BENE, Carmelo
Nacque il 1° settembre 1937, secondogenito di Umberto e di Amalia Secolo, in località Campi Salentina (Lecce), dove i genitori avevano in gestione un tabacchificio di proprietà della famiglia Reale.
Trascorse l’infanzia e l’adolescenza fra Campi e Lecce, compiendo gli studi classici presso la scuola degli scolopi e poi dei gesuiti, prima di partire ventenne per Roma dove, secondo le aspettative della famiglia, avrebbe dovuto laurearsi in giurisprudenza; tuttavia, contemporaneamente si iscrisse alla scuola di recitazione Pietro Scharoff, e poi ai corsi per attore dell’Accademia d’arte drammatica, che insofferente abbandonò prima del termine e dunque del diploma, per iniziare in autonomia la sua originale e fortunata carriera artistica.
Dal 1959 portò avanti per oltre quarant’anni un’intensa attività che ha dato luogo a decine di spettacoli teatrali, ma anche film, libri, dischi, video nei quali si è proiettata e dilatata una genialità creativa e critica. Rifiutando i riconoscimenti al suo talento, Bene si è sempre definito un genio («Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento»: Opere con l’Autografia di un ritratto, Milano 1995, p. V) per dichiarare la necessità piuttosto che la libertà del suo agire artistico: un’azione e una riflessione che intendeva liberare l’attore dalla sua stessa scena e il teatro dai suoi limiti e dai suoi stessi modi. La sua linea operativa e teorica 'in negativo', dentro e contro il teatro stesso, è stata spesso fraintesa e ripudiata come una provocazione, quando in realtà Bene l’ha sempre giustificata come una sfida dell’artista contro se stesso e la sua stessa arte. Si può comprendere allora come, fin dagli inizi, il suo teatro abbia provocato conflitti e divisioni: da un lato una minoranza crescente di appassionati ammiratori e dall’altra una maggioranza decrescente di avversari e perfino detrattori. Ma infine, già resuscitare una vivace contrapposizione dentro un pubblico teatrale dominato dall’ignavia del nuovo conformismo o dall’inerzia delle antiche convenzioni, è stato un raro 'miracolo' che ha alimentato un successo straordinario, esatto contrario dell’ordinario consenso. Così, la sua carriera artistica cominciata sui piccoli e precari palcoscenici dei bassifondi di Roma è ascesa fino alle vette del teatro alla Scala di Milano e, di lì, nei più vasti spazi dei grandi eventi; così, la sua 'fortuna critica', agli inizi impigliata nella polemica fra opposte fazioni di recensori da giornale, ha raggiunto rapidamente i vertici di un protagonismo culturale accertato dalla stima di molti grandi intellettuali italiani e stranieri. Fra i suoi ammiratori e interlocutori, oltre la lunga lista dei migliori critici teatrali italiani (Ennio Flaiano, Alberto Arbasino, Giuseppe Bertolucci, Franco Quadri, Ugo Volli, Maurizio Grande, Goffredo Fofi…), vanno citati personaggi come Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Eugenio Montale, Emilio Villa, Vittorio Bodini, nonché in Francia Jacques Lacan, Michel Foucault e infine gli amici Jean-Paul Manganaro (suo traduttore) e Gilles Deleuze, forse il maggiore 'interprete' della sua arte.
La vita e l’opera di Bene si sono da sempre fuse in un’unica narrazione, così come la persona e l’attore hanno sempre costituito una inscindibile individualità. È stata questa una sua precisa opzione che diventa per tutti un’imposizione, se si tengono nel dovuto conto i suoi scritti e in particolare le due autobiografie che sono le fonti più autorevoli di cui si dispone: Sono apparso alla Madonna. Vie d’(h)eros(es), Milano 1983 (nuova ed., con postfazione di P. Giacchè, Milano 2005); Vita di Carmelo Bene, ibid.1998 (in collaborazione con G. Dotto): da esse, come del resto dall’insieme delle documentazioni e memorie della sua arte, si evince che Bene abbia davvero sempre consciamente perseguito e inconsapevolmente realizzato una assoluta e persino patologica fusione fra arte e vita: l’'arte grande' e la 'vita breve' di un attore, tanto discusso quanto indiscutibilmente importante e forse il più imponente del teatro italiano del Novecento.
In realtà Bene è stato anche regista e autore di opere teatrali e cinematografiche, radiofoniche e televisive (nonché scrittore, saggista e poeta…). Proprio in virtù di questo suo apparente eclettismo e competente attivismo vale anche per lui quella definizione di 'uomo-teatro' che Jean-Louis Barrault propose per Antonin Artaud: con ciò non si vuole oscurare ma al contrario esaltare in Bene il ruolo e il modo dell’attore, che resta la definizione più adeguata alla sua complessa figura di artista: l’'attorialità' – termine da lui coniato – è una qualità insieme centrale e trasversale che unifica e persino annulla in sé tutti gli altri ruoli che partecipano del mestiere e dell’arte scenica.
E, anche se a più riprese lo stesso Bene scelse di definirsi altrimenti (non-attore, artefice, operatore…), è l’Attore che – attraverso e dopo di lui – assume finalmente la maiuscola perché diviene la sintesi fra una sapienza scenica ad ampio raggio e una esperienza teatrale di chi è padrone assoluto dei propri mezzi. Così, l’eccezione ha svelato la regola di un attore che appartiene ai ruoli e ai modi dell’intellettualità e può essere non solo autonomo ma sovrano, a dispetto delle tradizionali formule di 'servo del poeta' o 'strumento del regista' con cui si è sempre voluto sancire la sua subalternità. L’attore Carmelo Bene infatti, sia nella teoria sia nella pratica del suo teatro, rivendica di essere l’'autore della vita' di ogni testo drammatico o poetico che altrimenti resterebbe scritto, ovvero – come sosteneva – 'morto orale', mentre al contempo Bene ha restituito all’attore la libertà e la potenza dell’unico 'atto critico' davvero autorizzato ed efficace, qualora si sappia e si voglia valorizzare la visionarietà riflessiva dell’attore al di sopra e perfino contro le tentazioni dell’azione e della consolazione espressiva.
Unico per altezza se non per grandezza, Bene è stato definito da Cesare Garboli (in Il Mondo, 22 aprile 1976, poi in Garboli, 1998, pp. 223-225) l’ultimo grande attore «postumo» dopo l’Ottocento, ma è stato anche innegabilmente il primo «nuovo attore» del Novecento, se è vero che ha raggiunto quel vertice di sensibilità intellettuale e di competenza estetica che per Kostantin Stanislavskij doveva equiparare l’attore al poeta.
È stato poi indicato come «attore-poeta» (Attisani, 1995, pp. 163-184), almeno da quando i suoi sempre più frequenti 'concerti di poesia' avevano preso gradualmente il posto e assorbito il senso della sua precedente attività drammaturgica e spettacolare: quando cioè la sua apparizione 'fonica' era riuscita a cancellare ogni tentazione o residuo di rappresentazione 'scenica'.
«Contro la Rappresentazione» è stato il suo slogan costante: la chiave del suo manifesto culturale e il senso del suo progetto artistico. E l’Attore fuori dalla Rappresentazione è stato il suo obiettivo e infine, prima e più di ogni opera o operazione, il suo capolavoro: «E non si dà capolavoro d’arte. Fuor dell’opera si è capolavoro», così conclude Bene la sua Autografia di un ritratto (Opere…,cit., 1995, p. XXXVII).
Lo spettacolo che segnò il debutto d’attore di Bene fu una rappresentazione del Caligola di Albert Camus, andato in scena a Genova nel 1959 per la regia di Alberto Ruggiero, suo giovane amico, riproposto due anni più tardi con la regia dello stesso Bene; il primo spettacolo in cui apparve come attore e regista fu un Concerto Majakovskij tenuto a Bologna nel 1960 con le musiche dal vivo di Sylvano Bussotti. Da subito dunque la sua proposta spettacolare fu duplice: alle messe in scena di testi drammatici o letterari – rielaborati o ideati e comunque sempre 'riscritti' – si alternarono sempre più frequenti 'concerti d’attore' che poi si chiameranno 'd’autore', basati sui testi lirici o epici dei più grandi poeti.
Anche per questo immediato e fertile intreccio fra prosa e poesia, drammaturgia e musicalità, la teatrografia di Bene non autorizza l’individuazione di precise scansioni cronologiche in quella che resta un’unica coerente ricerca. Il suo è un teatro che ha mostrato certo variazioni ed evoluzioni ma nel segno di un medesimo programma e per di più nel quadro di un selezionato e poi sempre ribadito repertorio: molte sono state le messe in scena di uno stesso testo drammatico e frequenti i passaggi e le contaminazioni tra 'spettacoli' e 'concerti'. La tendenza che si può leggere scorrendo il lungo elenco delle sue opere (più di 60 spettacoli teatrali, 9 fra corti e lungometraggi cinematografici, 25 edizioni televisive e una ventina di registrazioni radiofoniche) è stata semmai proprio quella di condensare progressivamente in concerto di poesia anche le sue più complesse drammaturgie: per esempio, le cinque riscritture sceniche dell’Amleto ebbero inizio nel 1961 come messe in scena popolate di attori e ricche di mobili scenografie per poi gradualmente ridurre i ruoli e rendere statuaria la scena (Hommelette for Hamlet, 1987) e infine partorire una sintesi in forma di concerto affidata a tre e poi a due sole presenze (Hamlet suite, 1994). D’altra parte però c’è anche da osservare come le originarie messe in scena che impegnavano molti attori siano state fin dagli inizi 'messe in poesia' e 'recitate in musica': Bene ha sempre negato il dialogo a favore di una successione di monologhi e ha sempre arricchito il testo drammatico con inserimenti di testi poetici che suggeriscono alla recitazione di prendere il verso del canto.
Se il suo teatro ha perseguito un’intenzione coerente, è pur vero che nemmeno l'interprete e la sua arte potevano sfuggire alla odiata storia o davvero isolarsi dalla nemica società: saranno stati costanti i motivi e gli obiettivi del suo teatro, ma nel frattempo mutavano le situazioni, le condizioni e le occasioni che infine aiutano a distinguere, nella vita e nell’arte di Bene, tre periodi differenti. Al centro la cesura e l’avventura – definita la «parentesi cinematografica»: 1967-72 – che fece da spartiacque tra i suoi primi momenti ed esperimenti teatrali, le opere più mature e le operazioni consapevoli d'una seconda fase di lavoro e di vita; una terza e ultima fase cominciò agli albori o alla vigilia degli anni Ottanta, quando la forma del 'concerto d’attore' prese quote insospettate producendo la meraviglia della dissoluzione della drammaturgia nella musica e nella poesia: da allora e per oltre un ventennio gli studi incessanti sulla phonè e gli stadi successivi della 'macchina attoriale' portarono al limite massimo quell’ascensione del suono e quell’estenuazione del corpo che sono state sempre le coordinate e gli imperativi di Carmelo Bene e del suo Attore.
Negli anni che corrono fra la fine degli anni Cinquanta e il 1967 si dipana il periodo giovanile, anche se la leggenda della precocità di Bene e la classica nomea di enfant terrible appaiono forzature per un attore che debuttò ventiduenne e che per anni non ha mai potuto superare nei fatti quella vita precaria e quella fama discussa che è la condanna di ogni artista agli inizi.
In quel periodo Bene partecipò al movimento delle cosiddette 'cantine romane' ('movimento' la cui notorietà si dovette più ai critici del tempo che non agli attori o agli spettatori che le frequentavano), adattando in luoghi impropri e realizzando con mezzi incerti un teatro che già aspirava a soluzioni scenografiche e tecnologiche decisamente diverse dalla logica – ovvero dalla condanna – di un 'teatro povero' che non lo ha mai riguardato (né come aspirazione all'essenzialità né come ideologia della differenza).
Protagonista delle neoavanguardie ma forse non propriamente suo 'rappresentante', Bene fondò e diresse un primo teatro laboratorio situato a Roma, in Trastevere, a piazza S. Cosimato, per allestire più tardi un teatro intitolato al suo nome in un fondo di via del Divino Amore. In quelle sedi, provò e replicò i suoi primi spettacoli, alcuni dei quali videro poi riedizioni più complesse e riallestimenti meno precari su palcoscenici via via più importanti. Ma per la sua prima vera tournée in Italia organizzata dall’Ente teatrale italiano (ETI), Bene dovette attendere il successo della sua seconda edizione di Pinocchio del 1966: solo allora il suo pubblico si estese gradualmente a tutti i teatri della penisola e l’aumento della notorietà favorì le occasioni e le sfide future che – come si è detto – cominciarono con la sua 'avventura' cinematografica. Gli spettacoli più rappresentativi di questo primo periodo furono infatti trasferiti e riscritti nel linguaggio cinematografico, a cominciare da Nostra Signora dei Turchi (in scena nel 1966) basato sul suo primo romanzo, per continuare con la Salomè (andata in scena con due diverse edizioni nel 1964 e nel 1967) e Amleto o le conseguenze della pietà filiale da William Shakespeare e Jules Laforgue (rappr. nel 1967). Della ricca e frenetica produzione teatrale di quei primi anni vanno ricordati ancora il primo Pinocchio (1961), la Manon (1964), Faust e Margherita (scritto con Franco Cuomo), Il rosa e il nero, invenzione da Il monaco di M.G. Lewis, e infine – a chiusura del periodo e a testimonianza dei suoi rapporti di collaborazione con gli altri protagonisti della neoavanguardia – il Don Chisciotte (1968), che curò e firmò assieme a Leo De Berardinis.
Conviene citare anche Cristo 63 in quanto fu lo spettacolo di un primo 'scandalo' che dette origine alla sua fama di imprevedibile e irriducibile provocatore e – molto prima della fortuna del suo cinema e della frequenza delle sue apparizioni televisive – ebbe il vantaggioso demerito di lanciare il 'personaggio Carmelo Bene' oltre la fama dell’artista. In particolare, sulla leggenda dell’attore che avrebbe orinato in faccia a un critico e poi addirittura replicato il gesto in altre occasioni, la questione è controversa: Bene, pur riconoscendo vero l’episodio, ha negato di essere l’autore del gesto. In generale però non si può non tener conto dell’importanza dello scandalo – di ogni occasione di scandalo – per le sue conseguenze sulla vistosità e l’efficacia del personaggio pubblico e poi mediatico da lui impersonato. Numerosi e continui furono gli scritti e i detti polemici, i giudizi drastici e le prese di posizione controcorrente, le sfide e le vittorie contro i critici e contro il pubblico, anche prima delle sue frequenti apparizioni televisive in programmi culturali ma anche sportivi e infine mondani. Molti hanno conosciuto Bene soltanto come personaggio, ma anche in questa veste raggiunse traguardi inusitati. Celebre è rimasto il suo intervento al Maurizio Costanzo Show del 27 giugno 1994, intitolato Uno contro tutti, divenuto un cult-movie di impressionante diffusione e di ancora stupefacente efficacia sui due fronti: quello dell’aumento abnorme della sua popolarità ma anche quello della sfida definitivamente vinta sul mezzo e sul modo televisivo, essendo riuscito in quell’occasione a mandare in cortocircuito le logiche della comunicazione e le finalità della trasmissione.
In questo periodo scrisse un primo saggio per il teatro (Pinocchio Manon e Proposte per il teatro, Milano 1964) e pubblicò i suoi unici due romanzi, Nostra Signora dei Turchi (ibid. 1966) e Credito italiano. V.E.R.D.I. (ibid. 1967), due prove letterarie che anticiparono molti dei riferimenti e degli ingredienti utili al suo teatro.
Agli stessi anni appartengono anche avvenimenti importanti e relazioni fondamentali sia per la vita sia per l’arte, sempre inscindibili. Fra gli eventi, va ricordata la partecipazione al Convegno di Ivrea del 1967, che voleva essere un atto di riconoscimento se non di fondazione del 'nuovo teatro italiano'. Organizzato da Franco Quadri e altri critici teatrali, il convegno (al quale presero parte molti giovani artisti destinati a diventare i 'maestri' del teatro italiano contemporaneo) fu aperto da un manifesto di cui anche Bene fu firmatario. Tale manifesto (Per un convegno sul nuovo teatro, in Quadri, 1977, I, pp. 135-137) si dette il compito di aprire un dibattito e un primo scontro fra le nuove proposte sceniche e poetiche e l’inadeguata politica culturale del tempo. Fra le relazioni – oltre a quelle con gli attori e le attrici con cui Bene ha più insistentemente 'fatto compagnia' – non può essere sottovalutato il sodalizio più importante e duraturo con Lydia Mancinelli che per molti anni – dal 1964 almeno fino ai primi anni Ottanta – fu la 'convivente' di quasi tutti i suoi spettacoli teatrali e di quasi tutti i suoi film, nonché la deuteragonista sia della sua casa sia della sua impresa.
Inaugurato dall’attività cinematografica, il secondo periodo artistico fu caratterizzato dall'esplorazione e dallo sfruttamento di altri mezzi e linguaggi come, in particolare, la radiofonia ma anche la televisione e le prime edizioni discografiche. Fra il 1967 e il 1980 Bene infatti produsse non solo tutti i suoi film ma anche cinque edizioni televisive dei suoi spettacoli e 13 interventi e opere radiofoniche. Dopo aver preso parte al progetto Interviste impossibili (che ebbe come curatori e interlocutori Giorgio Manganelli, Guido Ceronetti, Oreste Del Buono, Vittorio Sermonti, Alberto Arbasino, Nelo Risi e Italo Calvino), riscrisse e registrò le versioni radiofoniche di molti suoi spettacoli (Nostra Signora dei Turchi, Amleto e Pinocchio nel 1974; Salomè nel 1975; Romeo e Giulietta nel 1976; Cuore, Manfred, Otello nel 1979; a parte va ricordata anche la collaborazione e interpretazione in un Tamerlano il Grande del 1975 per la regia di Carlo Quartucci).
Per la televisione, prima di realizzare il trasferimento e la ricostruzione in video di alcune fra le sue opere teatrali, produsse nel 1977, con la collaborazione di Roberto Lerici e le musiche di Vittorio Gelmetti, Quattro diversi modi di morire in versi. Majakovskij-Blok-Esenin-Pasternak: considerato ancor oggi un capolavoro, è la riscrittura del suo antico Concerto Majakovskij (che ebbe comunque altre memorabili versioni teatrali), giunto all'ennesima e forse non più perfettibile edizione.
Il cinema, la radio, la televisione non costituirono deviazioni ma dilatazioni del 'teatro' di Bene, che continuò con rinnovato slancio e maggiore fortuna: anzi, gli spettacoli teatrali degli anni Settanta segnarono una svolta stilistica e fecero avanzare la sua sfida estetica, proprio in seguito alle esperienze e grazie alle contaminazioni di nuovi mezzi e linguaggi. L'attività cinematografica di Bene fu comunque di grande qualità e contribuì a farlo conoscere al grande pubblico, alimentando discussioni e divisioni critiche. È necessario ricordare il mediometraggio Hermitage (1968) e i cinque lungometraggi: Nostra Signora dei Turchi (1968), insignito con il premio speciale della giuria al XXIX Festival di Venezia; Capricci (1969), presentato al XXII Festival di Cannes; Don Giovanni (1971); Salomè (1972); Un Amleto di meno (1973).
Il ritorno in teatro fu segnato dal nuovo allestimento di Nostra Signora dei Turchi (1973), per proseguire con stagioni dominate da riscritture del repertorio shakespeariano: una serie di 'Shakespeare secondo Bene', poi riconosciuta e celebrata come il suo teatro 'maggiore'. Quasi in successione produsse il terzo Amleto (1975), Romeo e Giulietta (1976), Riccardo III (1977) e Otello (1979), ma altri spettacoli furono forse i più significativi dello stesso periodo: la prima edizione de La cena delle beffe (1974), che vide fra gli interpreti anche Gigi Proietti, e, nello stesso anno, la messa in scena di S.A.D.E. ovvero libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina, che rappresentò il trait d’union fra la prima e l’ultima fase della sua attività teatrale (da un lato infatti con il S.A.D.E. recuperò la forma di varietà dei suoi primi spettacoli, dall’altro cominciò a impostare e sperimentare la scena tecnologica della sua futura 'macchina attoriale').
Finalmente il successo, ma anche la crescita dell’impresa e i conseguenti più solidi e ricchi allestimenti, consentirono tournées regolari nei maggiori teatri italiani e – dopo il cinema – anche la sua prima 'spedizione' all’estero, ovviamente in Francia e naturalmente a Parigi. La cultura e la letteratura francese erano sempre stati riferimenti privilegiati e non poche tracce nei suoi scritti e nei suoi spettacoli testimoniano il rapporto fra il teatro di Bene e la Francia; e però è stato il cinema a creare i presupposti di una ammirazione da parte del pubblico e della critica transalpina, poi cresciuta con il teatro e tramutata in relazione stabile. Nel 1977 Carmelo Bene portò a Parigi il suo Romeo e Giulietta, nonché il S.A.D.E., e il successo fu in realtà un trionfo. A Parigi fece ritorno nel 1999 con il suo Macbeth Horror Suite e in quella occasione, con una Lectura Dantis all’Odéon, ringraziò per la nomina a chevalier de l’art et de la culture, un riconoscimento della sua arte ma anche una sorta di certificato di adozione. Peraltro, le rappresentazioni di Bene all’estero furono rare e, oltre alla Francia, si limitarono a una tournée in Russia con la Pentesilea (dicembre 1990), e un invito a Berlino (marzo 1997).
Il secondo periodo decretò la fama dell'artista ma segnò la maturità della sua arte: la dimostrazione non sta soltanto nelle opere ma anche negli scritti teorici, in cui la polemica lascia il posto alla solidità e al rigore di un pensiero dell’attore sull’attore che fu molto apprezzato e al solito molto discusso. Dal 1970 Bene cominciò a scrivere saggi e articoli ma anche a concedere interviste che – nel loro insieme – esplicitarono, per la prima volta in modo completo e autorevole, la sua posizione e proposizione artistica: oltre L’orecchio mancante (Milano 1970) e soprattutto La voce di Narciso (ibid. 1982) conviene ricordare la serie di articoli apparsi in Paese Sera (maggio-luglio 1978), così come le numerose conversazioni e gli incontri avuti su sollecitazione dei critici di cinema e di teatro ormai decisamente interessati alla sua arte.
Da allora la teorizzazione spesso a posteriori delle sue 'operazioni' estetiche e critiche – più volte meticolosamente elencate (un riepilogo complessivo in Opere…, cit., 1995, pp. XII-XIV) – proseguì e si incrementò lungo tutta la sua vita e dentro ogni momento della sua arte. È stata infine questa lucida descrizione e incessante disamina della sua stessa ricerca a far raggiungere a Bene l’altezza e lo statuto di 'maestro', pur mantenendosi lui sempre distante dalla politica della cultura e avverso a ogni forma di pedagogia dell’arte. Il pensiero di Bene si è avvalso peraltro dei contributi di numerosi interlocutori, fra i quali spiccano Gilles Deleuze e Pierre Klossowski, ma all’interno di una cerchia variabile e vasta di amicizie e di complicità che hanno accompagnato i suoi 'studi' mentre ne inseguivano le 'opere' (fra i tanti, Jean-Paul Manganaro, Maurizio Grande, Giancarlo Dotto, Piero Panza, Alberto Signorini, Sergio Colomba, Camille Dumoulié, Umberto Artioli, Goffredo Fofi, Piergiorgio Giacchè, Sergio Fava).
L'ultima fase del lavoro di Bene ebbe inizio con le due più grandi manifestazioni spettacolari cui abbia dato vita e anima: il Manfred, l’opera di Byron e Schumann che, con il debutto al teatro alla Scala di Milano il 1° ottobre 1981, sancì l’ingresso di Bene nel mondo della musica e lo riconobbe quale eccezionale artefice di una combinazione fra la recitazione e il canto; quindi la Lectura Dantis, concepita ed eseguita a Bologna il 31 luglio 1981 che a sua volta decretò la definitiva confusione – in Bene e per Bene – tra teatro e poesia, attore e poeta. Si è trattato di due innegabili 'vittorie' della sua teoria teatrale e della sua pratica attoriale: le cosiddette dichiarazioni eccessive e sfide iperboliche di Bene da allora cessarono di apparire presuntuose o provocatorie, rivelandosi invece annunci di progetti e di eventi straordinari.
In particolare, la Lectura Dantis rappresentò anche la prima concreta edificazione di quella 'macchina attoriale' che ebbe poi altri sviluppi e definitivi traguardi: sull’esempio dei tragici greci, si trattava di elevare l’attore con coturni stavolta alti come una torre e dotarlo di una maschera fonica il più possibile potente (la straordinaria strumentazione fonica di cui Bene si era potuto dotare a Bologna rappresentò poi un modello da esportare e installare in tutti i teatri). Va sottolineato come la manifestazione inventata e animata da Bene in occasione del primo anniversario della strage del 1980 abbia rappresentato – nei fatti e nei detti – «il gesto politico più puro che abbia mai impegnato un attore – per di più votato all’allora eretico disimpegno e all’ancora ironico depensamento…» (P. Giacchè, Apparire alla Madonna, postfazione alla riedizione di Sono apparso alla Madonna, cit., p. 158).
Questa terza e ultima fase di attività fu intensa e prolifica, ancorché in apparenza piena di ripetizioni o riedizioni di un repertorio ormai destinato a diventare 'classico': da un lato proseguì e si completò la proposta degli 'Shakespeare secondo Bene' con il Macbeth (1983; poi trasformato in Macbeth-Horror suite, 1996), ma anche con una nuova edizione di Otello (1985) e altre due del suo infinito Amleto (1987; 1994); dall’altro crebbe il cartellone dei suoi concerti d’attore e d’autore, dai Canti orfici di Dino Campana nel 1982 all’Egmont (un ritratto di Goethe) del 1983; quindi ancora le poesie di Friedrich Hölderlin e i Canti di Leopardi nel 1983 e in replica nel 1987 e 1997, fino alla Poesia da “La figlia di Iorio” del suo ultimo atto di attore-poeta (Gabriele D’Annunzio. Concerto d’autore, in prima al Teatro dell’Angelo di Roma nel 1999). A questo elenco vanno aggiunte almeno altre due opere: Adelchi di A. Manzoni (in forma di concerto) del 1984 (poi riallestito nel 1997, e corredato da un libro scritto assieme a Giuseppe di Leva: Adelchi o della volgarità del politico, Milano 1984), e Lorenzaccio, al di là di de Musset e Benedetto Varchi (1986) che ebbe una prima e sola edizione, anche per l’impossibilità oggettiva di andare 'in replica'. Si trattò di una delle sue prove più alte e difficili: con Lorenzaccio, infatti, Bene si poneva un obiettivo di spossessamento dell’attore dalla sua stessa azione, così come il play-back – già messo in prova e in scena altre volte – aveva esautorato l’attore dalla sua stessa voce. Benché scritto e diretto da Bene, non poteva essere da lui 'interpretato' ma soltanto 'inseguito', dovendo il protagonista muoversi in ritardo nel tentativo di far coincidere i suoi gesti a suoni prodotti fuori dalla sua vista e 'a sua insaputa' da un guerriero-rumorista che si esibiva collocato nella fossa dell’orchestra del teatro. Bene dedicò tutta la cura e la riflessione che era dovuta a un esperimento così avanzato e il Lorenzaccio rappresentò dunque lo spettacolo-evento che in un certo senso interruppe l’itinerario delle riscritture di scena e richiamò Bene al suo dovere e destino di 'ricercatore dell’Impossibile'.
Fu in effetti dopo il Lorenzaccio che Bene trovò e sfruttò l’occasione giusta per riattivare la sua ansia e sfida primaria: la definitiva costituzione di una 'macchina attoriale' intesa come trasformazione o meglio trasferimento di un attore dall’organico all’inorganico, dall’umano all’automatico, dalla perfino involontaria rappresentazione al cuore dell’irrappresentabile. L’occasione fu data a Bene con l’assegnazione della direzione della Biennale Teatro del 1989. Il programma fu accettato come un paradosso e insieme denunciato come uno scandalo: non si prevedeva e dunque non ebbe luogo alcuna rappresentazione o dimostrazione pubblica di un lavoro seminariale e laboratoriale, condotto per così dire 'in clausura' con un gruppo di artisti e critici, collaboratori e interlocutori presso i Giardini di Castello di Venezia dal 1° al 30 settembre. I risultati di questa insolita e discussa Biennale di Venezia furono poi pubblicati in due libri intitolati rispettivamente Il teatro senza spettacolo e La ricerca impossibile (entrambi Venezia 1990; fra i contributi degli studiosi che parteciparono al Laboratorio spiccano quelli di Umberto Artioli, Camille Dumoulié, Edoardo Fadini, Maurizio Grande, Pierre Klossowski, Jean-Paul Manganaro, André Scala).
Dentro e dietro questo momento di totale libertà dell’artista e di completa autonomia dell’arte stavano le due pratiche e teorie che caratterizzarono la fase finale (e in qualche modo davvero terminale) di Bene e del suo teatro: lo studio sulla phonè e l’edificazione della 'macchina attoriale' – da lui stesso indicati come i traguardi critici ed estetici della sua arte – che, se non potevano non sembrare criptici sulla carta, divennero poi concreti e visibili sulla scena.
Le produzioni successive infatti sono quelle che meglio rappresentarono e davvero talvolta raggiunsero quell’impossibile evasione da ogni forma e modo della rappresentazione che Bene aveva da sempre perseguito: in successione e in progressione, durante tutti gli anni Novanta, il suo progetto dominante e in qualche modo ossessivo ruotò intorno agli obiettivi di una Voce che si sostituisce al corpo e di una Macchina di elevazione che fa sfuggire l’attore alla scena ed esautora ogni attesa del pubblico: tutto questo non per eliminare ma anzi per esaltare tanto la sorpresa quanto l’incanto, sia dell’attore sia dello spettatore. Nell’ultima fase di questo terzo periodo, gli spettacoli (anche quelli costantemente in cartellone come Amleto e Pinocchio) si avviarono tutti a diventare 'concerti', e poi addirittura si spinsero fino al superamento di questa stessa forma musicale per indagare il vuoto dell’atto e il pieno dell’ascolto: elementi che, per Bene e in Bene, segnano la somiglianza o la simbiosi fra l’attore e il poeta.
L’ingresso nella poesia diventò quindi definitivo e l’autorialità di Bene si fece più pregnante della sua stessa attorialità: non solo si applicò alla riscrittura ovvero alla paziente scomposizione dei poemi di Stazio e Kleist e Omero per la serie di spettacoli dedicati alla Achilleide (che cominciarono con Pentesilea, la macchina attoriale - attorialità della macchina del 1989 e 1990, e si conclusero con Invulnerabilità d’Achille. Impossibile suite tra Ilio e Sciro, andata in scena soltanto al teatro Argentina di Roma nel novembre 2000), ma passò alla diretta ideazione e composizione di due suoi poemi: ‘l mal de’ fiori. Poema (Milano 2000) e Leggenda, composto nel 2001 (ancora inedito).
L’ultimo appuntamento con il pubblico avvenne con una Lectura Dantis accompagnata dal contrabbasso dal vivo di Fernando Grillo, nel fossato del Castello di Otranto, il 5 settembre 2001, a pochi giorni dal suo sessantaquattresimo compleanno.
Morì il 16 marzo 2002 nella sua casa di Roma.
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