CONVIVALI, CARMI
Due testimonianze risalenti l'una a Catone il Censore, l'altra a Varrone, accennano all'uso presso i Romani di celebrare gesta gloriose durante i banchetti. Per Catone (presso Cicerone, Tuscolane, 2, 3; Bruto, 19, 75), i commensali, con accompagnamento di tibia (flauto), intonavano successivamente canti in onore di uomini illustri. Per Varrone (presso Nonio, p. 77 M.), cotesti carmi venivano cantati a voci sole (assa voce), oppure con accompagnamento del tibicen (flautista) da pueri modesti: il che presuppone un ulteriore sviluppo dell'usanza e l'esistenza di canti appositi che fossero affidati alla tradizione orale e non all'improvvisazione. I carmi convivali erano già passati di moda al tempo di Catone il Censore (Cicerone, Bruto, 19, 75). Sul loro contenuto non sono possibili che ipotesi. Ma che la leggenda romana più antica, pervasa com'è da un senso di poesia innegabile, sia stata elaborata tanto nei carmi convivali quanto nelle nenie, nelle laudationes funebres e nei carmi trionfali, è supposizione che, messa innanzi dal Perizonio (Animadversiones historicae, Amsterdam 1685, p. 202), e ripresa dal Niebuhr (Römische Geschichte, I, p. 283), gode attualmente il favore dei dotti. Carmi analoghi si ebbero nell'antichità presso gli Spartani, i Macedoni, i Germani. Non è del tutto improbabile che l'epopea di Ennio, Nevio, Virgilio abbia sfruttato la poesia popolare primitiva congiungendola ai motivi tradizionali dell'epopea greca di cui imitava la tecnica esteriore.
Bibl.: Oltre alle storie della letteratura latina, v. F. Ramorino, La poesia in Roma nei primi cinque secoli, in Riv. di filologia classica, XI (1883), p. 497; G. De Sanctis, Storia dei Romani, Torino 1907, I, p. 22; II, p. 503.