Carlo V
Nato a Gand nel 1500, figlio dell’arciduca d’Austria Filippo il Bello – e quindi nipote dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo – e di Giovanna la Pazza, figlia di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia, a soli sei anni eredita dal padre i Paesi Bassi. Nei primi anni della sua infanzia, trascorsi a Malines e a Bruxelles, la zia Margherita d’Austria, reggente dei Paesi Bassi, lo fa educare dagli umanisti spagnoli Juan de Vera e Luis Vaca e da Adriano di Utrecht (il futuro papa Adriano VI). Nel 1516, alla morte di Ferdinando il Cattolico, diventa re di Aragona e di Castiglia, nonché dei possedimenti spagnoli nel Nuovo Mondo. Nel 1519, alla morte del nonno Massimiliano, C. si candida alla corona imperiale, che riesce a conseguire dopo lunghe trattative con i principi elettori. Il 23 ottobre 1520 viene incoronato ad Aquisgrana. Dopo l’elezione di C., il re di Francia Francesco I, che era stato suo contendente nella candidatura, viene a trovarsi in una posizione difficile per il timore che il suo regno possa essere attaccato su tutti i fronti lungo i quali il territorio francese confina con l’impero: dalle Fiandre, dai Pirenei, dalle Alpi e lungo il Reno. Nel 1521 tra il re di Francia e l’imperatore ha inizio una lunga serie di guerre, originate dalla rivendicazione di Francesco I dei suoi diritti sul ducato di Milano, la prima delle quali (1521-25) termina a favore dell’imperatore con la vittoria di Pavia (24 febbr. 1525). Per contrastare C., il re di Francia si allea, nel maggio del 1526, con il papa Clemente VII, con Firenze e con Venezia (lega di Cognac), ma ancora una volta l’imperatore riesce a ottenere la vittoria.
Il 6 maggio 1527 Roma viene messa a sacco dai lanzichenecchi (mercenari al soldo dell’impero, aderenti alla riforma religiosa iniziata nel 1519 in Germania da Martin Lutero), che rinchiudono in Castel Sant’Angelo lo stesso pontefice. Clemente VII è quindi costretto a venire a patti con C., con i trattati di Barcellona (1529) e di Bologna (1530), in seguito ai quali, il 24 febbraio 1530 C. è incoronato imperatore dal papa a Bologna. Dopo la riconciliazione tra impero e papato, C. tenta di togliere ai luterani il libero esercizio della loro confessione, già concesso con la dieta di Spira del 1526, ma i principi tedeschi luterani si uniscono nella lega di Smalcalda per difendere la loro confessione. La guerra tra C. e la lega, sostenuta da Francesco I, si protrae a fasi alterne fino alla sconfitta inflitta alle forze protestanti con la battaglia di Mühlberg (24 apr. 1547). La vittoria di C. sui luterani è favorita anche dalla pace stipulata tre anni prima a Crépy tra l’imperatore e Francesco I (18 sett. 1544). La questione religiosa apertasi in Germania nel 1517, prima ancora che C. diventasse imperatore, viene poi regolata con la pace di Augusta (25 sett. 1555), che riconosce ai protestanti una limitata libertà religiosa in base al principio del cuius regio eius et religio. C., contrario a tale soluzione perché convinto che rompa irrimediabilmente l’unità della cristianità e dell’impero, lascia nello stesso anno la corona imperiale al fratello Ferdinando I e il governo dei Paesi Bassi al figlio Filippo II; nel 1556 affida allo stesso Filippo anche la corona di Spagna. C. muore due anni dopo in Spagna, nel monastero di S. Jerónimo de Yuste, dove si era ritirato.
La figura dell’imperatore C. non ha un particolare rilievo nell’opera di M., che ne segue l’attività in relazione al conflitto con Francesco I per la supremazia in Italia fino alle soglie del sacco di Roma. Si è parlato di «marginalità» in relazione al periodo precedente la battaglia di Pavia e alla vittoria dell’Asburgo sul re di Francia Francesco I (J.-J. Marchand, in Bologna nell’età di Carlo V e Guicciardini, 2002, p. 253) e si è sottolineato come, anche nel periodo successivo, M. menzioni esplicitamente l’imperatore solo nell’epigramma “Sappi ch’io non son Argo”, e gli dedichi alcune osservazioni nelle lettere a Francesco Guicciardini (missive del 3 genn. e del 15 marzo 1526).
La marginalità registrata negli scritti di M. prima di Pavia è stata attribuita «all’intento del Machiavelli – quale costante del suo pensiero fin dagli scritti della fine degli anni Novanta – di porre il singolo caso nel contesto delle regole costanti della storia e della politica (quando non […] addirittura in quello delle regole fondamentali dell’agire dell’uomo)» (J.-J. Marchand, in Bologna nell’età di Carlo V e Guicciardini, 2002, p. 253). Nel memoriale indirizzato a Raffaello Girolami dell’ottobre 1523, M., forte del suo già consolidato esercizio di analisi politica nei Ritratti di Francia e Germania, sollecita Girolami, che sta per partire come ambasciatore fiorentino in Spagna insieme a Bardo Corsi e a Raffaello de’ Medici, a «osservare» in generale «con ogni industria le cose dello imperadore e del regno di Spagna» (Instruzione d’uno che vada imbasciadore in qualche luogo, § 26), e in particolare
la natura dell’uomo, se si governa o lasciasi governare, se egli è avaro o liberale, se gli ama la guerra o la pace, se la gloria lo muove o altra sua passione, se’ popoli lo amano, se gli sta più volentieri in Ispagna che in Fiandra (§ 27).
Se la conoscenza dell’indole dell’Asburgo è di grande importanza, ancora di più lo sono tanto il sapere le sue intenzioni nei confronti dell’Italia, quanto il prefigurare vantaggi e svantaggi che ne possano derivare a Firenze:
Considererete ancora che fine sia quello dello imperadore, come gl’ intenda le cose di Italia, se gli aspira allo stato di Lombardia o se gli è per lasciarlo godere agli Sforzeschi; se gli ama di venire a Roma, e quando; che animo egli ne abbia sopra la Chiesa, quanto e’ confidi nel papa, come e’ si contenta di lui; e venendo in Italia, che bene o che male possino i Fiorentini sperare o temere (§ 29).
Nel cercare di individuare possibili forze e debolezze di C., M. compiva nell’autunno, presumibilmente del 1523, «quasi l’ultima rivisitazione […] di un grande Stato europeo» (Dotti 2003, p. 372).
Gli obiettivi italiani di C., che M. raccomanda a Girolami di scoprire, si delineavano con maggiore chiarezza dopo l’esito della battaglia di Pavia, dove il re Francesco I era stato sconfitto dall’imperatore e fatto prigioniero. A molti osservatori appariva allora evidente che C. sarebbe stato libero di dominare indisturbato la penisola italiana e che avrebbe mirato ad assumere il controllo di tutta l’Europa. Ciò nonostante, la perdurante incertezza sul se, sul quando e sul come l’imperatore avrebbe liberato il re di Francia non consentiva di intravedere quali ne sarebbero state le specifiche conseguenze per i diversi Stati italiani. La situazione sembrava rendere possibili diverse soluzioni, la cui valutazione induceva M. a un atteggiamento che alcuni critici hanno inteso come perplessità (Martínez Millán 2002), mentre altri vi hanno visto l’espressione di uno stimolo rivolto ai principi italiani perché contassero su sé stessi e non si affidassero alle decisioni altrui, fossero quelle di C. o di Francesco I (cfr. Inglese 1989, pp. 48-49).
Dopo la battaglia di Pavia, quindi, la figura di C. è presente negli scritti di M. non tanto direttamente, quanto piuttosto indirettamente, attraverso la valutazione della politica dei suoi viceré, l’analisi delle mosse dei suoi eserciti e quella delle scelte operate dai suoi generali. È la politica imperiale attuata mediante la conduzione della guerra l’oggetto dell’interesse di Machiavelli. Il giudizio sugli eventi e sulle dinamiche che li producevano e che ne derivavano sta sia nel carteggio privato sia nel carteggio pubblico di M., a eccezione dell’epigramma “Sappi ch’io non son Argo”: «Sappi ch’io non son Argo quale io paio, / né questi occhi ch’io ho fur d’Argo mai, / ma son bene occhi assai / ch’ a’ principi cristiani per tutto ho tratto: / e quinci avvien che ’l matto / Carlo re de’ Romani e ’l Viceré / per non vedere hanno lasciato il Re» (in N. Machiavelli, Opere, 3° vol., a cura di C. Vivanti, p. 19).
Qui M. ritrae l’imperatore come «matto», perché, d’accordo con il suo viceré a Napoli, Charles de Lannoy, aveva liberato Francesco I a poco più di un anno da Pavia, il 18 marzo 1526, diversamente da quanto lo stesso M. aveva ritenuto fino a qualche tempo prima. Ancora il 3 gennaio 1526, scrivendo a Francesco Guicciardini, aveva infatti affermato di ritenere che C. non avrebbe liberato il re:
Io sono sempre stato di oppinione, che se lo imperatore disegna diventare dominus rerum, che non sia mai per lasciare il re, perché tenendolo, egli tiene infermi tutti gli avversarii suoi, che gli danno, per questa ragione, e daranno quanto tempo egli vorrà ad ordinarsi, perché e’ tiene ora Francia et ora il papa in speranza d’accordo, né stacca le pratiche, né le conclude; e come egli vede che li italiani sono per unirsi con Francia, e’ ristrigne con Francia i ragionamenti, tanto che Francia non conclude, et egli guadagna, come si vede che egli ha con queste bagattelle già guadagnato Milano, e fu per guadagnare Ferrara, che gli riusciva se gli andava là; il che se seguiva, del tutto era spacciata la Italia.
Se si fosse invece verificato il caso contrario, M. era dell’opinione che Francesco I avrebbe rispettato le pesantissime condizioni che l’imperatore gli aveva imposto. In questo senso si era espresso, dopo la pace di Madrid conclusa il 14 gennaio, in una lettera indirizzata allo stesso Guicciardini il 15 marzo. È qui che M. ragiona sulla possibile ‘pazzia’ di C., per riprendere il linguaggio usato nell’epigramma, prospettando diverse possibilità. Se, infatti, Francesco I fosse stato liberato, l’imperatore si sarebbe viste tagliate tutte le vie per «potere andare a quel grado» (M. a Francesco Guicciardini, 15 marzo 1526) che si prefiggeva, cioè diventare «dominus rerum», principe d’Europa, come già M. aveva scritto nella lettera del 3 gennaio. Qualsiasi motivazione addotta per una soluzione del genere non avrebbe risparmiato «lo imperadore dello sciocco». Anche nel caso che, una volta liberato, il re avesse poi osservato i patti, «tanto più lo imperadore sarebbe pazzo a rimettere in Italia» colui che un anno prima aveva eliminato dalla competizione. Ne sarebbe infatti a sua volta stato cacciato. Nessuna delle ipotesi possibili avrebbe comunque potuto evitare la guerra: «Io stimo, che in qualunque modo le cose procedino, che gli abbia ad essere guerra, e presto, in Italia». C. avrebbe potuto iniziare la guerra in qualsiasi momento, poiché ne aveva le forze: «lo imperatore ha le sue teste delle sue genti, halle alle poste, può muovere guerra a posta sua quando egli vuole». La politica imperiale imponeva quindi agli Stati italiani, secondo M., di non «differire lo armarsi». Diversamente, la guerra dell’imperatore avrebbe preso tutti alla sprovvista: ci si sarebbe alzati «una mattina tutti smarriti». Una convinzione, quest’ultima, condivisa da Filippo Strozzi in una lettera inviata a M. il 31 marzo, quando ancora non era arrivata la notizia della liberazione del re: comunque fossero andate le cose, C. avrebbe trovato «noi più sprovvisti allo inpedire la sua passata» (Filippo Strozzi a M., 31 marzo 1526).
Consumata la rottura tra C. e il papa Clemente VII, a seguito della lega di Cognac, e attribuitosi l’imperatore il ruolo di difensore dell’intera cristianità, nel tardo autunno del 1526 iniziava la discesa delle truppe imperiali in Italia. Fu questo il periodo in cui si svolsero le ultime missioni di M., inviato dagli Otto di pratica presso l’allora luogotenente papale Francesco Guicciardini, prima a Modena, tra la fine di novembre e gli inizi di dicembre 1526, e in seguito a Parma, a Bologna e in Romagna, tra gli inizi di febbraio e la metà di aprile del 1527. Dalla corrispondenza con gli Otto di pratica emergono da una parte il quadro di una situazione fuori controllo anche per l’imperatore, dall’altra l’incapacità della lega di approfittare della irresolutezza degli imperiali.
Da Bologna, il 27 e il 29 marzo 1527, M. registra ancora una volta questo stato di cose, che lascia gli Stati italiani nella totale incertezza di poter raggiungere una tregua – la «salute» – senza la quale sarebbe seguita la «rovina» (M. a Francesco Guicciardini, 27 e 29 marzo 1527, LCSG, 7° t., pp. 215-16 e 217-18).
Scrivendo da Forlì a Francesco Vettori, il 5 aprile 1527, M. vede con chiarezza la fragilità degli imperiali e, insieme, la strutturale debolezza degli Stati italiani nei loro confronti. Gli uni forti fin quando non incontrano resistenza, gli altri tenaci fin quando qualcuno non cede e tutti gli altri lo seguono nel cedimento.
Questo esercito imperiale è gagliardo e grande; nondimeno, se non riscontra chi si abbandoni, e’ non piglierebbe un forno. Ma è ben pericolo che per fiacchezza non cominci una terra a girarli sotto, e come cominci una, tutte le altre vadino in fumo (Lettere, p. 457).
L’esercito imperiale prese Roma il 6 maggio 1527 e la tenne per parecchi mesi. C. riuscì, di conseguenza, a sottomettere anche gran parte del resto dell’Italia. Ma su questa evoluzione e sulla figura di C. dopo il sacco di Roma M. non poté proseguire la sua analisi. Glielo impedì la morte sopraggiunta il 21 giugno 1527.
Bibliografia: G. Inglese, introduzione a N. Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini, a cura di G. Inglese, Milano 1989; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2 voll., Bologna 1993; A. Kohler, Karl V. 1500-1558. Eine Biographie, München 1999 (trad. it. Carlo V, Roma 2005); Bologna nell’età di Carlo V e Guicciardini, a cura di E. Pasquini, P. Prodi, Bologna 2002 (in partic. J.-J. Marchand, Carlo V e l’Impero in Machiavelli e Guicciardini prima della battaglia di Pavia, pp. 251-64; J. Martínez Millán, La perplejidad de Maquiavelo: la política italiana de Carlos V entre Pavía y el Sacco de Roma (1525-1527), pp. 305-28); U. Dotti, Machiavelli rivoluzionario, Roma 2003; J.-L. Fournel, J.-C. Zancarini, Les guerres d’Italie. Des batailles pour l’Europe, 1494-1559, Paris 2003; L’Italia di Carlo V. Guerra, religione e politica nel primo Cinquecento, Atti del Convegno internazionale di studi, Roma 5-7 aprile 2001, a cura di F. Cantù, M.A. Visceglia, Roma 2003; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006; M. Pellegrini, Le guerre d’Italia, Bologna 2009.