STUPARICH (Stuparovich), Carlo
STUPARICH (Stuparovich), Carlo. – Nacque il 3 agosto 1894 a Trieste, allora porto franco dell’Impero asburgico, da Marco, dalmata di Lussino e di tradizione marinara, e da Gisella Gentili, triestina di origine ebraica e di discendenza commerciale.
Pur in una situazione economica non florida, i genitori offrirono ai loro figli Giani (v. la voce in questo Dizionario), Carlo e Bianca una solida educazione culturale.
Carlo era il più inquieto, in sintonia con il ribellismo di una generazione che non si identificava più nei valori di un conformismo prudente, ma che non aveva ancora trovato il modo di sostituirli. Così, fin dagli anni di scuola, se confessava apertamente la propria noia per una cultura incapace di stimolarlo all’azione, rivelava anche una certa discontinuità nei rapporti con la famiglia, che amava ma che talvolta sentiva opprimente.
Nei suoi componimenti in versi e in prosa, nei passi di diario e nella sua corrispondenza privata, mostrava sensibilità per la natura e soprattutto per l’arte, campo in cui avrebbe voluto eccellere. Sono molte le pagine in cui lamentava la difficoltà di trovare un equilibrio interiore, in bilico come si sentiva tra una fierezza incrollabile e una tenerezza femminile, e cercava un dovere superiore per cui valesse la pena di piegarsi o soffrire.
Dopo il liceo, nel 1913 si iscrisse, come molti triestini, all’Istituto di studi superiori di Firenze, dove frequentò l’ambiente della Voce di Giuseppe Prezzolini; qui si incontravano anche il fratello maggiore Giani, sua guida spirituale, e l’amico Scipio Slataper, il cui romanzo Il mio Carso (1912) Carlo mostrava di apprezzare. Tuttavia non si amalgamò con quel gruppo, che pure contestava costumi e valori del nuovo ceto egemone, la borghesia ottimista del decollo industriale.
Giudicava frettolosa e meccanica anche l’analisi interiore da loro tentata in racconti in certa misura autobiografici, considerandoli, sulla scorta di colloqui con il musicologo Giannotto Bastianelli, espressione di un’arte adolescenziale. Auspicava, viceversa, una poesia della maturità virile che, come gli suggeriva Giovanni Gentile, avrebbe dovuto fondere pensiero e azione, contenuto e forma, perché pensava che fosse necessario affrontare un esame di «esistenza», piuttosto che di «coscienza». Identificò nel bene della patria l’obiettivo della sua vita, cui fu condotto dall’assidua lettura, iniziata da liceale, dei saggi letterari di Francesco De Sanctis, soprattutto quelli su Dante Alighieri, Giuseppe Parini, Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni; accanto a questi, fondamentali furono gli scritti filosofico-politici di Giuseppe Mazzini, soprattutto Dei doveri dell’uomo (1860). Si convinse che, nel nome della propria nazione e di un Dio padre di tutti gli uomini, ognuno dovesse vivere per gli altri, perché lo scopo della vita non doveva ridursi nella ricerca della propria felicità, ma di una giustizia capace di rendere sé stessi e gli altri migliori.
Cominciò presto la sua carriera di letterato pubblicando nel 1914 un paio di articoli di carattere didattico su La voce degli insegnanti, mentre per La voce prezzoliniana esordì con Siamo quello che siamo (13 febbraio 1914, n. 3, p. 40), pezzo in cui rifletteva sul problema dell’individualità degli uomini e delle nazioni. Pensando alla sua città natale, in cui cultura slovena, tedesca e italiana avevano dimostrato di saper convivere, affermava che nessuna di queste avrebbe dovuto perdere la propria identità, seppure si identificava in quella italiana. Espresse così nel 1914 tutta la sua delusione per la mancata entrata in guerra dell’Italia, dal momento che i nazionalisti avevano cominciato ad auspicare una possibile annessione di Trieste al Regno dei Savoia, in caso di vittoria.
Eppure amava la letteratura nordica, tanto che in una lettera, in cui comunicava alla madre l’arrivo del fratello a Firenze, esprimeva tutta la sua soddisfazione per aver finito la traduzione dell’Epistolario di Heinrich von Kleist, il poeta tedesco morto suicida, per il quale Giani aveva pronta l’Introduzione. Il volume uscì nel 1919, come opera di Giancarlo Stuparich, nome in cui venivano fusi i nomi dei due fratelli.
Allo scoppio della guerra Carlo si trovava ancora a Firenze, grazie a un permesso austriaco, che temeva gli venisse revocato nel caso di un suo ritorno a casa. Fin dal gennaio del 1915 le sue lettere ai familiari vennero prudenzialmente scritte in codice, e tramite queste sappiamo che Giani, varcata la frontiera, lo aveva raggiunto e che insieme andavano a fare gli esercizi militari con il battaglione dei volontari al Campo di Marte; passavano il resto del tempo tra passeggiate, ricordi familiari, progetti editoriali e incontri culturali. Dopo che la guerra fu dichiarata anche dall’Italia, i due fratelli accorsero a Roma dove, con Slataper, si arruolarono volontari nel 1° reggimento Granatieri. Mentre i lealisti triestini già da quasi un anno combattevano in Galizia per l’Impero asburgico, gli irredentisti si schierarono a favore del Regno d’Italia. Per non essere subito riconosciuti come disertori nel caso fossero stati fatti prigionieri, i due fratelli Stuparich presero il nome di Sartori, mentre Slataper scelse quello di Sandri.
Il 2 giugno 1915 partirono per Monfalcone, retrovia delle trincee del Carso. Ma proprio dalle prime linee, pochi giorni dopo l’arrivo, Carlo raccontava di una vita di trincea non proprio esaltante, anche perché non gli sembrava che i suoi commilitoni odiassero il nemico quanto sarebbe stato necessario per sconfiggerlo. In effetti scarso era l’entusiasmo dei fanti costretti a una vita disumana e non proprio festosa era stata l’accoglienza dei volontari, sospettati di fare doppio gioco e comunque invisi per aver aderito entusiasticamente a una guerra rivelatasi subito durissima.
Insieme con il fratello, Carlo frequentò un corso di allievi ufficiali, rivelatosi insufficiente a sollevare l’animo del giovane che, stanco e provato, aveva la sensazione di essere sul punto di perdere quella fede che lo aveva sorretto nella scelta.
Si lasciava andare a descrivere le condizioni precarie in cui, come gli altri, era costretto a vivere, nonché le umiliazioni cui doveva abituarsi, tanto più dure quanto più tenere erano state prima le cure familiari: era la confessione drammatica di una delusione, se affermava che la guerra attuale era totalmente diversa da quella descritta da Lev Tolstoj in Guerra e pace (1867-1869).
Poi i due fratelli si separarono: Carlo fu nominato ufficiale della Milizia territoriale a Verona e Giani a Vicenza. Il primo scriveva all’altro, due giorni dopo la loro separazione, descrivendo le sue mansioni di addetto alla formazione di nuovi reggimenti. Gli anticipava che avrebbe fatto domanda per tornare al fronte, ma di voler prima riunirsi a lui. Non taceva la nostalgia per la madre e la sua delusione per un futuro di ufficiale operativo solo nelle retrovie. A un’amica esponeva la possibilità concreta di una sua morte, cui era ben rassegnato, come confermava a Giani, recandogli la notizia della scomparsa di un granatiere molto popolare tra loro. Lo sforzo di dare un senso alla sua sofferenza lo portava a ringraziare il destino che gli avrebbe consentito di morire da italiano. Si rimproverava spesso per i propri cedimenti allo sconforto, che riusciva a superare solo tornando tra i suoi soldati. La notizia della morte di Slataper, caduto sul Podgora, gli venne comunicata nelle ore in cui gli era arrivata anche la circolare n. 191 del 25 febbraio 1915, Attacco frontale ed ammaestramento tattico, scritta dal generale Luigi Cadorna.
Non pianse per la morte dell’amico, sentendosi calmo e fermo, pronto a tutto, fuorché alla piccola vita e ai piccoli affetti comuni. Il libretto di Cadorna doveva averlo colpito perché l’unica raccomandazione chiara era di ubbidire ciecamente ai superiori e di avere fede nelle direttive da loro impartite: era l’ordine che cercava per piegarsi a un valore supremo e porre, come scriveva, sé stesso al servizio di un’opera che assorbe l’intelligenza e non le permette di abbandonarsi ai sentimenti.
Scrisse lettere rassicuranti alla madre (alcune firmate con lo pseudonimo Anita Fritz) e spedite, grazie ad alcuni amici intermediari, attraverso la Svizzera. La notte del 19 maggio 1916 i due fratelli partirono per l’altopiano di Asiago. Il 30 maggio, per una serie di incredibili disguidi, il plotone che Carlo comandava si trovò isolato sul Cengio tra le linee nemiche: dopo aver visto cadere i suoi, non ebbe dubbi sul dovere da compiere e, per non essere fatto prigioniero, si sparò un colpo di rivoltella.
Sapeva che sarebbe potuto succedere se una delle prime preoccupazioni al suo arrivo in trincea, il 3 luglio 1915, era stata quella di lasciare un testamento spirituale alla madre, paragonata a quella di Cristo. Ribadiva che la scelta di andare volontario era dovuta anche agli insegnamenti avuti in famiglia, e che dunque lei avrebbe ben compreso il suo sacrificio.
Opere. Carlo Stuparich è autore di Cose e ombre di uno, raccolta composta da un capitolo dallo stesso titolo (che riunisce poesie e raccontini), dal Diario, dagli articoli apparsi ne La Voce, dall’Epistolario e dal Testamento. È stato pubblicata a cura e con Prefazione di Giani Stuparich nei Quaderni della Voce (Roma 1919; poi, nuova ed. interamente rifatta, Milano-Roma 1933). Successivamente è stata riproposta con Introduzione di Arnaldo Bocelli (Caltanissetta-Roma 1968); di Fulvio Salimbeni (Trieste 2000); di Enrico Nistri (Empoli 2006, con bibliografia completa degli scritti di e su Carlo Stuparich). I suoi due articoli didattici sono Scienza e conoscenza, in La Voce degli insegnanti, 15 febbraio-1° marzo 1914, n. 44, pp. 64 s., e L’educazione come attualità, ibid., 1° aprile 1914, n. 46, pp. 87 s.: entrambi sono leggibili in R. Gariboldi, Pagine inedite e disperse di C. S., in Otto/Novecento, XI (1986), 3-4 (maggio-agosto), pp. 43-161. Stuparich è autore anche degli articoli In morte dell’amato professore Steno Tedeschi, in Annuario del Ginnasio superiore comunale di Trieste, a.s. 1910-11, Trieste 1911, e La Penthesilea di Enrico Kleist, in Il Piccolo della sera, 17 aprile 1922.
Fonti e Bibl.: Su Stuparich esistono numerosi articoli anche di poche righe o poche pagine. Si vedano almeno: G. Titta Rosa, Ritratto di C. S., in L’illustrazione italiana, XXI (1933), maggio, pp. 774-778; A. Visalberghi, C. S., in Ansedonia, III (1939), pp. 7-17; A. Gargiulo, C. S., in Id., Letteratura italiana del Novecento, Firenze 1940, pp. 364-369; R. Ramat, Cose e ombre di uno, in Id., Ragionamenti morali e letterari, Bari 1945, pp. 199-209; V. Frosini, C. S., in Il Ponte, IV (1948), 4, pp. 392-395; G. Stuparich, Mio fratello Carlo e i suoi libri, in Inediti triestini, Trieste 1956, pp. 67-71; R. Bertacchini, C. S., in Otto/Novecento, XIV (1990), 3-4 (maggio-agosto), pp. 82-149; V. Frosini, La famiglia Stuparich, Udine 1991; F. Todero, Carlo e Giani Stuparich: itinerari della Grande Guerra sulle tracce di due volontari triestini, Trieste 2008; C. Benussi, C. S.: un esame d’esistenza, in Rivista di letteratura italiana, XXXIV (2016), 3, pp. 65-84.