ZOTTI, Carmelo
– Nacque a Trieste il 14 novembre 1933 da Giuseppe, capitano di lungo corso presso il Lloyd triestino, e da Antonietta Mantovani, figlia di emigrati italiani in Grecia. Sesto di dodici figli, visse l’infanzia a Napoli, dove il padre fu trasferito, e iniziò le scuole presso i salesiani. Nel 1943 emigrò con la famiglia a Massanzago, compiendo a Padova le medie inferiori. Dopo la guerra si stabilì al Lido di Venezia. Al 1946 data l’iscrizione all’Istituto d’arte, nella sezione arti grafiche, dove ebbe come insegnante il pittore Carlo Dalla Zorza. Stimolato dal mestiere paterno quanto dalla passione per i viaggi, tre anni dopo passò all’Istituto nautico. Diplomatosi privatamente al liceo artistico, nel 1950-52 frequentò la Scuola libera del nudo diretta da Armando Pizzinato.
In un clima dominato dalla disputa tra realisti e astrattisti, aderì a una figurazione socialmente partecipe. Realizzò cicli di disegni intitolati Raccoglitori di cannelli e Pescatori, dove il segno violento risente del linguaggio di Constant Permeke ammirato alla XXVI Biennale di Venezia. Nel 1952 trasferì casa e studio alle Zattere iscrivendosi all’Accademia di belle arti, che avrebbe concluso nel 1956 con una tesi su Matisse. Allievo di Bruno Saetti, in novembre espose i disegni realizzati alla Scuola libera del nudo presso l’Opera Bevilacqua La Masa: era la sua prima personale.
Con l’assegnazione del secondo premio al concorso di pittura e mosaico a Spilimbergo e il terzo alla 41a Collettiva Bevilacqua La Masa di Venezia, nel 1953 iniziò una stagione fittissima di mostre – soprattutto collettive – e riconoscimenti pubblici. Il 28 luglio di quell’anno si imbarcò come mozzo da Trieste sul piroscafo Sistiana, nave mercantile diretta in India e in Pakistan. Fu un’esperienza decisiva, dalle ricadute profonde sull’immaginario dell’artista. «Le suggestioni di quel viaggio riposarono a lungo dentro di me, per riemergere nelle sfumature del sogno in forme antiche e primitive, in una veste quasi metafisica di isolata e quieta solarità», avrebbe ricordato nell’autobiografia (Zotti, 2007, p. 19). «Avevo rimosso i contrasti sociali, le tensioni politiche, ma non il ricordo della vegetazione pulsante e lussuriosa dell’India del sud, con i suoi verdi intensi e le sue memorie arcaiche, e capolavori carichi di valore simbolico come le sfingi o le piramidi che avevo visto al Cairo. Quei sei mesi per mare avevano soddisfatto la mia smania di viaggi, dovevo semmai fermarmi e rielaborare tutto ciò che avevo vissuto» (ibid.). Dominata da un forte carattere espressionista, la sua pittura di metà decennio vede al centro la figura umana, specie ritratti di amici e famigliari.
Nel 1956 partecipò alla XXVIII Biennale internazionale d’arte di Venezia con tre opere (Pittura n. 3, 4, 5, 1956). Due anni dopo sposò la pittrice Maria Grazia Sbisà e Saetti lo nominò assistente all’Accademia. Nella sezione arte grafica della Biennale presentò sei lavori. In questo periodo la ricerca di Zotti registrò una svolta: la figurazione cedette il passo a composizioni dove il dato naturale appariva sempre meno leggibile. Dal 1960 al 1965 usufruì dello studio a Ca’ Pesaro garantitogli dalla Fondazione Bevilacqua La Masa e figurò tra i giurati del premio San Vidal di Venezia. Nel 1962 il primo premio al concorso internazionale dell’Unesco gli offrì una borsa di studio di sei mesi all’estero assegnatagli dall’Accademia di S. Luca di Roma. Trascorse così un lungo soggiorno in Messico, e nello studio della capitale elaborò una pittura gremita di forme organiche disposte sull’intero spazio della tela. In autunno visitò New York e San Francisco. In seguito si trasferì per due mesi con la famiglia nel Nord Europa, ad Anversa e ad Amsterdam, ospite dell’amico pittore Ysbrant van Wijngaarden. Nei musei ammirò i capolavori di Rubens e Rembrandt, di Frans Hals e Vermeer, e inoltre conobbe direttamente la ricerca del gruppo Cobra, di cui condivideva la vitalità e il colorismo esasperato. Il suo linguaggio divenne sempre più gestuale, allontanandosi temporaneamente dalla figurazione, anche se l’elemento umano – come simbolo o emblema – rimaneva in sottotraccia.
Nel 1964 espose due opere (Purgatorio, 1964, e Verso la cattura, 1964) alla XXXII Biennale internazionale d’arte di Venezia, presentate in catalogo da Maurizio Calvesi. In questa occasione conobbe Ulrico Guerrieri, che ne diventò collezionista e al quale sarebbe rimasto legato da vincolo contrattuale sino ai primi anni Settanta. Influenzata dalle coeve esperienze pop, la ricerca di Zotti subì l’ennesimo cambio. Come palesavano le opere esposte alla galleria L’Argentario (Trento, maggio 1966), al Traghetto (Venezia, ottobre 1966) o al Canale (Venezia, maggio 1967), le stesure diventarono meno istintive a vantaggio di un’esecuzione raffreddata che ricorreva soprattutto a colori piatti e tra loro complementari. Il carattere narrativo e insieme drammatico della scena dichiara parentele con quella che la critica coeva definiva ‘nuova figurazione’. La seconda metà del decennio corrispose tuttavia a una stagione di crisi creativa, riflesso della difficile situazione matrimoniale, culminata con la separazione dalla moglie nel 1970. Nello stesso anno Zotti traslocò casa e studio in campagna, a Meolo.
A inizio Settanta raggiunse la maturità espressiva, e i suoi dipinti, ora ad acrilico anziché a olio, acquistarono un’intonazione sempre più simbolica. Anonime figure si assiepano sul primo piano componendo tableaux vivants di cui sfugge il significato, ma che esercitano sull’osservatore un sicuro fascino straniante. Il repertorio iconografico si ampliò – palme, piramidi, sfingi, figure alate, relitti, elefanti, sarcofagi, fontane, forme occhiute –, dando vita a un mondo esotico e misterioso. I volti mascherati o bendati come le anatomie amputate celano possibili rimandi autobiografici. Zotti pervenne a un ecclettismo stilistico dove i tanti riferimenti alla storia dell’arte recente – Picasso, Ernst, Sironi, Bacon – si riassumevano in composizioni dall’atmosfera potentemente allusiva. La presenza di manichini, mani e guanti così come le prospettive scorciate, in particolare, rivelano quanto egli meditasse sulla lezione metafisica. «Zotti si è tuffato voluttuosamente nel ‘mare misterioso’ dell’enigma dechirichiano, e naviga alla ricerca di nuove spiagge su cui fissare la sua mente estenuata», scrisse il critico Paolo Rizzi nel catalogo della personale alla galleria L’Approdo di Torino (dicembre 1971, p. n.n.). «Il quadro è il campo elettrico in cui questi arcani vettori si fissano, in una assorta immobilità che è ‘attesa’: e subito le reliquie deposte dalla psiche si avviluppano tra loro, si aggrovigliano, entrano l’una nell’altra, creando tutta una serie di nessi, di instabili liquidi rapporti» (ibid., p. n.n.).
Nel 1973 l’artista diventò titolare della cattedra di pittura all’Accademia di belle arti di Venezia, che avrebbe mantenuto per diciassette anni. L’anno seguente tornò a vivere in città, in campo S. Polo. Conobbe Vito Trevisan, titolare della galleria Fidesarte di Mestre, che ne avrebbe promosso il lavoro. Nella seconda metà del decennio la definizione delle immagini cedette il passo a una resa più sintetica. Nel 1975 la Fidesarte ne presentò i dipinti alla neonata fiera di Bologna, insieme a multipli in vetro realizzati dall’atelier Livio Seguso di Murano. Sempre per interessamento di Trevisan, nel maggio 1975 si tenne a Pordenone, presso il Centro iniziative culturali - galleria La Sagittaria, la sua prima importante retrospettiva. Mostra e catalogo erano curati da Enrico Crispolti.
A fine anni Settanta l’immagine della montagna rocciosa diventò il tema privilegiato, assumendo connotazioni oniriche e fantastiche. Di volta in volta la si vede trasformarsi in tempio, faro, isola, capanna. Le presenze umane non spariscono ma si diradano notevolmente, e comunque risultano sempre bendate o afflitte da aberrazioni anatomiche. Nel 1981, da giugno a dicembre, Zotti soggiornò a Stoccarda, e nello studio della pittrice tedesca Brigitte Brand, conosciuta poco prima all’Accademia di Venezia e che avrebbe sposato nel 1983, realizzò molte prove su carta.
La metà degli anni Ottanta – complice la ritrovata stabilità sentimentale e il generale clima di ritorno alla pittura – corrispose a un momento creativo particolarmente intenso. La nuova condizione di vita si manifestò anche in un’iconografia priva delle cupe simbologie del passato a favore di temi nuovi, come l’Annunciazione o la coppia amorosa. Nel 1984 Zotti fu tra gli inviatati alla XXIX Biennale nazionale d’arte città di Milano, al palazzo della Permanente, e tenne una personale alla galleria Acquario di Mestre.
Nel 1985 realizzò un affresco a Dozza Imolese in occasione della Biennale del Muro dipinto. Tramite il gallerista Guido Borgo conobbe i fratelli Lucchetta, titolari del gruppo Euromobil, che da allora ne divennero appassionati mecenati, sostenendo l’artista in tutte le iniziative espositive ed editoriali. Iniziò un periodo segnato da grandi mostre a carattere antologico, come la personale alla Biblioteca civica di Portogruaro (maggio 1985) o quella alla Fondazione Bevilacqua La Masa (dicembre 1986).
Trasferitosi con la famiglia a Treviso nel 1986, nel dicembre di due anni dopo Zotti partì per un viaggio di tre mesi in Andalusia e Portogallo. L’occasione lo indusse a rivisitare il tema della tauromachia, secondo un’accezione più agreste-idilliaca che drammatica. A inizio 1991, completato il restauro di un casale seicentesco a Quinto di Treviso, vi trasferì lo studio condividendolo con la moglie. Nello stesso anno uscì Carmelo Zotti. Il presagio della pittura, prima monografia a lui dedicata, edita da Mondadori a cura di Claudio Cerritelli. Nel 1992 venne invitato alla XII Quadriennale nazionale d’arte di Roma nella sezione dialettica, che tuttavia, a causa di contrasti interni, non ebbe luogo. Fra dicembre e gennaio fu nuovamente in Messico, stavolta per sei settimane. Sulla scorta di questo viaggio, nacquero composizioni dal tono elegiaco dove una o più figure si affiancano ad alberi esotici. Le opere del periodo – come si apprezzò nella personale curata nel 1995 da Enzo Di Martino a Ca’ Pesaro – vedono figure allungate, quasi prive di consistenza plastica e immerse in ambienti senza tempo. Il colore acrilico, spesso ripreso con il pastello, divenne sempre più liquido, distribuito con pennellate che esibiscono generose colature. Nell’aprile 1998 la Civica Galleria d’arte moderna di Gallarate dedicò a Zotti una mostra con opere dal 1973 curata da Silvio Zanella.
A fine 2003 la Galleria d’arte moderna Raffaele De Grada di San Gimignano celebrò i settant’anni dell’artista con un’ampia antologica. L’anno successivo seguì quella curata da Giuliano Menato a palazzo pretorio di Cittadella, rivolta soprattutto ai lavori di ispirazione mitica. Nonostante la malattia che lo affliggeva da tempo, Zotti continuò a lavorare e a essere culturalmente partecipe. A inizio 2007, al palazzo della Permanente di Milano, s’inaugurò Zotti. L’epica, il racconto, l’elegia, 1956-2006, cinquant’anni di pittura, ordinata da Flaminio Gualdoni e Dino Marangon. In contemporanea si ebbe la pubblicazione di Simboli e metafore, autobiografia curata da Michele Beraldo per Canova Editore.
Il 16 maggio dello stesso anno l’artista si spense nella casa di Treviso.
A fine 2008, promosso dai fratelli Lucchetta per le edizioni Skira, uscì il catalogo generale, al quale Zotti e il suo archivio avevano iniziato a lavorare dal 2005. Enrico Crispolti è l’autore dell’introduzione, seguita dai saggi di Dino Marangon, Franca Bizzotto e Michele Beraldo.
Fonti e Bibl.: Z. (catal.), Torino 1971; C. Z. Il presagio della pittura, a cura di C. Cerritelli, Milano 1991; Z. (catal., Venezia), a cura di E. Di Martino, Milano 1995; C. Z. Mostra antologica 1973-1998 (catal., Gallarate), a cura di S. Zanella, Cornuda 1998; C. Z. Il mito della pittura (catal.), a cura di G. Menato, Cittadella 2003; C. Zotti, Simboli e metafore, a cura di M. Beraldo, Treviso 2007; C. Z. Catalogo generale, a cura di D. Marangon et al., I-II, Milano 2008-12; Z. 50 anni di pittura (catal., Treviso), a cura di B. Brand, Crocetta del Montello 2013.