Caronte (Carón)
Nome del demonio guardiano dell'Inferno e nocchiero dell'Acheronte (If III 70-136).
Per quanto non compaia nell'Odissea, C., divinità ctonia minore, è misteriosa figura del più antico mito ellenico: figlio dell'Erebo e della Notte, ministro di Ade, sulla sua cimba traghetta le anime dei morti (sepolti) sulla tetra palude di Acheronte. Gli antichi (Greci, Etruschi, Romani) ponevano, per radicata superstizione popolare, nelle tombe, dopo le esequie, l'obolo per il traghetto del fiume infernale. Una tradizione figurativa e letteraria, che si svolge per un arco assai ampio di secoli, gli attribuisce un aspetto prima severo e poi decisamente truce e demoniaco (presso gli Etruschi), dalla celebre pittura perduta dell'Averno di Polignoto (sec. V) a Delfi, alle lekythoi funerarie attiche, ai dipinti delle tombe e alle urne etrusche del periodo ellenistico (dalla fine del sec. IV al II-I secolo a.C.); dalle tragedie di Eschilo e di Euripide si giunge, tra gli altri, all'alessandrino Leonida di Taranto (III secolo a. C.), incluso nell'Antologia Palatina (VII 67), e soprattutto al Virgilio del VI dell'Eneide.
Per alcuni etruscologi (R. Bloch e F. De Ruyt) l'originario demone etrusco della morte avrebbe improntato solo il nome dal nocchiero greco; essere ibrido e bestiale, con il mazzuolo che porta in spalla, assesta con una sorta di gioia crudele il colpo decisivo agl'individui nel punto di morte e presiede, nelle pitture parietali, a orrendi sacrifici umani. A parte il carattere cruento, il C. virgiliano, che pur rimane un dio, risente delle deformazioni del demone etrusco (cfr. G.Giannelli): " portitor... horrendus... / terribili squalore Charon, cui... / canities inculta iacet, stant lumina fiamma, / sordidus... dependet amictus " (Aen. VI 298-301). Tuttavia è doveroso affermare che proprio uno dei tratti più espressivi della fisionomia di C. (" stant lumina fiamma ") traduce pressoché alla lettera il probabile epiteto abituale del dio, l'aggettivo greco χαροπός (" dagli occhi folgoranti "), che nella sua forma sincopata (cfr. Forcellini) sembra aver dato origine al nome stesso di Χάρων.
Non manca nella tradizione classica un filone realistico-satirico, con punte critiche a volte dissacratorie, nella rappresentazione del barcaiolo canuto, solerte ed esoso, dalle Rane di Aristofane ai Dialoghi dei morti di Luciano, alle Metamorfosi di Apuleio (VI 18). Per concludere, ricordiamo che un erudito di lingua greca, poco più anziano di Virgilio, Diodoro Siculo (I 92) ritiene il nome e la leggenda originari dell'Egitto. Lasciando invece da parte i problemi dell'etimologia e della nascita del mito, possiamo utilmente concludere, con il Paratore, che C., Cerbero, le Furie, i giudici infernali sono " variamente presenti in tutte le liturgie dell'oltretomba, da quella etrusca a quella osirica ".
L'episodio dantesco trova un riscontro, spesso letterale, in Aen. VI 295-332 e 384-416, non solo per il ritratto di C., ma anche per lo schema dialogico-narrativo di tutta la vicenda. I giusti rilievi che sono stati fatti nel confronto dei due testi sono rimasti in qualche critico episodici, mentre nell'insieme si prestano a un lavoro sistematico e all'illustrazione di un fatto letterario notevole, di una secolare e ben precisa tradizione. Vogliamo riferirci all' " arte allusiva ", di cui parla G.Pasquali, e che differisce sostanzialmente dall'imitazione letteraria dei moderni, perché più scoperta, quasi dichiarata, e tuttavia più libera nell'originalità della ricreazione emulativa. Nella tecnica allusiva, considerata tale anche dalla filologia classica, come scrive A. Ronconi, " si manifesta la continuità di una tradizione custodita dalle scuole, che ha le sue prime radici nel principio, enunciato anche da Quintiliano (Inrt. X V 4), che la ripresa di un testo in altra lingua... non deve essere letterale, ma più libera parafrasi e certamen e aemulatio, trasferimento di concetti altrui in forme d'arte nuove e personali, in gara con l'originale; nelle quali è permesso abbreviare particolari accessori e abbellirne altri... Aemulatio diventa, per un poeta di genio, libera ricreazione: e soprattutto la libertà concessa da Quintiliano di abbreviare il modello trova in D. particolare favore... Più stretto al modello è il C. dantesco, che del virgiliano ritiene la barba canuta e gli occhi di fuoco, non lo squallore della veste; virgiliana è la livida palude (lf III 98), " vada livida " (Aen. VI 320), anche se la trista riviera d'Acheronte (If III 78) ricorda piuttosto le " tristes ripae " di Stazio (Theb. I 93): ma nell'insieme sembra che D. voglia rilevare i suoi debiti verso il Mantovano, quasi vantando insieme l'altezza del modello e il proprio rifacimento ".
L'emistichio " stant lumina fiamma " è riecheggiato una prima volta da D. in If III 99 che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote (aveva gli occhi cerchiati - ma rote dà il senso di una sinistra mobilità dello sguardo - di un acceso riverbero; infatti Chimenz: " Gli occhi di C. erano fiammeggianti come bragia, a tal punto da sembrare che intorno ad essi si svolgessero giri di fiamma "). Sullo stesso particolare ritorna al v. 109 Caron dimonio, con occhi di bragia. L'accentuazione realistica del particolare è evidente anche sul piano linguistico-stilistico per l'efficacia della metafora, che sembra riprodurre l'immediatezza espressiva del parlato. E, per quanto non si possano proporre sicuri influssi diretti, ha fatto bene il Parodi a ricordare espressioni consimili, che egli considera abituali, presenti nelle ‛ chansons de geste ' francesi; valga per tutti l'esempio tolto da Aliscans Il 11 " Les iex ot rouges com carbons embrasés "; accanto potremmo collocare analoghe immagini di testi biblici, ricordate da F.Mazzoni: " Et oculi eius tamquam flammae ignis " (Apoc. 1, 14). In nessun caso, però, le similitudini hanno la rapidità e l'efficacia della metafora della Commedia.
Calchi romanzi e biblici sono qui chiaramente riconoscibili, con i modi non stilizzati, immediati del linguaggio parlato; così l'Auerbach, che ha studiato a fondo la mescolanza dei livelli linguistici e stilistici nella tradizione occidentale, per influsso della spiritualità e della letteratura cristiana, ha potuto asserire " che il concetto che Dante ha del sublime si distingue essenzialmente da quello dei suoi antichi modelli, non meno nei soggetti che nella forma linguistica ". Lo stesso studioso ha dedicato un'analisi approfondita allo stilema ricorrente nella narrazione dantesca Ed ecco..., con cui s'apre anche l'episodio vero e proprio di C. al v. 82 (cfr. F.Mazzoni). Esso ha la funzione d'introdurre un rapido mutamento di scena o l'irrompere improvviso di un nuovo personaggio, di sottolineare la drammaticità dell'evento imprevisto. D. adopera, ricalcando alla lettera lo stilema " et ecce " della Vulgata, questa " locuzione interruttrice ", che s'incontra più di rado " nello stile sublime che non in Plauto, nelle lettere di Cicerone, in Apuleio ecc. ". Al contrario Virgilio, dopo la descrizione del vestibolo dell'Orco con le personificazioni dei mali e delle sciagure umane e con i mostri (Centauri, Scille biformi, Briareo, l'idra di Lerna, la Chimera, le Gorgoni, le Arpie), fa seguire un'ordinata e canonica esposizione mitologica, come, altrove, s'ispira, nei suoi motivi più profondi, misteriosi, magici, iniziatici e profetici a una complessa religiòsità orfico-pitagorica (cfr. Paratore). L'oggettività mitica, che si risolve sul piano espressivo nella mesta elegia dello scrittore latino, con un sottofondo più cupo e tragico per il sentimento umanissimo della morte e del dolore, avvertiti qui con orrore, si rileva in questa distaccata notazione topografica, apparentemente soltanto denotativa: " Hinc via Tartarei quae fert Acherontis ad undas " (Aen. VI 295). Segue la descrizione dei fiumi infernali; poi C., " portitor has horrendus aquas et flumina servat / terribili squalore Charon " (VI 298-299). Dall'oggettività topografica a quella del ritratto si sviluppa l'armoniosa tessitura del racconto classico, inizialmente senza spezzature di sorta, con una gradualità esemplare di piani e uno studiato accordo tra la figura e lo sfondo del paesaggio, con la massa delle ombre che si accalcano sulla riva.
Naturalmente il confronto dei due testi può offrire un materiale inesauribile, sia dal punto di vista strutturale che da quello delle analisi particolari: ci limitiamo ancora ai rilievi stilistici.
A proposito delle splendide similitudini dantesche dei versi 112-117 (Come d'autunno si levan le foglie / ...per cenni come augel per suo richiamo), il confronto del testo virgiliano (Aen. VI 309-311 " quam multa in silvis autumni frigore primo / lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto / quam multae glomerantur aves ") conferma l'imitazione intesa come ‛ certamen ' ed ‛ aemulatio ' con il risultato dell'intensificazione, senza il pregiudizio di nessun vincolo alla libertà espressiva e con il recupero della realtà attuale dell'esperienza vissuta. Il poeta inserisce tra i due termini del paragone naturalistico (le foglie e gli uccelli) l'elemento base o primo della similitudine (i dannati che uno dopo l'altro discendono dall'argine nella barca, obbedendo al segnale imperioso di C.), compie apparentemente solo l'operazione di separare le immagini con una diversa dislocazione e una maggiore autonomia reciproca. Ma le novità sono molte: tutto il brano della Commedia ha intanto una diversa funzione; " in realtà l'immagine, che in Virgilio rende l'idea della moltitudine, in D. evoca più il ‛ modo ' del loro [delle anime] affrettarsi nella barca " (cfr. A.Ronconi; e v. anche la nota del Sapegno al v. 112). D., nel primo paragone, contamina i versi dell'Eneide con un passo delle Georgiche (II 81-82), in cui la pianta - dopo l'innesto - " miratur... novas frondes et non sua poma ": personifica così l'albero, attribuendogli sensi umani, 'e completa l'immagine con un nuovo più intenso rapporto (tra l'albero e le foglie, che, cadute sul terreno, rendono visibile la sua squallida desolazione e l'infelicità della loro sorte). Al precedente procedimento, che si può considerare una violazione dell'oggettività epico-naturalistica dell'esempio latino, si aggiunga la rottura dell'allineamento e della simmetria dei due paragoni virgiliani, simili anche nel ritmo, nel movimento e nelle ben precise circostanze di luogo e di tempo (" quam multa in silvis... / ...cadunt folia ": " ad terram gurgite ab alto / quam multae glomerantur aves "; " frigore primo / ...cadunt folia ": " glomerantur aves, ubi frigidus annus / trans pontum fugat "). I paragoni danteschi rifuggono da tali simmetrie; l'ultimo si presenta di scorcio, nella sua forma ellittica del predicato (per cenni come augel per suo richiamo): ancora una volta all'epos e al naturalismo descrittivo si oppone un procedimento improvviso e drammatico, più concentrato e intenso. Inoltre l'augel del v. 117 è il falcone da caccia dell'ars venatoria medievale, non corrisponde ai più comuni uccelli migratori descritti da Virgilio.
Infine, da un punto di vista più generale, va considerato il passaggio dal plurale al singolare: " quam multa folia... quam multae aves " trovano rispondenza solo parziale nel periodo dantesco e finiscono per dar luogo all'individualità (augel), anche con l'uso frequente del distributivo: si levan le foglie / l'una appresso de l'altra,.. / gittansi di quel lito ad una ad una / ...come augel per suo richiamo.
L'azione risulta illuminata e quasi scandita nella precisione delle sue fasi: assistiamo all'imbarco continuativo, ma effettuato singolarmente e sotto severo controllo, della lunga teoria delle ombre. Non solo c'è la pena, comune a Virgilio, per il gran numero dei morti, ma essa si rinnova singolarmente, in quell'indugio di un attimo carico di attenzione, per ogni anima dannata (drammaticamente e personalmente responsabile della sua colpa e punizione eterna), che scende dall'argine alla barca e obbedisce al cenno di Caronte.
L'arte di D. sa creare un momento di sospensione (silenzio, vergogna e sguardo rivolto a terra) e di attesa (curiosità repressa nel timore di importunare Virgilio) all'inizio dell'episodio. Perciò l'ingresso del nocchiero infernale sulla scena corrisponde a un'irruzione improvvisa, violenta e terrificante, in cui alla descrizione prima sommaria e poi sempre più espressiva di singole caratteristiche fisionomiche, fino alla massima caratterizzazione demoniaca degli occhi di bragia, si associano e s'intrecciano la parola gridata in tono di condanna (Guai a voi, anime prave!) e di disperazione (Non isperate mai veder lo cielo), il gestire e l'agire imperiosi, aggressivi, minacciosi come le intimazioni (anche nei confronti di Dante). Come scrive il Grabher, D. " rifugge dal fare il quadro, ma scende al suo essenziale valore drammatico distribuendo i particolari in maniera da soffermarvisi a poco a poco, nello svolgimento della scena: quando servono ad accrescerne la tragicità ". Ma già il Tommaseo aveva detto stupendamente: " Quel che Virgilio distende in un raggio, Dante raccoglie in un lampo ! ". La capacità di sintesi icastica è dote prima della realizzazione drammatica del poeta fiorentino; ad essa si aggiunge la centralità che egli ha saputo dare alla sua figura nella costruzione serrata di tutta l'azione, la quale trova in C. un protagonista e un cardine fondamentale.
Fosco, terribile, sinistro come il paesaggio sul quale si staglia, il vigoroso nocchiero sgomenta le anime per il modo deciso, violento, aggressivo (batte col remo, III 111), con cui interpreta e attua la giustizia di Dio. I dannati non hanno volto; sono numero considerato magari singolarmente nelle unità costitutive, fino a formare una lunga teoria, che lo spettatore osserva con costernazione partecipe: una specie di squallido censimento..,. di individui su cui grava la duplice morte del corpo e del peccato. In Virgilio avevamo presenze umane: " matres atque viri defunctaque corpora vita / magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae, impositique / rogis iuvenes ante ora parentum " (Aen. VI 306-308) e soprattutto il " gubernator... Palinurus " (VI 337-383), fedelissimo timoniere di Enea, con tutta la vicenda del naufragio e della morte e la menzione gloriosa del capo della costa campana che ne eternerà il nome:
La disperazione della morte, espressa in maledizioni e bestemmie, suona come una sconfessione totale del valore della creazione e della vita, riecheggia l'assoluto pessimismo del testo biblico:" Pereat dies in qua natus sum, et nox in qua dictum est: Conceptus est homo " (Job 3, 3). Il demonio, però, è solo apparentemente superiore alle sue vittime. Il " vinto di Dio " - come lo chiama il De Sanctis nel capitolo VII della Storia della letteratura italiana -, impotente a contrastarlo, soffre e fa soffrire, " vittima e carnefice a un tempo, simbolo esso stesso e immagine del peccato che flagella nell'uomo ". Il critico napoletano, meglio di alcuni moderni, ha inteso che il diavolo medievale è figura viva e mobile della colpa, figura, non persona; è assurdo pretendere qui un approfondimento psicologico. " Il demonio meno lontano dall'uomo è Caronte, in cui vien fuori l'apparenza di un carattere... Il poeta si è ben guardato di sviluppare il comico che è in questo carattere: la figura di Caronte rimane severa e grave, e non fa dissonanza con la solennità della natura infernale, dove si trova collocata ".
Sulla genesi virgiliana di C. su cui i moderni non hanno dubbi, l'Ottimo, una delle poche eccezioni tra gli antichi, aveva scritto: " Induce l'auctore uno demonio il quale li poeti chiamano Charon ". Per D. e per i teologi medievali, eredi di s. Paolo (I Cor. 10, 20) e dei padri della Chiesa, gli esseri più o meno mostruosi della mitologia erano incarnazioni demoniache, apparse tra gli uomini, come testimoniavano in maniera veridica i poeti e gli storici pagani. Il significato di C. per D. era dunque quello storico-letterale: figura mitologica, come in Virgilio, reintegrata però nella sua vera essenza demoniaca sulla scorta della dottrina medievale.
Tuttavia a D. era tutt'altro che estranea l'interpretatio nominum, a volte in lui esplicita e dichiarata; essa consisteva in un significato concettuale e simbolico, strettamente legato al tentativo di rietimologizzare la parola.
Non è possibile, per mancanza di documenti certi, ricostruire il pensiero dell'autore in proposito; però, sulla scorta di quanto scrivevano gli antichi commentatori, si può azzardare l'ipotesi che egli seguisse alcune delle etimologie e delle interpretazioni basate sulla tradizione degli scoliasti virgiliani. Tra di essi Servio (ad Verg. Aen. VI 299) proponeva la derivazione per antifrasi da χαίρω, " gaudeo ", quasi ἀχαίρων, e strettamente connessa a questa considerava quella di Άχέρων (Acheron): cfr. ad. Verg. Aen. VI 107: " vox ab α priv. et χαρά: gaudium ". Fabio Planciade Fulgenzio (De Virgiliana continentia) chiosava: " Acheron enim graece sine tempus dicitur, Caron vero quasi c(e)ron, id est tempus ".
Da questa duplice tradizione, e tenendo presente la stretta connessione delle due supposte etimologie (di C. e dell'Acheronte), si spiega l'interpretatio nominum dei commentatori della Commedia. Pietro, in accordo col Boccaccio, con l'Anonimo, con Benvenuto e col Serravalle, scriveva: " Charon enim nauta huius tallis fluminis interpretatur tempus. Nam dicitur Caron quasi Cronum quod tempus interpretatur, quod quidem tempus nos vehit per discursus mundi huius ut nauta "; mentre l'Ottimo annotava: " Charon, dinominato così dal effecto, però che mena l'anima in luogo amaro ". Sono da aggiungere, a proposito dell'Acheronte, Pietro (" Acheronte, idest sine gaudio "), Guido da Pisa (" Acheron, ab a quod est sine et cheron quod est gaudium sive salus "), Anonimo, Benvenuto, Vellutello, Gelli. Ma la maggior parte degli antichi commentatori, non contenta dell'interpretatio nominum, finiva, attraverso errate etimologie, per cadere nell'allegorismo puro, estraneo in questo caso alle intenzioni di Dante.
Il Lana vedeva in ‛ Charon ' " la volontade carnale "; così Guido da Pisa (" Et tenet figuram et similitudinem carnis per cuius opera anima aeternis suppliciis deputatur ") e il Buti. Si stabiliva cioè una connessione arbitraria tra ‛ charon ' e ‛ caro '.
La fortuna di Caronte. - Per la fortuna di C. nella letteratura e nelle arti figurative non pretendiamo di compiere un'indagine esauriente, ma fornire solo qualche spunto.
La presenza del nocchiero nell'affresco del trecentista Nardo di Cione in S. Maria Novella è notevole per la sua arcaicità. Le interpretazioni originali e fedeli di D. si hanno soprattutto nella raffigurazione dell'Antinferno del Signorelli (Gli angeli che cacciano i reprobi all'inferno) nella Cappella di San Brizio a Orvieto e con il Giudizio Universale di Michelangelo. Sulla parete di fondo della Cappella Sistina la figura cupa ed erculea del demonio, che si avventa col remo contro i dannati, ha la potenza rovinosa e selvaggia di una furia e dello scatenarsi di una misteriosa forza naturale. La deformazione demoniaca è evidente nell'aspetto satiresco, negli occhi irosi, sporgenti e sbarrati del forsennato. Un particolare differenzia la realizzazione pittorica dal testo letterario: qui i dannati, ormai rivestiti del loro corpo reale, vengono sbarcati sull'altra sponda dell'Acheronte, come dimostra la presenza di Minosse. È una fase non descritta nella Commedia, per lo svenimento di Dante. Altre volte la presenza di C. non ha nulla di dantesco: appartiene a un comune sfondo classico mitologico, come nel dialogo latino (Charon) di G. Pontano. Per C. nel Baldus, v. Folengo.
Il pittore romantico E. Delacroix dipinge (1822) D. e Virgilio sulla barca di Flegiàs attraverso la palude Stige tra minacciosi iracondi e con la città di Dite sullo sfondo (If VIII). E una tela giovanile ma importante, perché rivela la sua vocazione interiore, visionaria e drammatica; Baudelaire ne parlerà a più riprese, specialmente a proposito del Salon del 1846. Tra i modelli tenuti presenti, oltre alla famosa Zattera della Medusa di Géricault, i critici hanno indicato con sicurezza alcune incisioni del Giudizio di Michelangelo, dove figura la barca di C.; il quadro sarà poi copiato da Corot, Courbet, Manet, Cézanne.
Infine incontriamo proprio l'autore di Les Fleurs du Mal nel suo Don Juan aux Enfers: " Intenso quadro senza colore, tutto contrasto di bianchi e di neri " (G. Macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni, Bari 1966, 22-24). Nella scena che si svolge C. riceve l'obolo, ma è esautorato nelle sue funzioni vere; il povero mendicante, che il peccatore durante l'incontro nella foresta voleva indurre a bestemmiare, ora stringe con forza vendicatrice il remo e voga fiero e ostinato, come uno strumento della giustizia divina, trasportando don Giovanni alla pena eterna, mentre il convitato di pietra regge, inflessibile, il timone.
Bibl. - E. Carrara, in " L'Arcadia " IV (1921) 28 (dell'estratto); F. D'Ovidio, Nuovi studi danteschi, in Opere, II 2, Napoli 1932, 9; Parodi, Lingua 232-234; N. Sapegno, Il canto III dell'Inferno, in Lect. Scaligera I 53 ss.; Petrocchi, Introduzione 60; G. Padoan, Il c. III dell'Inferno, in Nuove lett. I 47-71; F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla " D.C. ", Firenze 1967, 418 ss.; P. Nicosia, . Alla ricerca della coerenza, Messina-Firenze 1967, 67-81; ID., Dieci saggi sull'Inferno dantesco, Messina-Firenze 1969, 79-98. Sul mito di C.: F. De Ruyt, Charun, démon étrusque de la mort, Bruxelles 1934; G. Giannelli, C., in Enc. ital. IX; E. Paratore, Virgilio, Firenze 1954, 352-359; L. A. Stella, Mitologia greca, Torino 1956, 448-450; A. Maiuri e L. Venturi, La pittura in Italia dalle origini al secolo XIII, Ginevra 1959, 50, 52; E. Paratore, Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, passim. Vedi inoltre, per quel che riguarda la figura dantesca di C.: E. Moore, Studies in D., s. I, Oxford 1896; A. Zardo, Il c. III dell'Inferno, in Lectura Dantis, Firenze 1901; L. Pietrobono, in " Rassegna Nazionale " 16 novembre 1901; G. Mazzoni, Inferno c. III, in Lect. Genovese, Firenze 1904; M. Martini, Il C. virgiliano e il dantesco, Piacenza 1907, 36 ss.; E.G. Parodi, in " Bull. " XIII (1906) 289; A. Chiappelli, Il c. III dell'Inferno, in Lectura Dantis, Roma 1914; M. Barbi, in " Studi d. " XI (1927) 121-124; A. Vezin, in " Deutsches Dante Jahrbuch " XXIII (1941); G. Pasquali, Stravaganze quarte e supreme, Venezia 1951, 11; E. Auerbacx, Mimesis, trad. it., Torino 1964, 195-196, 200; A. Ronconi, in " Studi d. " XLI (1964) 6-44. Sulla fortuna figurativa del personaggio dantesco, v.. infine: L. Johnson, in " Burlington Magazine " ci (1958); C. De Tolnay, Michelangelo, V, Princeton 1960, 42.