CARRARA, Francesco da, il Novello
Fu l'ultimo signore di Padova: figlio di Francesco il Vecchio e di Fina Buzzacarini, vi nacque il 29 maggio 1359. Meriti e reputazione acquistò nelle armi durante le lunghe guerre combattute dal padre nel tentativo di sottrarsi alla pesante protezione che Venezia esercitava da oltre un ventennio nei confronti della signoria carrarese. Ma il 29 giugno 1388 Francesco il Vecchio, minacciato all'esterno dagli eserciti collegati di Gian Galeazzo Visconti e della Repubblica veneta, oppresso all'interno dalla defezione dei suoi stessi consiglieri e dalla crescente ribellione della cittadinanza, preferì abdicare in favore del C. e ritirarsi a Treviso. Questa soluzione non valseperò a facilitare al figlio un accordo con i nemici. Essi infatti non tennero neppur conto del mutamento e senza tregua proseguirono nelle loro operazioni militari. Il piano degli alleati, che prevedeva l'avvicinamento e il congiungimento delle forze, ottenne il 13 nov. 1388 pieno successo: strette dai due, le truppe carraresi ripiegarono confusamente su Padova. Assediato, con l'esercito in rivolta e il popolo in tumulto (si contano quattro sollevazioni in sette giorni), il C. era costretto il 21 novembre a venire a patti con Giacomo Dal Verme, capitano generale dell'esercito visconteo: cedeva temporaneamente il suo Stato a Gian Galeazzo Visconti, conservando però il castello di Padova e la città, libera da occupazione straniera, finché egli, giunto, secondo la convenzione, a Pavia, non avesse stipulato con il signore di Milano gli ultimi accordi definitivi. "Vana riserva - scrive la Pastorello (Nuove ricerche…, pp. 35 s.) - che… fa dell'armistizio una resa a discrezione" e "perciò segna realmente la caduta di Padova sotto il dominio visconteo". Mentre infatti si sollevavano anche Treviso, Belluno, Feltre e Francesco il Vecchio, ingannato dai messi del Visconti, acconsentiva a recarsi in Lombardia e vi rimaneva prigioniero, il C., dopo aver invano atteso a Milano di ricevere udienza da Gian Galeazzo, non intravide altra via d'uscita che sottoscrivere ufficialmente la cessione di Padova (11 febbr. 1389), nella speranza di migliorare la condizione sua e del padre.
Quale dimora, il Visconti destinò al C. la solitaria rocca di Cortesone, nell'Astigiano. Ma ad Asti, dove aveva ottenuto di risiedere in attesa che il castello venisse restaurato, il C. riuscì a raccogliere preziose informazioni circa l'atteggiamento politico degli Stati italiani preoccupati della potenza viscontea. Tale preoccupazione, che fu avvertita in primo luogo da Firenze, intenta a sbarrare al Visconti le vie dell'Appennino, era condivisa da Venezia, che, anche dopo la comune vittoria e la conquista di Treviso (14 dic. 1388), mirava ad ostacolare il consolidarsi e l'estendersi della signoria viscontea nella terraferma. E a Firenze, per l'appunto, il C. pensò di poter trovare rifugio e sostegno. Meditò allora la fuga e, sparsa voce di recarsi a sciogliere un voto a S. Antonio di Vienne nel Delfinato, vi andò nel marzo del 1389 con la moglie Taddea d'Este e il fratello Rodolfo. Da qui, con un viaggio avventuroso e drammatico, quale emerge dalla descrizione che ne hanno conservato i Gatari (pp. 369-377), si portò ad Avignone, indi ad Arles e a Marsiglia e per mare, a Genova, tormentato dalle burrasche, dalle insidie dei messi di Gian Galeazzo, respinto da questo o quel governo per timore del Visconti. Raggiunta Pisa, arrivò finalmente a Firenze nei primi giorni d'aprile del 1389.
Se dapprima ricevette fredda accoglienza, perché la Repubblica fiorentina non riteneva ancora giunto il momento di modificare il prudente indirizzo della sua politica nei confronti del signore di Milano, l'accrescersi in Toscana dei sospetti contro il Visconti convinse Firenze ad appoggiare, sia pure indirettamente, l'audace progetto del C., deciso a recuperare la perduta signoria. Il governo fiorentino non mancò mai però di sottolineare il carattere schiettamente personale dell'impresa, consigliando quindi il C. a far affidamento più sulle proprie risorse che sul favore delle signorie toscane. Ma nella guerra che si andava ormai preparando durante l'invemo del 1389, il C. cominciava ad essere un alleato prezioso. Mentre infatti Firenze e Bologna si davano da fare presso il re di Francia e l'antipapa Clemente VII onde assicurarsi il loro appoggio, il C. aveva passato le Alpi e per conto proprio si era recato in Germania dal duca Stefano III di Baviera, genero di Bernabò Visconti, ad assoldare milizie per la riconquista del suo Stato. Nel marzo del 1390 le relazioni tra Firenze e Milano giunsero ad un punto estremamente critico. Invano si interpose Venezia per trovare un accordo: un mese dopo la guerra era dichiarata e si iniziavano le ostilità. Il C., ottenuti soccorsi militari dal conte di Ottenburg, marito della zia Lieta da Carrara, e buone promesse dal duca di Baviera di entrare nella lega antiviscontea, si apprestò a scendere attraverso il patriarcato di Aquileia, già da tempo divenuto rifugio dei vecchi e dei nuovi seguaci dello spodestato signore.
Pochi mesi di malgoverno dei ministri viscontei erano infatti bastati per rovesciare la situazione in Padova e favorire il ricostituirsi del partito filocarrarese: lo attestano le congiure, che si susseguirono in città tra il cadere del 1389 e il prmcipio dell'anno seguente. Venezia ostentava apparentemente una scrupolosa neutralità, consigliando, interpellata dal patriarca, di non lasciar passare le milizie tedesche assoldate dal C., e confermando il 3 giugno 1389 ai rettori del Trevigiano e del Cenedese il divieto ai sudditi di arruolarsi sotto le insegne carraresi. Risoluta a non inimicarsi il Visconti, declinò ogni invito della lega, né accolse, come vorrebbero i Gatari (p. 401), la richiesta inoltrata da Firenze e Bologna di lasciar passare attraverso gli Stati veneti il C., alla testa del suo piccolo esercito. Ma nulla Venezia fece per compromettere concretamente l'impresa del C. e per impedirgli l'avanzata. Con l'aiuto di Firenze e il tacito consenso della Serenissima, il C., attraversato il territorio trevigiano, poté dunque giungere nottetempo alle porte di Padova, penetrarvi di sorpresa e occupare il 21 giugno 1390 la città, mentre il presidio visconteo si rinchiudeva nel castello e il 27 agosto era costretto alla resa. L'8 settembre, alla presenza del duca Stefano diBaviera e degli ambasciatori inviati da Firenze e da Bologna, gli Anziani del Comune provvidero a conferire nuovamente al C. la signoria di Padova.
Nei progetti del C. il recupero di Padova costituiva il primo passo di un programma di ben più vaste proporzioni; tale programma, gia tentato dal padre, comportava per l'appunto lo sforzo di uscire dai confini soffocanti della città-stato verso la creazione di un assetto territoriale di maggior respiro, in grado di garantire un'autonomia politica ed economica alla rinata signoria. Fu quindi una vera e propria guerra di conquista quella che il C. dichiarò all'indomani dell'elezione, il 17 sett. 1390, ai danni di Alberto d'Este. Per il perentorio intervento della diplomazia veneziana l'offensiva carrarese nel Polesine ebbe brevissima durata, ma poiché essa fu intrapresa con il segreto assenso dei nemici dei Visconti e la cooperazione di Bologna, "la si deve… considerare come un'impresa collettiva, la prima della prima lega antiviscontea, ormai stabilmente costituita" (Pastorello, Nuove ricerche…, pp. 72 s.).
Nell'inverno del 1390 l'esercito degli alleati si raccolse intorno a Padova, scelta come base delle operazioni militari: obbiettivi, la ricostituzione del dominio scaligero e la guerra contro Francesco Gonzaga, signore di Mantova. All'una e all'altra spedizione fu presente il C.; nel gennaio del 1391 intervenne infatti, con proprio contingente di truppe, all'azione nel Vicentino e nel Veronese e all'invasione del Mantovano, che costrinse il Gonzaga a ritirarsi dall'alleanza viscontea; nel marzo prese parte a quella marcia nel territorio bresciano e bergamasco verso il cuore dello Stato milanese, che avrebbe dovuto finalmente stroncare la resistenza del Visconti. Ma il lungo ritardo del conte d'Armagnac, assoldato dalla lega, cui era affidato il compito di assalire da ovest la Lombardia, e poi la piena sconfitta che questi subì sui campi di Marengo, presso Alessandria, ad opera del Dal Verme (25 luglio 1391), minarono fortemente l'offensiva antiviscontea. Mentre il fronte bellico si spostava sul territorio padovano e con alterna fortuna si ripetevano gli scontri tra le parti, laboriose trattative diplomatiche portavano al lodo di Genova del 20 genn. 1392, raggiunto attraverso la mediazione del doge Antoniotto Adorno. La sentenza arbitrale riconosceva, a vantaggio del C., il fatto compiuto, vale a dire il possesso di Padova; ma escludendo la possibilità di compensi territoriali, che restituissero al suo Stato l'antica grandezza, e, soprattutto, legandolo al Visconti con un tributo annuo di 10 mila fiorini, alle repubbliche protettrici con un debito di gratitudine forse ancora più oneroso, essa "gli vendeva a caro prezzo la sanzione ufficiale del suo diritto di conquista" (Pastorello, Nuove ricerche…, p. 77).
L'instabile compromesso non poteva che avere breve durata. A un mese di distanza il C. aderiva infatti alla seconda lega antiviscontea, stipulata a Bologna l'11 apr. 1392. Vi mancarono concordia e unità di indirizzo. Alla prudente politica di Firenze, che cercava di procrastinare le ostilità, il C. opponeva la volontà di creare ad ogni costo il desiderato casus belli, mostrandosi deciso, nel giugno del 1394, a rifiutare il pagamento dell'annuale tributo dovuto al signore di Milano. In risposta le milizie viscontee, concentrate tra il gennaio e il febbraio del 1395 a Verona e a Vicenza sotto il comando di Ugolotto Biancardo, se miravano a sostenere nel ducato di Ferrara i diritti di Azzo contro il giovane Nicolò, erede di Alberto d'Este (morto il 30 luglio 1393), minacciavano egualmente di invadere il territorio padovano. Ma Venezia diede aiuti di uomini e di denaro. Firenze intervenne con vibrate proteste e per il momento fu stornato il pericolo di una ripresa delle ostilità.
A legare maggiormente il C. alla causa degli avversari del duca di Milano, più assai che l'alleanza stipulata da Firenze il 29 sett. 1396 con il re di Francia ai danni del Visconti, contribuirono le pratiche relative alla conclusione di una duplice parentela: con gli Estensi, attraverso il matrimonio della figlia Gigliola con Nicolò III d'Este (giugno 1397), e con i Gonzaga, attraverso le nozze del primogenito Francesco con Alda di Francesco Gonzaga, avvenute nel luglio del 1397, in un momento particolarmente difficile per il signore di Mantova. L'offensiva del Visconti iniziava infatti nella primavera del 1397 con l'invasione del territorio mantovano, preparata dalla deviazione del Mincio, e culminava il 15 luglio con l'importante conquista di Borgoforte ad opera di Giacomo Dal Verme. Grazie ai soccorsi di Padova, Ferrara e Firenze l'avanzata viscontea venne arrestata il 28 agosto a Governolo, sul Po. Ma a decidere della vittoria fu soprattutto la squadra navale inviata da Venezia, che, ormai apertamente favorevole al Gonzaga, si decise a intervenire nel conflitto e a stringere l'anno seguente, il 21 marzo 1398, un'alleanza con i nemici del duca di Milano. Era però intenzione e interesse della Serenissima salvare le piccole signorie lombarde, senza tuttavia impegnarsi in una guerra contro il Visconti. Trascorsi due mesi, Venezia firmava infatti a Pavia, a nome degli alleati, una tregua (11 maggio) e due anni dopo la pace (21 marzo 1400), che ridusse alla condizione di protetti della Repubblica veneta gli avversari del Visconti e annullò il significato della loro coalizione. Ne è prova la richiesta fatta dal governo veneto al C. di rinnovare i patti politico-economici, che fin dal 14 luglio 1337 avevano sancito uno stato di subordinazione della signoria carrarese di fronte a Venezia. L'accordo, cui il C. dovette piegarsi, fu firmato il 5 luglio 1399; a un anno di distanza, in occasione della conclusione della pace (21 marzo 1400), la Serenissima ricompensava il signore di Padova ottenendo la riduzione del tributo annuo dovuto dal C. al Visconti da 10 a 7 mila fiorini.
Ma la speranza di conquiste territoriali, che consentissero la creazione di un più vasto Stato, mantenne il C., quando altri si ritiravano o tacevano, su una linea di condotta decisamente avversa al duca di Milano, rendendolo, con Firenze, l'unico membro attivo della coalizione antiviscontea. Particolare rilievo ebbe perciò il ruolo che egli ricoprì nel corso della spedizione in Italia dell'imperatore Roberto di Baviera (eletto il 20 ag. 1400 in luogo del deposto Venceslao), con cui si apre l'ultima fase della lotta contro Gian Galeazzo.
Minacciata sempre più seriamente dalla potenza dei Visconti, la Repubblica fiorentina invocò infatti l'aiuto dell'imperatore Roberto, che, attratto dai fiorini promessigli, scese in Italia. Nel settembre del 1401, dietro invito di Firenze, gli mosse incontro a Trento il C. offrendo, a nome proprio e della lega, uomini e denaro. Il compenso che il signore di Padova si riprometteva dall'impresa era l'acquisto di Brescia, alla volta della quale partirono l'esercito imperiale e le truppe cartaresi. Ma troppo tardi vi giunsero (fine ottobre). Il Visconti aveva assoldato con le loro milizie i più illustri capitani del tempo, compreso Francesco Gonzaga, già suo nemico. Il piano di invadere la Lombardia attraverso il Po fallì: gran parte dell'esercito tedesco, battuto, fu costretta a ritirarsi e il C. dovette affirettarsi a difendere il proprio Stato dalle armi viscontee concentrate a sud-ovest. Nell'aprile del 1402 l'imperatore, dopo aver trascorso l'inverno a Padova, fece ritorno in Germania, accompagnato ai confini della signoria dal C., che, quale unico e vano riconoscimento dell'opera prestata, ottenne il rinnovo del titolo di vicario imperiale.
Il progetto per la formazione di una terza lega antiviscontea maturava intanto a Bologna, che già dal gennaio del 1402 era circondata dalle forze del duca di Milano. L'accordo fiorentino-bolognese, concluso nel marzo, fu il nocciolo della nuova alleanza. Dopo la metà di aprile, con la dichiarazione di guerra del Gonzaga a Giovanni Bentivoglio (16 aprile) e di Gian Galeazzo a Firenze (20 aprile), il campo della lotta si fissò decisamente intorno a Bologna, dove il C. inviò tra il maggio e il giugno numerosi rinforzi al comando dei figli Francesco e Giacomo. La disastrosa sconfitta che l'esercito alleato subì il 26 giugno 1402 a Casalecchio gettava tutti gli avversari del duca di Milano nello sgomento, ulteriormente accresciuto, a due giorni di distanza, dalla caduta di Bologna. Ma il 3 settembre interveniva, improvvisa, la morte del Visconti. Era la salvezza per Firenze; per il C. il momento di agire e di realizzare finalmente, dopo tanti anni di guerra tenace, le proprie aspirazioni. Si affrettò quindi ad assoldare annati, a riannodare relazioni con Guglielmo Della Scala e i ribelli insorti a Brescia e a Bergamo, ad aderire alla lega stipulata il 19 ottobre da Firenze e il pontefice ai danni del ducato di Milano. Venezia, che andava intensificando la sua vigile protezione, dapprima sconsigliò, poi costrinse il C. alla pace con Caterina Visconti. Firmata il 7 dic. 1402, essa ristabiliva tra Milano e Padova la situazione sancita dagli accordi del 1400.
Il precario compromesso durò poco. Stimolato da Firenze e incapace di riconoscere la fragilità della propria posizione, il C. ritentò da solo l'impresa, che tante volte, con l'aiuto altrui, non gli era riuscita. Sordo alle insistenti pressioni della Repubblica veneta, mosse infatti su Brescia, chiamatovi dal partito guelfo, e la occupò il 21 ag. 1403. Il ritiro di Bonifacio IX dalla lega e l'invio di truppe viscontee ai danni del territorio carrarese costrinsero però il C. ad abbandonare la città, che un mese dopo tornò sotto il dominio di Caterina Visconti. Ma non si perse d'animo e appoggiandosi a Firenze e a Roberto di Baviera si adoperò per rinnovare ed estendere l'alleanza antiviscontea. E se la lega fallì per le eccessive pretese economiche avanzate dall'imperatore, il C. non indietreggiò dinanzi ad un isolamento che poneva le sole sue forze di fronte agli eserciti viscontei. Il 27 marzo 1404 concluse un patto con Guglielmo Della Scala (figlio naturale di Cangrande II) e i figli di lui Brunoro e Antonio per tentare la riconquista di Verona e di Vicenza. In base ad esso Verona sarebbe toccata agli Scaligeri, Vicenza ai Carrara. Compiuta la conquista di Verona nella notte dal 7 all'8 aprile, mentre il 10 dello stesso mese Guglielmo Della Scala vi era proclamato signore, le schiere padovane, guidate da Francesco, si diressero contro Vicenza, già assediata. Ma questa città, davanti al pericolo di cadere sotto la dominazione carrarese, preferì il 25 aprile darsi a Venezia. In risposta il C., dopo aver fatto arrestare Brunoro e Antonio Della Scala, successi al padre il 15 aprile, si affrettò ad occupare la stessa Verona (25 maggio).
Era quanto la Repubblica veneta intendeva assolutamente impedire. Fin dal momento in cui Venezia aveva contribuito, con l'appoggio di Firenze, al risorgere della signoria carrarese per rompere l'unità territoriale viscontea, troppo minacciosa, il programma politico dell'aristocrazia lagunare era rimasto infatti impostato proprio sul mantenimento nell'entroterra del frazionamento e dello status quo, quale sola garanzia di difesa degli ormai consistenti interessi economici in terraferma. Lo scontro si presentava dunque inevitabile. Quando si intensificavano da entrambe le parti i preparativi militari e la Serenissima, assoldati Giacomo Dal Verme e Paolo Savelli, affidava il comando delle milizie a Malatesta Malatesti da Pesaro, Firenze fece nel giugno un estremo tentativo di mediazione. Ma invano: erano passate sotto il dominio veneziano anche Belluno (18 maggio), Bassano (10 giugno), Feltre (15 giugno) e già si combatteva prima che fossero state ufficialmente aperte le ostilità. E intanto Venezia operava, instancabile, nel campo diplomatico: se fallivano le pratiche con Nicolò d'Este, riusciva invece ad attrarre a sé, con la promessa di Ostiglia e Peschiera, Francesco Gonzaga. La vittoria ottenuta dagli eserciti uniti del C. e di Nicolò d'Este, che il 25 sett. 1404sbaragliarono a Limena le forze veneziane, non fu che temporanea. Nell'ottobre, sostituito nel capitanato al Malatesta il Savelli, la Serenissima sferrò un triplice attacco: nel Veronese, nel Polesine e nel Padovano. Stretta d'assedio Verona, mentre Rovigo si arrendeva, Paolo Savelli entrava nel Piovato di Sacco, avanzava fino a Camposampiero e verso la fine di dicembre giungeva alle porte di Padova. Respinto nel gennaio del 1405 un nuovo tentativo di mediazione intrapreso da Firenze, il Senato veneto riusciva nel marzo a togliere al C. un prezioso alleato, convincendo l'Estense alla pace. Ad aggravare la già critica situazione del C. sopravveniva il tradimento del fratello naturale Giacomo, che il 6 marzo di quell'anno aveva concluso un accordo segreto impegnandosi a consegnare Padova alla Repubblica veneta.
Con la conquista dell'importante bastita di Castelcaro (26 maggio 1405) ebbe inizio la marcia vittoriosa dell'esercito veneziano nel cuore del dominio carrarese. Nel giugno, dopo che anche Verona si era sollevata, le truppe del Dal Verme accorsero a rinforzare le schiere del Savelli accampate al Bassanello, sotto le mura di Padova. Stremato di forze e di denaro, mentre in città alla carestia si aggiungeva la peste, il C. si piegò nell'agosto a scendere a patti con Venezia. Ma quando le trattative stavano per concludersi, giunsero al C. da Firenze promesse di pronti soccorsi, che indussero il signore di Padova a tentare l'ultimo sforzo militare. La situazione però era ormai disperata: per dedizione o per danaro caddero ad una ad una le fortezze del territorio; nella città, privata pure dell'acqua, agitazioni popolari, trame di fuorusciti, tentativi di sorpresa alle porte si intrecciavano con i pressanti appelli rivolti al C. da quanti - e vi era compreso il figlio Francesco - volevano la resa. Impotente a contrastare la scelta unanime della cittadinanza, il C. promise il 16 nov. 1405 di cedere la città entro dieci giorni. Ma la notte seguente truppe veneziane, dopo aver sedotto le guardie della porta di S. Croce, penetrarono in città e occuparono i borghi. Ottenuto un salvacondotto, il C. si portò al campo nemico a proporre la resa. Per trattare la quale spedì subito a Venezia Michele da Rabatta e Pier Paolo Crivelli, mentre il Comune padovano, consapevole dell'inutilità di ogni resistenza, vi inviava a nome proprio sei cittadini con l'incarico di offrire la dedizione di Padova. Dedizione che il Senato veneto accolse il 22 nov. 1405, respingendo invece gli ambasciatori carraresi.
Non restò al C. che rimettersi, con il figlio Francesco, alla clemenza della Serenissima. Ma quando il 23 novembre essi giunsero a Venezia sotto buona scorta, caddero le loro ultime illusioni di salvezza: condotti in un primo tempo nel monastero di S. Giorgio Maggiore, vennero poi trasferiti nella "torresella" del palazzo ducale, quindi, per maggior sicurezza, furono rinchiusi nella "prigion forte", dove trovarono Giacomo, fatto prigioniero dopo la caduta di Verona. Nelle lunghe e varie sedute che si tennero nel Senato per decidere della loro sorte, alcuni proposero il confino a Candia o a Cipro, altri propendevano per il carcere a vita. Aggravò il destino dei prigionieri la scoperta, fatta proprio in quel momento, di un sistema di spionaggio cui il C. non aveva esitato a ricorrere per venire a conoscenza delle deliberazioni segrete della Serenissima durante la guerra e l'assedio di Padova. Tale scoperta, unita al pericolo di una riscossa e alle congiure che parenti e amici, in nome dei Carraresi, andavano preparando entro il territorio veneto e fuori, valse a confermare la Repubblica della necessità di una decisione drastica. Il 17 genn. 1406, per mandato del Consiglio dei dieci, il C. venne strangolato in carcere e sepolto poi nella chiesa di S. Stefano ai Frari. Uguale sorte toccava alcuni giorni dopo ai figli Giacomo e Francesco.
Oltre i ricordati Francesco e Giacomo, il C. aveva avuto Gigliola (m. 1416), Ubertino, Marsilio, Nicolò, morto in giovane età, Valpurga, badessa del monastero di S. Agata di Padova (morta nell'agosto del 1405) e cinque figli naturali: Stefano, Gionata, Milone, che, riugiatosi a Firenze nel 1405, vi finì i suoi giorni, e Agnese, maritata nel 1399 a Ognibene da Mantova.
Con la morte del C. si concluse un'epoca che aveva avuto inizio quasi un secolo prima con l'affermarsi a Padova della signoria carrarese. L'istituzione di questa signoria aveva risposto al bisogno di creare strutture statali capaci di far fronte a quei compiti politici e militari (di controllo di elementi interni e di lotta politica con l'esterno) di fronte ai quali il Comune era crollato. Ma il processo, per una necessaria evoluzione, doveva continuare. E la spinta non poteva che essere verso il rafforzamento del potere politico e la sua estensione a un più vasto ambito territoriale: verso la formazione, cioè, di nuovi e più stabili assetti politico-territoriali, che solamente in una dimensione regionale avrebbero trovato la base indispensabile per porsi come non precari centri. di organizzazione delle forze in essi operanti. Tale formazione, invano tentata nel Veneto dagli Scaligeri prima e dai Carraresi poi, fu, dunque realizzata da Venezia, che il 3 genn. 1406, con la solenne dedizione di Padova, inaugurava il suo dominio di Terraferma.
Educato sin dall'Infanzia da letterati quali Simone Maceri da Parma e Nicolò Beccari da Ferrara, fratello di quell'Antonio che fu amico e discepolo del Petrarca, il C. non poteva non divenire l'erede, se pure in tono più sommesso, dello splendido mecenatismo paterno. Perciò sotto il profilo culturale e artistico la corte carrarese continuò ad essere, anche sullo scorcio del XIV secolo, un centro estremamente fecondo. Vi contribuirono con efficacia copiose tradizioni di studi, la solida formazione letteraria di tanti cancellieri (basti pensare a Nicoletto d'Alessio e a Giovanni Conversini), la presenza di un'università viva e operosa. Ma determinante fu l'eredità lasciata dal Petrarca, che avendo trovato qui, numerose, le amicizie e soddisfatte le affinità, aveva voluto trascorrere sotto la protezione dei Carrara la seconda metà della vita: e quando egli morì nel 1374 lasciò a Francesco il Vecchio la parte migliore della sua biblioteca, unica per consistenza e valore.
Il 21 nov. 1388, con la caduta di Padova nelle mani del Visconti, gli esemplari più preziosi della libreria carrarese prendevano la strada per Pavia. Ma fu preoccupazione del C., una volta che ebbe ripreso la città e la signoria, ricostituire, almeno in parte, tale libreria, recuperando alcuni codici sfuggiti alla spogliazione viscontea e acquistandone altri, che il suo gusto personale, il consiglio autorevole di collaboratori o l'occasione gli procurarono. Una nota di consegna del 9 maggio 1404 consente di conoscere 61 manoscritti posseduti dal Carrara. Tra essi, per quanto concerne il campo letterario, rivestono particolare rilievo il De remediis utriusque fortunae del Petrarca, la cronaca di Albertino Mussato e forse quella di Galeazzo Gatari e il codice contenente i nomi e la descrizione dei cimieri dei Carraresi; nel settore riguardante la medicina spiccano invece le opere di due illustri professori padovani: i Consilia del famosissimo Marsilio Santasofia e il libro de li dicti di Pietro da Pernumia, il medico che curò Francesco il Vecchio durante la prigionia.
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