riconosce nella storia romana la sua origine, vede nelle vicende che sconvolsero l’impero dal 6° all’8° sec. il momento di rottura con tale tradizione e l’inizio di una nuova stagione continentale articolata in regni con storie distinte e peculiari. Lo schema proposto, fondato su un’attenta analisi delle fonti, si presenta come un impasto di storie diverse completamente nuovo se paragonato alle opere che lo avevano preceduto. La radicalità della sua proposta, che ebbe una vasta eco in tutta Europa, costituì la ragione principale dello scontro con le istituzioni ecclesiastiche, che cercarono in ogni modo di impedire la pubblicazione delle sue opere e di limitarne la diffusione in Italia.
Nato a Modena tra il 1520 e il 1524, Carlo Sigonio si formò presso lo Studio bolognese, sotto la guida di Romolo Amaseo e successivamente a Modena, dove approfondì gli studi classici con Francesco Porto e Ludovico Castelvetro. La sua crescente fama come storico delle antichità romane lo portò in breve tempo a insegnare a Venezia (presso la Scuola di San Marco), a Padova e infine a Bologna, dove rimase professore di humanitates allo Studio dal 1563 alla morte avvenuta nel 1584.
La sua attività di storico può essere articolata in due momenti distinti: fino al suo arrivo nella città felsinea egli si concentrò sullo studio delle antichità romane (le magistrature, la loro cronologia e il loro funzionamento) che lo impose in Italia e in Europa come un punto di riferimento, anche polemico, della respublica litterarum. Insieme alla storia romana, Sigonio ampliò la sua ricerca all’opera di Aristotele e, in particolare, alla Retorica: le sue lezioni a Venezia e Padova usano i testi dello Stagirita non solo come strumento teorico per la sua riflessione sulle istituzioni antiche e i modelli di governo, ma anche come fonti per l’elaborazione di un’importante opera sul genere del dialogo, che influenzò uno dei suoi studenti più famosi, Torquato Tasso (De dialogo liber, 1562).
L’arrivo a Bologna impresse una svolta nei suoi interessi e nella sua produzione. Il Senato, infatti, lo incaricò nel 1568 di scrivere una storia della città, compito che lo portò ad allargare il suo campo di ricerca dall’antichità alle vicende italiane dell’alto e basso Medioevo. Contemporaneamente all’impegno civile, la nomina di Gabriele Paleotti a vescovo di Bologna e le sue politiche di riforma della Chiesa felsinea coinvolsero Sigonio nelle ricerche sulle tradizioni ecclesiastiche della città, condotte seguendo un rigoroso metodo storico-filologico.
Il nuovo campo di ricerca che impegnò Sigonio fino al 1584 e che, per la prima volta, lo portò a combinare la storia sacra e la storia profana, modificò il suo ruolo all’interno della repubblica delle lettere: egli si ‘trasformò’ da erudito delle antichità greco-romane a storico di vicende al centro della polemica religiosa e politica del tempo.
Le opere scritte in questi anni, che ebbero un destino editoriale complesso e travagliato, costituiscono un blocco unico, figlio di una riflessione coerente e unitaria sulla storia delle istituzioni politiche e religiose dell’Italia dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente al termine del 14° secolo.
Gli argomenti affrontati da Sigonio – quali per es. la veridicità della donazione di Costantino, la nascita del potere temporale della Chiesa di Roma, l’affermazione dei Comuni e il loro legame con l’impero – e il metodo critico applicato alle fonti provocarono una durissima reazione da parte delle autorità romane e, in particolare, di Guglielmo Sirleto.
L’azione del cardinale calabrese, nonostante la protezione su cui Sigonio poteva contare da parte di Paleotti e di Giacomo Boncompagni (figlio del pontefice Gregorio XIII), riuscì a bloccare l’uscita di alcuni dei suoi lavori e investì le opere pubblicate di una serie di rilievi che, di fatto, impedirono la diffusione dei suoi lavori nella penisola italiana fino alla prima metà del 18° secolo. Gli ultimi anni della sua vita furono difficili, caratterizzati da profonde amarezze e inquietudini; Sigonio fu infatti costretto a difendersi dalle pesanti accuse che gli venivano rivolte dagli ambienti romani, insieme alle critiche che lo investirono per lo scandalo, tutto interno alla respublica litterarum europea, dell’edizione di un’opera di Marco Tullio Cicerone, la Consolatio, proposta dallo storico come autentica, ma riconosciuta subito da tutti gli eruditi come un falso.
La figura di Sigonio è stata interpretata come quella di un erudito molto attento all’analisi delle fonti per ricostruire di volta in volta la storia della Repubblica romana, dell’Italia medioevale e della Chiesa e che, negli ultimi anni della sua vita, fu vittima della cultura controriformistica romana che non poteva accettare una libera e rigorosa interpretazione delle fonti, ma pretendeva da chi scriveva di storia un impegno militante nel contrastare le opere scritte e diffuse dal mondo protestante (McCuaig 1989; Prodi 1959-1967, 1977, 2005).
Pur riconoscendo l’interpretazione del Sigonio storico-erudito come assolutamente legittima, l’analisi dei suoi scritti fa emergere anche un altro aspetto, ossia quello dell’intellettuale impegnato a partecipare al dibattito politico del suo tempo mediante l’analisi del potere e della storia delle istituzioni politiche e religiose successiva alla caduta dell’Impero romano d’Occidente.
L’opera di Sigonio si sviluppò lungo un arco di tempo di circa quarant’anni, nei quali uscirono opere di diverso genere che avevano però un comune denominatore: esse erano tutte analisi delle istituzioni e dei rapporti di potere calate nelle rispettive epoche prese in esame e costruite attraverso l’analisi attenta di fonti di diversa natura: letterarie, archeologiche, epigrafiche e documentarie. Ciò che separa l’attività di Sigonio professore a Venezia e Padova da quella di docente nello Studio bolognese è l’epoca presa in esame: prima del 1568 l’oggetto dei suoi studi è la Roma antica, dopo il tardo impero e il Medioevo.
Gli interessi per le antichità romane e soprattutto per la cronologia, le magistrature e il funzionamento delle istituzioni repubblicane, impegnarono Sigonio a partire dai primi anni Cinquanta. Il suo lavoro sulle fonti, documentarie ed epigrafiche, fa ricorso alla moderna tradizione filologica di Lorenzo Valla, Desiderio Erasmo, Pietro Vettori e Andrea Alciato cercando di ricostruire l’età antica secondo le sue specificità linguistiche e culturali. L’erudizione di Sigonio, però, non era algida, né sganciata dai dibattiti italiani ed europei sull’utilità dello studio della storia per affrontare le questioni di natura politica e istituzionale a lui contemporanee.
Lo sforzo di comprendere i meccanismi del potere dell’antica Roma, infatti, fu un lavoro preparatorio alla sua seconda grande impresa, che lo vide occupato negli ultimi vent’anni della sua vita: lo studio delle istituzioni della penisola italiana a partire da Costantino fino al 14° secolo. Lo spostamento degli interessi per la tarda antichità e il Medioevo non è però giustificabile solo come un accidente della sua carriera, vale a dire non è legato esclusivamente all’incarico assegnatogli dal Senato bolognese di scrivere una storia della città, ma piuttosto è da connetersi con la volontà di confrontarsi con un argomento, la genesi degli Stati europei, su cui si stavano cimentando gli altri protagonisti dell’erudizione continentale, e comprendere il ruolo rivestito dalla tradizione romana in questa storia.
Il risultato di questo sforzo, rappresentato dalle opere pubblicate tra il 1574 e il 1582 (Historiarum De regno Italiae libri XV, 1574, 1575, 1580; Historiarum De occidentali imperio libri XX, 1578; De republica Hebraeorum libri VII, 1582), è la costruzione di una storia delle istituzioni italiane lontanissima dalla concezione umanistica e dall’idea dell’eredità romana, e legata piuttosto al dibattito europeo sul contributo decisivo dei popoli barbari, Longobardi, Franchi e Germani.
I due volumi pubblicati rispettivamente nel 1574 e nel 1578, concepiti come un’unica opera, intendono indagare la storia e i mutamenti che interessarono le istituzioni europee, a partire dagli ultimi due secoli dell’Impero romano d’Occidente, riconoscendo come momento di svolta decisivo la crisi delle istituzioni romane e l’arrivo delle popolazioni barbare: la trattazione non si limita a ripercorrere le vicende politiche, ma è un intreccio equilibrato che investe anche la storia delle istituzioni religiose e del diritto.
Una delle novità proposte da Sigonio, rispetto ai suoi predecessori e modelli come Biondo Flavio, il Sabellico e anche Niccolò Machiavelli, è la positività con cui articola l’analisi del contributo dei popoli barbari alla costruzione del regno d’Italia. Non vi è in Sigonio l’idea che le invasioni segnarono l’inizio di una sciagura per le popolazioni italiane, ma piuttosto troviamo la consapevolezza che in quello snodo della storia occorra individuare l’inizio di una nuova stagione: è lì che si deve riconoscere l’origine delle istitituzioni che governano ancora la realtà presente. È in questo contesto che egli presenta la sua storia del regno d’Italia, una storia che ha nella successione di Longobardi, Franchi e Tedeschi le sue tappe decisive per spiegare le vicende legate alla nascita e allo sviluppo delle diverse istituzioni italiane e delle leggi che le sorressero e legittimarono.
Nel progetto di Sigonio c’è qualcosa di più: la scelta di comprendere la sua trattazione tra il 4° e il 14° sec. significa anche studiare il progressivo affermarsi della Chiesa romana come istituzione a partire da Costantino e la sua metamorfosi attraverso i secoli successivi alla caduta dell’impero.
L’argomento non era estraneo ai suoi interessi: nel 1578 il papa Gregorio XIII lo aveva incaricato di comporre una Historia ecclesiastica capace di competere con le opere edite dai protestanti. Sigonio completò in breve tempo 14 libri che coprivano i primi tre secoli della storia della Chiesa, ma una volta sottoposto il materiale al cardinale Sirleto, l’opera fu bloccata e l’incarico venne conferito a Cesare Baronio (McCuaig 1989; Prodi 2005).
Nonostante gli ostacoli provenienti da Roma, Sigonio non rinunciò ad affrontare l’argomento nelle altre sue opere, intrecciandolo con la storia delle istituzioni civili del basso impero e del Regno d’Italia. Il risultato è una ricostruzione storica che nulla concede all’apologia controversistica, anzi, rifiuta qualsiasi legittimazione divina al potere in temporalibus del pontefice romano. Articolata in 35 libri, l’opera ricostruisce i mutamenti istituzionali che investirono l’Europa e l’Italia lungo dieci secoli e, in questo contesto, Sigonio descrive la nascita dei diversi soggetti politici che caratterizzarono la penisola, e i nuovi rapporti di potere che governarono le reciproche relazioni, sulla base delle trasformazioni giuridiche a cui avevano contribuito in modo decisivo le diverse popolazioni che si erano succedute nel dominio dell’Italia.
All’interno di questo schema Sigonio segue con estrema attenzione i mutamenti del diritto, la nascita e l’affermazione dei Comuni e soprattutto il sorgere dello Stato della Chiesa. Quest’ultimo oggetto della sua ricerca attraversa tutte le pagine del suo lavoro trasformandosi progressivamente nello spunto per una riflessione più ampia sulla genesi e le articolazioni del potere. A partire dal rifiuto della validità della donazione fatta da Costantino a papa Silvestro (McCuaig 1989, pp. 259-65), Sigonio riconosce in ogni snodo della storia in cui la potestas in temporalibus dei pontefici, secondo la tradizione cattolica, era stata confermata dagli imperatori Franchi come Carlo Magno e Ludovico il Pio, o tedeschi, come Ottone I, la sottomissione, al contrario, della Chiesa romana al potere temporale (McCuaig 1989, pp. 279-81).
Tanto che, al culmine di questa trattazione, quando descrive il riordino del Regno d’Italia per mano del primo Ottone, Sigonio esce dalla rigorosa trattazione degli eventi storici per aprire una finestra teorica sul rapporto tra le due auctoritates, ribadendo che il potere temporale degli imperatori e il potere spirituale dei papi, ciascuno nel suo ambito, avevano ricevuto la propria legittimità direttamente da Dio per amministrare la respublica cristiana. Scrive infatti:
Certamente, anche se l’Italia era governata dal re, che era lo stesso imperatore, e dal romano pontefice, essi non avevano la stessa auctoritas. Il pontefice governava Roma, Ravenna e le altre regioni più con l’autorità che con l’imperium, poiché le città consideravano il pontefice come un principe di una respublica, e il re invece come un signore supremo e a lui pagavano tributi e rendevano omaggio, come ho già detto. La forza del pontefice risiedeva nel potere di scomunica (sacris detestationibus), molto temuta dai re cristiani, quella dell’Imperatore nelle armi e nell’intervento militare, a cui i pontefici erano spesso costretti a piegarsi. […] Entrambi erano poteri sacri, istituiti per conservare la Respublica Christiana (De regno Italiae, 1575, p. 290).
Alla luce della riflessione storica e politica sulla genesi e sullo sviluppo del Regno d’Italia e, in particolare, sulla presa di posizione decisa da parte di Sigonio su quale significato attribuire al potere in temporalibus e in spiritualibus, si comprende il ruolo dell’ultima opera da lui pubblicata nel 1582, il De republica Hebraeorum.
I sette libri sullo Stato ebraico, infatti, non sono un contributo di Sigonio alla politica di riforma religiosa promossa dal cardinale Gabriele Paleotti, né un completamento della storia della Chiesa interpretata come un processo salvifico dall’Antico al Nuovo Testamento, bensì il tentativo di ritrovare conferma nella storia ebraica di quella idea del potere e del ruolo giurisdizionale delle magistrature che aveva riconosciuto nei mille anni di storia dell’Impero occidentale e dell’Italia. Sigonio, infatti, costruisce la struttura istituzionale della respublica ebraica sulle fondamenta della legge data da Dio agli Ebrei rigorosamente distinta in due parti, ossia i precetti che governano la vita religiosa e quelli che dirigono la vita civile che così descrive:
Ritorno alla legge data da Dio a questo popolo che regge lo stato che dobbiamo descrivere. Questa legge data da Dio a Mosè era composta specificatamente da due capitoli: la vita religiosa e la disciplina civile (De republica Hebraeorum, cit., pp. 15-16).
Di conseguenza, tutto l’impianto dello Stato è organizzato, secondo lo storico, per custodire la legge sulla base di questa distinzione a partire dalle magistrature che Mosè organizzò affinché amministrassero ciascuna indipendentemente la sfera religiosa e la sfera politica («Mosè attribuì il governo a un largo numero di uomini, buoni e saggi, affinché alcuni si occupassero delle questioni religiose e altri di quelle profane», De republica Hebraeorum, cit., p. 24).
Il progetto di Sigonio venne riconosciuto dalle autorità ecclesiastiche romane e attaccato con una serie di rilievi che investivano gli snodi più problematici delle sue opere. Il numero più ampio delle censure è di carattere politico, vale a dire contesta a Sigonio il fatto di avere sottratto la legittimazione divina al potere temporale del pontefice, avallando di fatto le posizioni degli storici e dei polemisti protestanti.
Già a partire dal 1573, infatti, quando era in preparazione la stampa della prima edizione del De regno Italiae, un anonimo censore sollevava pesanti dubbi sugli argomenti proposti dall’autore scrivendo che
nel principio della Historia dice la ruina della Italia esser stata causata da papi. Et oltre che questa è opinione del Machiavelli ne’ Discorsi è pericola ne’ tempi d’hora. Oltre che il papato, e questo et sempre, ha
chiamato alla defensione de quella contra barbari et Franza et altri regni. Et almeno l’esser italiano el Sigonio toccava a lui mantener la riputazione del papato, perché altro bene non è in essa che questa Santa Sede. Et questa ragione politica doveva certo fare più cauto il Signor Sigonio (Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. R 109 sup., c. 148r).
Il richiamo al segretario fiorentino verrà accompagnato negli anni seguenti da altri censori con i nomi di Giovanni Calvino, George Buchanan o Junius Brutus, a testimonianza dei gravi problemi, soprattutto politici, che le opere di Sigonio suscitavano negli ambienti romani. Le conseguenze della posizione assunta dalle autorità ecclesiastiche nei confronti dei lavori dello storico, anche se non comportarono l’inserimento della sua opera nell’Indice dei libri proibiti, contribuirono di fatto a espellere i libri di Sigonio dal panorama culturale italiano, mentre, al contrario, venivano ristampati in tutta Europa in numerose edizioni e venivano riconosciuti come modelli da imitare.
I suoi scritti ricomparvero nel 18° sec. a opera di Filippo Argelati e Ludovico Antonio Muratori e ritornarono a essere non solo un esempio di erudizione e di critica delle fonti, ma anche e soprattutto uno strumento utile per le battaglie giurisdizionali con lo Stato pontificio, testimoniando che proprio lì risiedeva il cuore pulsante del suo pensiero (G. Ricuperati, Cesare Baronio, la Storia ecclesiastica, la Storia ‘civile’ e gli scrittori giurisdizionalisti della prima metà del XVIII secolo, in Baronio storico e la controriforma, Atti del Convegno internazionale di studi, Sora 6-10 ottobre 1979, a cura di R. De Maio, L. Gulia, A. Mazzacane, 1979, pp. 757-814).
De antiquo iure civium Romanorum, Venetiis 1560.
De antiquo iure Italiae, Venetiis 1560.
De dialogo liber, Venetiis 1562.
De republica Atheniensium libri IIII, Bononiae 1564.
De binis comitiis et lege curiata posterior cum Nicolao Gruchio disputatio, Bononiae 1566.
De lege curiata magistratuum, et imperatorum, ac iure eorum, liber, Venetiis 1569.
De iudiciis, in C. Sigonius, De antiquo iure civium Romanorum, Bononiae 1574.
Historiarum de regno Italiae libri XV, Venetiis 1574.
Historiarum de regno Italiae libri XV, Basileae 1575.
Historiarum de Occidentali Imperio libri XX, Bononiae 1578.
Historiarum de regno Italiae libri XV, Bononiae 1580.
Sulpicius Severus, Sacrae historiae libri II, in eosdem Caroli Sigonii commentarius, Bononiae 1581.
De republica Hebraeorum libri VII, Bononiae 1582.
Opera omnia edita et inedita, 6 voll., Mediolani 1732-1737.
The Hebrew republic, introduction by G. Bartolucci, translated by P. Wyetzer, Jerusalem-New York 2010.
L.A. Muratori, Vita Caroli Sigonii, in C. Sigonius, Opera omnia edita et inedita, 1° vol., Mediolani 1732, pp. I-XX.
G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, 5° vol., Modena 1781-1786, pp. 76-119.
L. Simeoni, Documenti sulla vita e la biblioteca di Carlo Sigonio, in Studi e memorie della storia e dell’Università di Bologna, 11° vol., Bologna 1933, pp. 183-262.
P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti, 1522-1597, 2 voll., Roma 1959-1967.
G. Fasoli, Appunti sulla Historia Bononiensis ed altre opere di Carlo Sigonio (1522-1584), in Ead., Scritti di Storia medievale, Bologna 1974, pp. 683-710.
P. Prodi, Storia sacra e controriforma, Nota sulle censure al commento di Carlo Sigonio a Sulpicio Severo, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 1977, 3, pp. 75-104.
A. Biondi, La storiografia apologetica e controversistica, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età contemporanea, a cura di N. Tranfaglia, M. Firpo, 4° vol., L’Età Moderna, 2, La vita religiosa e la cultura, Torino 1986, ora in Id., Umanisti, eretici, streghe. Saggi di storia moderna, a cura di M. Donattini, Modena 2008, pp. 555-74.
W. McCuaig, Carlo Sigonio: the changing world of the late Renaissance, Princeton 1989.
M. Doni Garfagnini, La prefazione al De regno Italiae di Carlo Sigonio, in Ead., Il teatro della storia fra rappresentazione e realtà. Storiografia e trattatistica fra Quattrocento e Seicento, Roma 2002, pp. 197-230.
P. Prodi, Vecchi appunti e nuove riflessioni su Carlo Sigonio, in Nunc alia tempora, alii mores. Storici e storia in età postridentina, Atti del Convegno internazionale, Torino (24-27 settembre 2003), a cura di M. Firpo, Firenze 2005, pp. 291-310.
G. Bartolucci, La repubblica ebraica di Carlo Sigonio. Modelli politici dell’età moderna, Firenze 2007.
L’opera di Carlo Sigonio costituisce un unicum rispetto alla tradizione storiografica italiana del tempo, perché spazia dall’antichità romana al basso Medioevo, dalle vicende locali a quelle nazionali ed europee, dalla storia sacra a quella profana. Negli stessi anni in cui egli andava elaborando i suoi scritti ed entrava in aperto conflitto con le istituzioni ecclesiastiche romane, altri storici, da diverse prospettive e in diversi luoghi della penisola, pubblicavano opere comparabili con la sua per oggetto e metodologia.
Tra quelli, di particolare interesse, anche se chiuso in un circolo localistico, il padre domenicano Tommaso Fazello (Sciacca 1498-Palermo 1570) compose un’opera sulla sua isola, la Sicilia, raccogliendo una sterminata mole di fonti archeologiche e documentarie. Sollecitata dallo storico Paolo Giovio, pubblicata nel 1558, ampliata e rivista nel 1560 e nel 1568 (De rebus siculis decades duae, Palermo) e tradotta in volgare nel 1574 (Venezia), l’opera si divide in due parti: una è dedicata alla descrizione topografica della Sicilia, la seconda sviluppa una storia dell’isola dalle origini a Carlo V, a cui il lavoro è dedicato. La sua ricerca si distanzia in modo sensibile da quella sviluppata da Sigonio, se si eccettua l’uso delle fonti archivistiche e archeologiche (S. Pricoco, Da Fazello a Lancia di Brolo. Osservazioni sulla storiografia siciliana e le origini del cristianesimo in Sicilia, in Il Cristianesimo in Sicilia dalle origini a Carlo Magno, Atti del Convegno di studi, Caltanisetta 28-29 ottobre 1985, a cura di V. Messana, S. Pricoco, 1987, pp. 19-39; R. Contarino, Fazello Tommaso, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 45° vol., 1995, ad vocem). Come lo storico modenese infatti, Fazello ricostruisce in parte la sua storia attraverso un’analisi storico-filologica delle fonti ma, a differenza dell’autore del De regno Italiae, sovrastato dalla mole del materiale finisce per dare credito anche a miti e leggende, che invece erano stati obiettivo polemico di Sigonio. La sua trattazione, in particolare nella seconda parte, si distanzia molto da modelli storiografici come Machiavelli e Guicciardini, limitandosi a giustapporre i fatti in ordine cronologico, non giustificando mai le ragioni e le cause che determinarono gli snodi della storia siciliana. All’interno di questo affresco non mancano interessi pattriottici tesi a esaltare il passato siciliano (come la colonizzazione greca o la riconquista normanna che segnò il ritorno sull’isola del cristianesimo dopo la dominazione degli ‘infedeli’), ma, anche in questo caso, la penna dello storico preferisce soffermarsi su figure ‘esemplari’ piuttosto che ambire a disegnare un quadro più articolato e storicamente complesso di queste vicende.
Di diverso spessore fu l’opera di Scipione Ammirato (Lecce 1531-Firenze 1601), formatosi come storico a Napoli e poi trapiantatosi a Firenze, dove compose le sue opere più importanti. Egli, anche se fu interessato alla ricostruzione documentaria di determinate vicende della storia italiana e fiorentina, sviluppò il corpo principale della sua opera elaborando alcuni trattati tesi a sviluppare, a partire da Tacito, una serie di consigli per governare meglio lo Stato, sull’esempio che gli forniva in quegli stessi anni l’opera di Giovanni Botero sulla ragion di Stato (Discorsi del signor Scipione Ammirato sopra Cornelio Tacito, 1594; R. De Mattei, Ammirato Scipione, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 3° vol., 1961, ad vocem; R. De Mattei, Il pensiero politico di Scipione Ammirato, 1959). L’obiettivo polemico della sua opera era Machiavelli, ma i rilievi al segretario fiorentino non possono essere ricondotti a quella letteratura antimachiavelliana che aveva contraddistinto il 16° secolo. L’approccio di Ammirato è piuttosto quello di un confronto critico, testimonianza ne è il fatto che lo studioso salentino si concentra sui Discorsi piuttosto che sul Principe, vale a dire su un’opera nella quale l’uso delle fonti e l’analisi storica erano più articolati. Un esempio interessante, proprio perché permette un confronto con l’opera di Sigonio, sono i discorsi in cui Ammirato critica l’idea di Machiavelli di una storia italiana segnata dalle politiche papali che hanno contribuito alla sua divisione e debolezza. In questo caso Ammirato contesta l’assunto di Machiavelli sulla base di un’attenta analisi delle fonti storiche, arrivando a dedurre che proprio la divisione in realtà politiche distinte aveva contribuito allo sviluppo politico e culturale della penisola (Opuscoli del Sig. Scipione Ammirato, 1637; G.M. Monti, Un avversario cinquecentesco dell’unità d’Italia: Scipione Ammirato, in Studi in onore di Niccolò Rodolico, 1944, pp. 263-73).