TERRON, Carlo
– Nacque a Verona l’11 aprile 1910, primogenito di Antonio, commerciante, e di Pia Pierina; ebbe una sorella Maria Teresa, che visse con lui per tutta la vita.
Nel 1924 si iscrisse al liceo scientifico cittadino e intanto collaborò, come critico teatrale e musicale, all’Arena di Verona, poi per la pagina cinematografica tra il 1941 e il 1943. Con due saggi sulla difesa del vernacolo a teatro e sul melodramma (come unico vero teatro italiano) vinse i Littoriali della gioventù. Nel 1942 al Cineguf veronese tenne una relazione sull’etica nel cinema. Laureatosi nel 1935 in medicina all’Università di Padova, si specializzò in malattie nervose e fu nominato, subito dopo, primario all’ospedale psichiatrico di Verona. Nel 1939 venne chiamato come sottotenente medico all’ospedale militare veronese e di lì inviato alla guerra d’Albania come ufficiale medico, dove pose le basi per la creazione del reparto psichiatrico all’ospedale di Tirana.
Nel 1941 al Guf fiorentino debuttarono I morti, suo dramma adolescenziale, inscenato in un ospedale dove tutti erano malati di cancro, a riprova di uno spleen interiore. Nel 1942, catturato dai tedeschi, nel viaggio verso la Germania, durante una sosta a Trieste, riuscì a fuggire. Il 22 settembre riabbracciò i familiari, sistemandosi però con loro negli appartamenti del manicomio riservati ai medici, avendo una bomba distrutta la loro casa. Nel 1944 morì il padre, già da dieci anni paralizzato e privo di parola. Nel giugno del 1945 si spostò a Milano, dove fu poi raggiunto dalla madre e dalla sorella, su invito di Aldo Palazzi per collaborare al Tempo. Durante la trentennale attività recensionistica e la produzione drammaturgica, non abbandonò l’attività di medico lavorando alla mutua di piazza Firenze. Divenne quindi redattore del Corriere della sera (la proprietà non lo confermò alla rubrica teatrale per l’anticonformismo considerato eccessivo), quindi collaboratore al mensile La Lettura e, nel 1947, al Corriere di Milano.
Nel 1949 vinse il premio Riccione con la commedia Giuditta: da qui, nuove collaborazioni richieste dal Corriere lombardo, Sipario, Il Dramma e La Notte tra il 1955 e il 1977. Nel 1952 venne chiamato da Sergio Pugliese nel gruppo che stava creando la Televisione italiana, e nel 1954 fu scelto quale direttore del settore prosa e musica, rimanendovi fino al trasferimento della sede da Milano a Roma. Negli stessi anni fece parte della commissione giudicante per il premio Renato Simoni. Nel 1960 vinse il premio IDI (Istituto del Dramma Italiano) con Lavinia tra i dannati. Nel 1962 e per due anni diresse il teatro di palazzo Durini a Milano, inserendo novità italiane e straniere. Nel 1964 morì la madre. Nel maggio del 1968, mentre si trovava ad Ankara in Turchia per recensire l’Enrico IV, subì un primo attacco di angina pectoris, per cui si fece operare nel 1972 a Losanna, con esito positivo.
Morì, all’ospedale Fatebenefratelli di Milano, il 16 luglio 1991.
Una bulimia produttiva caratterizzò l’attività teatrale di Terron, con almeno una cinquantina di titoli in cui registri drammatici, con la tentazione della tragedia storica o metastorica, si alternavano al vaudeville agile e caustico e al divertissement faceto e spumeggiante. Ma i moduli potevano incrociarsi nella chiosa ironica e nella coscienza della finzione teatrale da parte del personaggio anche nel climax emotivo.
Nella biblioteca personale, la professione medica e la competenza diretta del tedesco gli fecero amare i Casi clinici freudiani (su cui però espresse una corrosiva distanziazione in Il complesso dell’obelisco ovvero le risorse della psicanalisi, del 1968), per lo stile conciso e la narrazione serrata di storie patologiche. Uno scintillante humour laico-illuminista e positivista arieggiò le sue trame, alla ricerca smodata di calembour provocanti, in una lingua secca e puntuta, esemplificato nel titolo di una sua raccolta, Teatro libertino, del 1965, a partire da Non c’è pace per l’antico fauno (1951).
Modelli assimilati, da una parte nel versante inglese, archetipi George Bernard Shaw con il suo antipuritanesimo e Oscar Wilde con le boutades salottiere, ma anche gli ‘arrabbiati’ del secondo dopoguerra, e ovviamente americano, tra Tennessee Williams e Thornton Wilder; dall’altra in quello francese, da Molière a Jean Anouilh rosa e nero a Georges Feydeau, specie per i ritmi mozzafiato della pochade per quest’ultimo. In area italiana, non mancava il rimando controverso a Luigi Pirandello, molto amato nelle opere ‘maschili’, ovvero prima dell’incontro con la musa Marta Abba, in particolare Liolà e Così è (se vi pare).
A Pirandello si avvicinava il playtime, la riflessione accorata sul tempo che tutto travolge, come nella scissione tra il giovane e il vecchio in Le tre settimane di Luca La Costa (1989), in cui un anziano archeologo di grande prestigio rievoca dal lontano passato un’avventura romantica e traumatica, poi sempre nascosta, con un rapinatore di banca che l’aveva sequestrato, prima di suicidarsi. In dinamiche del genere, si notavano anche assonanze, per l’ossessione tribunalizia, con Ugo Betti, cui lo collegavano drammi come Processo agli innocenti (1950), con vedove ninfomani alla ricerca di soddisfazioni erotiche con ragazzi di vita.
Gran consumatore di romanzi, da Honoré de Balzac a Gustave Flaubert a Marcel Proust, e di poesia, specie sul fronte Paul Verlaine-Arthur Rimbaud, anche per la loro vicenda amorosa, Terron ospitava nella rete dialogica ampi squarci narrativi, con forte propensione al monologo, da quelli brevi e taglienti per Paola Borboni a quello fluviale che mescolava più ruoli in Ecco Nerone ovvero un personaggio in cerca d’autore per Mario Scaccia (1981), dissociato in sbalzi vertiginosi tra il personaggio storico, con gli annessi Seneca e la madre Agrippina, e continui sconfinamenti nel mattatore che parla del mondo teatrale da dietro le quinte, tra gossip professionali e leggende del palcoscenico, in primis la divina Eleonora Duse e l’anima evocata di William Shakespeare.
Tra i filoni più attraversati, in primo piano la satira sui costumi di provincia e della classe borghese, nel rilancio economico del Paese, che lo avvicinava al Dario Fo degli anni Cinquanta e Sessanta, pur da posizioni non di sinistra, per il gusto del rovesciamento di gerarchie o di situazioni. Si veda il grottesco atto di accusa contro la scienza indifferente all’uso militare delle sue scoperte grazie alla caricatura dello studioso cornuto con finale apocalittico in Avevo più stima dell’idrogeno ovvero lo sciopero delle bombe (1955). Affinità pure con Alberto Arbasino e Giovanni Testori per la mimesi dell’oralità gergale regionale e con Dino Buzzati per l’ironia sui ricchi consumisti. Il decollo in tal senso si ebbe con I denti dell’eremita nel 1942, farsa sulla rapacità del mondo contadino, per un’eredità legata al reperimento dei resti di un santo.
Di fatto, le sue pièces si offrivano ai tempi di lunga durata della lettura (da qui il puntiglioso esito editoriale in più tomi della sua opera), più che alla messinscena, pur non irrilevante per la partecipazione dei migliori attori di quegli anni, ma d’altronde senza divenire repertorio nazionale, limite di tutta la drammaturgia nostrana nel secondo dopoguerra e condizione denunciata amaramente in feroci recensioni dallo stesso Terron in veste di critico. Ma nelle debordanti didascalie, assolutamente bizzarre per l’estensione anomala, altresì emergeva il carattere metateatrale dell’intensa e stratificata cultura di Terron adattatore di opere altrui, da Lope de Vega a Molière, da Alexandre Dumas a Jean-Paul Sartre a Jean Cocteau, da Shakespeare a Charles Dickens. Così, la riscrittura riciclava personaggi antichi, alla maniera un po’ di Alberto Savinio, come nella citata Giuditta, trasferita da Christian Friedrich Hebbel in una villa sequestrata dal generale nazista cui la donna s’è concessa, per poi uccidersi, in un clima depressivo dove un partigiano sentenziava che Dio è morto. O ancora in Ippolito e la vendetta del 1958, con il giovinetto ingelosito dalla felicità coniugale tra il padre Teseo e la matrigna. In Rose per Ecuba, del 1982, il plot euripideo sconfinava nella lacerante vicenda di una celebre attrice, madre infelice perché costretta a scegliere uno tra i suoi tre figli da sacrificare all’ufficiale nazista di turno. In questo territorio, magistrale Rissa col diario (Autopsia di un matrimonio), scritto tra il 1983 e il 1984 e al debutto scenico nel 1988, montaggio tra frammenti di diari di Lev Tolstoj (di cui aveva già ridotto Resurrezione nel 1955) e di sua moglie Sofia, gara di crudeltà impietosa e saliscendi umorale tra i coniugi, tensione già presentata in Stasera arsenico (1967), con rimandi ad August Strindberg. Efficace il contributo originale alla vicenda shakespeariana di Otello, con Ma insomma Jago che intenzioni aveva? (1989), con frenesie di docce in comune e afrore di slip sudati in caserma tra i due maschi. Inoltre, la stessa didascalia non si limitava a introdurre i personaggi e gli ambienti, ma si scatenava, in forma di monologo, con attacchi contro il dominio recente dei registi, dallo sfarzo viscontiano alla recitazione epica strehleriana, oltre a chiacchierare con il lettore (non con lo spettatore), indugiando in primi piani trasognanti sui corpi nudi dei giovinetti, consentiti dalla pagina e non dalla ribalta. Di nuovo vi incrociava autoironia autoriale a sprezzatura verso le proprie creature, inserita a raffreddare il gusto esplicito per i colpi di scena e il patetismo di un frequentatore nella prima infanzia dell’Arena veronese. Si veda Baciami, Alfredo (1969) o gli sbalzi nervosi tra attrazione fisica e noia nella coppia in luna di miele in La sposa cristiana (1964).
Una drammaturgia che si potrebbe compendiare nell’aforisma wildiano secondo cui l’arte rappresenta una menzogna che vuol dire la verità. Lungo la sua carriera si assisteva in effetti, dietro una crescente prolissità verbosa, alla progressiva emersione di pulsioni omofile, poco compatibile con la censura sessuofoba del tempo e nondimeno declinata con furia compulsiva, con la ripresentazione a distanza di personaggi feticcio, da madri in fregola a toy boys dalla dismisura fallica, magari impersonati in muscolosi camerieri negri, prelevati dal teatro di Jean Genet, o in gidiani giovinetti efebici, pallidi nella costante disponibilità. Magari la loro nudità poteva venir spiata con il binocolo da genitrici incestuose. Così Le ascelle verdi (1989), in cui si intrecciavano impulsi possessivi con madri vogliose che si scambiano i rispettivi figli (motivo già anticipato in Non sparate sulla mamma, del 1962, dove si trattava di intenti pedagogici, ossia iniziare correttamente il ragazzo alla pratica eterosessuale), ma dove uno di loro confessava la passione travolgente per il proprio padre. In tal modo spuntava anche la suggestione pasoliniana (si pensi a Salò o le 120 giornate di Sodoma) riflessa con eloquente spigliatezza in Vita senza Tobi ovvero la spiegazione rimandata (1989), in uno scenario mitologico in cui signore attempate si trastullavano con aitanti gigolò, intrecciati tra loro, sino alla morte sacrificale del protagonista eponimo. Per non parlare della drammaturgia napoletana di Annibale Ruccello ed Enzo Moscato, con i prostituti e le maitresse, come Il rito (1984) in cui, grazie al gioco insistito di travestimenti anche femminili da parte di amicizie gay, ognuno esibiva la propria notte.
In conclusione, con l’intensificarsi di simili ambientazioni allegramente perverse, Terron sceglieva titoli emblematici per le ultime raccolte: Quattro commedie da fischiare, in cui spiccava un copione come Diversi si nasce, normali si diventa ovvero la commedia degli odori (1984), centrato su due coppie omosessuali, due donne e due uomini, in una combinatoria poi montata a chiasmo. Contiguo a vizi privati e pubbliche virtù, il gusto per la decadenza, l’epitaffio sulla scomparsa di una civiltà, l’aristocrazia veneziana destinata alla fine tra acque morte e muschi maleodoranti, in Piume ovvero una grande famiglia (1964). Oppure la desolazione e il disincanto, innestati sulla violenza nei rapporti interpersonali, entro l’istituto familiare nella pianura Padana: ecco allora Lavinia fra i dannati, con forte influsso di François Mauriac (pur senza l’assillo cattolico), con il marito avvelenato dalla protagonista, prima facile preda di istinti predatori poi travolta dal senso di colpa, e dal cognato prete, insudiciato nella tresca. O le tensioni sadomasochiste in Notti a Milano (1953), infestate da febbrili prostitute. Forse, questo teatro risultò in anticipo sui tempi, prima della liberazione sessuale. La riprovazione, tanto temuta e desiderata dallo scrittore veronese, verrebbe certo meno oggi.
Opere. I primi due volumi che raccolgono la ricca produzione di Terron (33 testi), entrambi curati da Giorgio Pullini, il suo più solidale esegeta, uscirono a Bologna rispettivamente nel 1961 e nel 1971. In mezzo vi furono gli atti unici conglobati in Riso verde: quattro facce dello stesso prisma (in Il Dramma, n.s., XL (1964), 328, pp. 5-57) e il volume Teatro libertino (Torino 1965), con copioni poi ripresi nella editio maior. Il terzo, con ulteriori 11 opere, prefato da Sergio Torresani, con il titolo Teatro Tre, edito dalla rivista Sipario, Milano s.d. [ma 1989] comprende Sette commedie da applaudire e Quattro commedie da fischiare. Le ultime commedie vennero pubblicate in Gli Alieni: tre commedie corsare (Roma 1990). Nel 1959 Einaudi pubblicò la sua traduzione di Mercadet l’affarista di Honoré de Balzac. Seguirono, postumi, l’antologia di scritti critici Il gusto dell’ironia, con prefazione di G. Antonucci e S. Bajini, a cura di S. Persi (Urbino 1995), nonché, per l’attività di critico cinematografico, Poltrona al buio: due anni di cinema (1941-1943), a cura di A. Pesce (Milano 1996).
Fonti e Bibl.: Fondamentale, per un ritratto completo di Terron, l’ampio numero monografico della rivista Sipario: rassegna mensile dello spettacolo (1996, n. 570), che analizza la poliedrica figura, anche negli impegni secondari, tra cui cinema e televisione. La stessa rivista nei primi anni Novanta stipulò una convenzione con la Fondazione a lui intitolata, avviando un centro di archiviazione, documentazione e promozione del teatro italiano.
G. Moro, Il teatro di C. T., Bologna 1976; G. Pullini, C. T., in Rivista italiana di drammaturgia, 1978, n. 7, pp. 89-98.