CARUTTI DI CANTOGNO, Domenico
Nato a Cumiana (Torino) il 26 nov. 1821 da Giovanni e da Cristina Barolo, in una famiglia di nobiltà decaduta, e rimasto orfano di padre nei primi mesi di vita, per il nuovo matrimonio della madre fu allevato dalla nonna Cristina Delbecchi e dagli zii paterni, fra questi soprattutto da Fedele Carutti, già ufficiale nell'esercito sabaudo, occupato ora a condurre la modesta azienda familiare dopo che era stato allontanato dal servizio militare e dagli uffici pubblici in seguito ai fatti del '21. Compiuti gli studi secondari prima nel collegio di Garzigliana e dal 1834 nel convitto di Pinerolo, il C. si trasferì a Torino nel 1838 per seguire i corsi universitari di diritto, studi che, anche quando si trasferì poi all'università di Pisa, non portò a termine. Del suo primo soggiorno torinese scriverà: "Quivi strinsi amicizia con alcuni compagni più innanzi di me negli anni e nei fidati colloqui con i nuovi amici intesi per la prima volta ragionare dell'Italia nuova e della libertà come di un esule di cui si aspettava il ritorno" (Infanzia e giovinezza..., p. 60). In questi anni si manifestava il suo interesse per la letteratura, e ciò, unendosi all'esigenza di un maggiore impegno civile, lo indusse a trasferirsi a Firenze, per molti aspetti allora centro della letteratura più aperta alle novità. Soggiornò a Firenze fra il '41 e il '43 avvicinando fra gli altri il Vieusseux, che non mancò di aiutarlo anche finanziariamente ("Sul finire adunque della seguente settimana sarò in istato finalmente di farle avere quella somma che ella ebbe la gentilezza di prestarmi": lettera a G. P. Vieusseux, da Cumiana, giugno 1843) e che gli rimase amico sempre, e il Niccolini, che gli fu consigliere nelle prove letterarie che da qualche anno stava affrontando. Da Firenze si spostò a Livorno per visitare il Guerrazzi e il Mayer, e a Pisa dove riprese a frequentare l'università. Era a Napoli all'epoca della spedizione dei fratelli Bandiera; là conobbe C. e A. Poerio, e fu assiduo del salotto della poetessa M. G. Guacci a cui dedicò una lirica. Sulla via del ritorno a Torino si fermò per un soggiorno di tre mesi a Roma.
Le esperienze culturali e letterarie di questi anni fino, al '47 sono raccolte nel volume Racconti di gioventù, Firenze 184 .. (ma 1847), ripubblicato nel '61 (Gioventù. Racconti, nuova edizione rivista e corretta dall'autore, Firenze). Esordisce col racconto Delfina Bolzi, datato 1840, e la coincidenza di data con Fede e bellezza del Tommaseo non è casuale: si tratta anche qui di una vicenda edificante, quella, sia pure con più modestia di stile, di una fanciulla che, portata sulla via dell'errore per mancanza di educazione e per le incomprensioni della società, giunge alla espiazione e alla morte. Massimo, datato al 1842, è un romanzo breve, autobiografico; accanto ai motivi moralistici prevalenti in Delfina si avvertono le influenze del romanzo psicologico di G. Sand; l'impegno letterario si rivela, sia nello sviluppo delle vicende del protagonista (uno sfortunato scrittore di teatro) sia nella polemica contro i classicisti ("pedanti gonfiagote") e contro T. Grossi e i suoi imitatori ("I fermagli d'oro, i cimieri, gli scudi, i brocchieri, la piuma svolazzante sul berretto feudale, il romito, il frate, erano il tema favorito d'allora": Gioventù. Racconti, p. 101). Richiamandosi lo scrittore all'esigenza di maggior realismo e di maggior aderenza non solamente al mondo psicologico dei protagonisti, ma anche al loro ambiente: Firenze e Torino, le due città in cui si svolge il romanzo, sono descritte, quali al C. apparivano, l'una vivace centro di cultura, l'altra città operosa in cui sono un neo le "varie caste torinesi distinte, marchiate, murate, come nei bei paesi dei bramini" (p. 150). Nell'Edoardo Altieri (1846) la tematica ideologica e politica emerge ormai in primo piano: il protagonista, dopo il fallimento del matrimonio, parte per l'America ad arruolarsi in "una legione di prodi che sulle sponde dell'Uruguay onora il valore italiano. Io mi arruolerò sotto la bandiera del valente loro condottiero" (p. 244). Significative sono anche, nella stessa raccolta, le Tradizioni popolari: viva è la polemica nei confronti del mito dell'età medievale in nome della giustizia sociale e della consapevolezza ed istruzione delle plebi (pp. 253 ss.), e sentito è anche il tema dell'indipendenza.
La nuova edizione del 1861 comprende anche le liriche dell'Addio (già pubblicate a Torino nel 1849, e ripubblicate più tardi con rimaneggiamenti e aggiunte di nuove composizioni nel 1872, nel 1885, nel 1891, e nel 1899), dove, espressi con stile ancora indeciso fra neoclassicismo e romanticismo, i motivi più ricchi di interesse sono l'indipendenza, la libertà, il riscatto civile e il richiamo alla dignità dell'arte, la vena amoroso-sentimentale, le ballate popolari. Non figura in questa raccolta la tragedia Velinda che, stampata nel'45, non venne mai rappresentata per intervento della censura che vi aveva scorto un troppo acceso spirito anti-austriaco; fu però complimentata da S. Pellico (Epistolario di S. Pellico, Torino 1919, p. 303) e comparve solo nell'edizione dei Versi del 1872.
Il ritorno a Torino coincise col suo ingresso in circoli politici veri e propri. Nel 1847 diveniva segretario dell'Associazione agraria, centro dei dibattiti più vivi del paese, dove si affiancò alle posizioni democratiche di L. Valerio; quando il 1° ottobre una dimostrazione in onore di Pio IX fu violentemente repressa dalla polizia, il C. figurò fta i diciassette firmatari della protesta a Carlo Alberto. Collaboratore della Concordia, diretta dal Valerio, partecipò come giornalista alle sedute che prepararono la richiesta ufficiale della costituzione, e nel settembre fu membro fra i più attivi della segreteria del comitato centrale della Società per la confederazione italiana, di ispirazione giobertiana, ma in cui figuravano liberali di ogni sfumatura, da M. d'Azeglio ad A. Brofferio, da C. Cavour a U. Rattazzi a T. Mamiani a G. Giusti (Discorsi detti nella pubblica tornata della Società nazionale per la confederazione italiana, a cura di D. Carutti, Torino 1848). Alla fine del '48 interruppe la collaborazione alla Concordia, e nel gennaio 1849 entrò quale applicato al ministero degli Affari Esteri, sostenuto dal Gioberti, da pochi giorni presidente del Consiglio dei ministri. Dopo Novara l'orientamento politico del C. divenne più vicino a quello governativo. Insieme con D. Berti diresse la mensile Rivista italiana, stampata dal Paravia a Torino, che si giovava della collaborazione di uomini di spicco per dottrina e cultura fra i militanti moderati, come C. Bon Compagni, P. S. Mancini, C. L. Farini.
Intento del periodico era di proporre un ripensamento delle recenti vicende dell'Italia e del Piemonte, e nello stesso tempo promuovere, con articoli di buon livello, un'opera culturale ma anche di propaganda filopiemontese. Particolarmente la collaborazione del C. fu rivolta a mettere in evidenza gli errori di valutazione dell'opposizione repubblicana, indicando come base sufficiente per le trattative di pace con l'Austria la libertà e l'indipendenza del Piemonte (Ilministero e l'opposizione, in Rivista italiana, 1849, t. 1, pp. 727-755). Tenne inoltre a sottolineare, dopo la firma del trattato, la necessità di tenere saldi "la libertà costituzionale, le condizioni morali del paese e i permanenti interessi dell'Europa" e, già compreso dell'ufficio in cui operava, ammoniva: "Il ministero degli affari esteri di Torino non dee rimanere straniero a quanto si agita intorno a lui" (Dopo la pace, ibid., 1849, t. 2, pp. 204-223). Non mancava poi, in recensioni di opere di storia diplomatica, di far trapelare l'interesse per questo tipo di ricerca, come più confacente a suggerire le vie che il paese doveva seguire per il successo (ibid., 1849, t. 1, pp. 425-427), mentre avvertiva che la libertà in Europa dipendeva dai due Stati costituzionali, la Francia e l'Inghilterra (ibid., 1850, t. 1, pp. 325-353). La Rivista italiana però dopo due anni sospese la pubblicazione, dando ragione al Vieusseux che, incaricato dal C. della diffusione in Toscana, pur accogliendo l'incarico faceva presente che "il pubblico da due anni a questa parte non è disposto a spendere che pei fogli volanti, ed ha perduto l'amore alla lettura dei libri, ed anche di articoli un poco lunghi che vogliono essere letti ponderatamente" (Firenze, Bibl. d. Gabinetto scient. lett. G. P. Vieusseux, Copialettere Vieusseux, n. 23, Vieusseux al C., 30 giugno 1849).
L'amicizia col Gioberti, trasferitosi a Parigi, continuò improntata a riverenza da parte del C. ed a cordialità affettuosa e stima da parte di quello, come attesta la corrispondenza (V. Gioberti, Epistolario, ediz. naz., a cura di G. Gentile-G. Balsamo Crivelli, Firenze 1937, X-XI, passim). È spesso pregato dal Gioberti di commissioni librarie, particolarmente conduce a suo nome la trattativa col Bocca per l'ediz. del Rinnovamento (Epistolario, X, pp. 236 ss.); da parte sua riferisce di certe delusioni e incertezze della carriera (ibid., p. 367), mentre concentra attività e impegno nell'elaborazione di un'opera di "filosofia sociale" per la quale riceve dal Gioberti incoraggiamenti e consigli, facendone tesoro.
Con il volume Dei Principi del governo libero. Saggi politici (Torino 1852 e Firenze 1861) il C. si inseriva nel dibattito di ampio respiro che democratici e liberali stavano conducendo attraverso memorie, opere storiche e saggi, sui principali problemi da impostare e risolvere per portare a buon fine l'impresa fallita nel '48. Le tesi del C. sono svolte con sistematicità, con la guida di autori europei da lui scelti fra i più autorevoli sostenitori di dottrine liberali e talvolta democratiche (A. de Tocqueville, A. Thiers, F. Alirens, H. P. Brougham, T. Macaulay); ma sono sia Gioberti sia Romagnosi che implicitamente o esplicitamente rimangono i più significativi punti di riferimento, il primo specialmente riguardo alle premesse filosofiche generali, il secondo per i ribaditi principi di diritto naturale nonché per l'indirizzo metodico dell'indagine volta al concreto. I problemi proposti sono quelli delle generazioni progressiste, piuttosto che quelli dei moderati più anziani (siamo lontani dalla cautela della Monarchia rappresentativa che C. Balbo elaborava in quegli anni), sempre tuttavia nell'ambito delle dottrine liberali.
Considerando la libertà come un assioma per gli ordinamenti politici, il C. procede nell'analisi dei momenti in cui essa ha da manifestarsi, tenendo saldo, contro ogni utilitarismo e democrazia di genere materialistico, il fine spirituale dell'uomo. Si affermano quindi l'eguaglianza di tutti i cittadini in nome della innata libertà morale, e al tempo stesso l'impossibilità di accettare l'eguaglianza materiale in nome dell'individualità. Tre sono i problemi che gli "stati cristiani" si trovano a dovere risolvere ora, "la nazionalità, la libertà, il pauperismo". E mentre per i primi due è possibile una soluzione immediata o a breve scadenza, per il terzo, pur riconoscendone l'impellenza, ritiene che ancora la ricerca non abbia proposto soluzioni accettabili. Nelle analisi che seguono le prime affermazioni di principio, si sofferma a difendere il diritto alla libertà di pensiero, di opinione, di religione, di stampa, della persona fisica, particolarmente a proposito dell'arresto preventivo. Riconosce l'inviolabilità della proprietà, ma ne sottolinea i confini in nome del diritto dell'assistenza pubblica, rivolta all'infanzia, agli infermi, agli anziani, ai disoccupati. L'istruzione, che è "alleata dei governi liberi", deve essere obbligatoria e gratuita per il ciclo elementare; l'esempio più illuminante lo offrono gli Stati Uniti d'America ("Gli Stati Uniti sono la terra più libera e fiorente del mondo, ed ivi l'istruzione è incomparabilmente più sparsa che in qualsivoglia altra regione": p. 96). Nella seconda parte dell'opera passa ad esaminare le garanzie di uno Stato alle libertà e ai diritti in precedenza considerati. Dopo aver distinto fra sovranità divina e sovranità politica, ritiene che quest'ultima possa essere conferita solo per investitura popolare. Scartati come ingiusti i governi aristocratici e quelli democratici, riconosce nel governo rappresentativo misto le garanzie di libertà secondo le esigenze già delineate. Mostra preferenza per lo Stato retto a monarchia, fatta salva la sovranità del popolo, ma non ritiene che sia da avversare la forma di governo repubblicano, sostenendo apertamente che i repubblicani non sono da scambiarsi con gli anarchici o con "approfittatori" e "tiranni" dello Stato; propone l'eleggibilità di tutti, ma da un elettorato che abbia certi requisiti d'età, di censo, e soprattutto d'istruzione. In conclusione dell'opera un capitolo è dedicato alla "introduzione del governo libero". Il C. raccomanda di "fabbricare cori la materia che si ha per le mani". (p. 233) e aggiunge: "Veramente avventurato è da chiamarsi quello Stato in cui la costituzione nasce dai bisogni sociali riconosciuti dal principe, pacificamente espressi dal popolo" (p. 235). Lo Stato nuovo e libero si raggiunge attraverso le riforme; anche per il C. l'esempio da seguire rimane l'Inghilterra.
Con la nuova maggioranza governativa poco per volta anche la carriera del C. nel ministero degli Affari Esteri trovò degli sbocchi: nel dicembre 1853 era nominato caposezione, e nel novembre del 1857 segretario del Consiglio del contenzioso diplomatico con funzioni di collegamento fra il ministero e il Consiglio stesso. Fu in tale qualità che ebbe modo di legarsi di profonda amicizia con F. Sclopis, presidente del contenzioso diplomatico. Il C. figura in questi anni fra i funzionari più preparati, e fa parte delle commissioni di esame per i concorsi nella carriera diplomatica, a cui nel '56 era stato dato un regolamento che teneva conto della formazione di una "classe diplomatica colta e raffinata" (Moscati, Indici..., p. 28) che potesse pareggiare quella europea. Il 1° febbraio del 1858 venne inviato a Londra per aiutare l'ambasciatore sardo E. Alfieri nella trattativa del "Cagliari" col governo inglese. Il Cavour, con un giudizio che rimane più o meno immutato presso i contemporanei, anche se talvolta vi fu aggiunta una punta di ironica malevolenza, per un certo sussiego formale sempre ostentato dal C., così lo presenta all'ambasciatore: "homme très instruit, calme, réservé, il doit être du goût des Anglais" (Cavour e l'Inghilterra. Carteggio con V. E. D'Azeglio, a cura della Commissione reale editrice, Bologna 1933, II, 1, p. 183). Nel giugno '59 fu nominato capodivisione su consiglio di C. Nigra, e entrò nella segreteria particolare del ministro Minghetti per far parte, insieme con R. Susinno, I. Artom, T. Veillet, della commissione che si occupava delle province conquistate e protette; fu il C. l'estensore del memorandum preparato dal ministero per le potenze estere. Il 15 ott. 1859 il Dabormida lo nominò segretario generale del ministero degli Affari Esteri, e in tale carica - che ricoprì per primo - rimase anche durante i successivi ministeri del Cavour, che non volle accettare le sue dimissioni: "Io so anche che talvolta ho bisogno di qualcheduno che mi tiri per le falde dell'abito" (G. Massari, Il conte Cavour. Ricordi biografici, Torino 1873, p. 355). Fedele anche a B. Ricasoli, con l'avvento del ministero Rattazzi, incapace probabilmente di seguire una politica estera che alla sua cautela appariva avventurosa, il 2 marzo 1862 preferì lasciare il ministero per l'incarico di ministro plenipotenziario all'Aia.
L'attività politica del C. non consistette solo in quegli aspetti legati alla sua qualità di pubblico funzionario; fu eletto deputato per la VII legislatura (1860) del collegio di Avigliana e Giaveno, poi per l'VIII del collegio d'Aosta, schierandosi con la Destra, e allineandosi per lo più al governo. Per le sue esperienze di politica estera fece parte della commissione incaricata di trattare la spinosa questione della cessione di Nizza e della Savoia, e sia pure a malincuore ne accettò la separazione (discorso alla Camera del 25 maggio 1860). Anche sulla questione romana non mancò di prendere la parola e, coerentemente con quanto aveva sostenuto nei Principi del governo libero, considerò insostenibili i diritti temporali dei pontefici, pur dichirandosi "cattolico convinto e professante".
L'accresciuta notorietà di questi anni non gli venne soltanto dall'intensa attività politica e amministrativa, ma anche dalla pubblicazione di due opere storiche, la Storia del regno di Vittorio Amedeo II (Torino 1856) e la Storia del regno di Carlo Emanuele III (Torino 1859) che, specialmente la prima, ebbero successo ampio di pubblico e di critica.
Gli interessi storici del C., già venuti in luce negli anni precedenti, erano maturati fino a portarlo a un piano di sistematiche ricerche originali che gli furono facilitate dalla qualità di funzionario degli Esteri. "Cominciai poco dopo a studiare negli Archivi, detti allora di corte, e proseguii per dodici anni le ricerche avendo... facoltà di ricevere le filze dei negoziati e dei carteggi...; non minore larghezza trovai nella biblioteca del Re, tanto ricca di documenti preziosi" (St. d. diplomazia…, II, p. 553). Stimolante deve essere stato anche il contatto con i soci dell'Accademia delle scienze di Torino, fra i quali entrò nel 1853. Fra questi C. Balbo era il maestro suscitatore di problemi storici e storiografici, ed E. Ricotti ne veniva riconosciuto come il più vicino continuatore; ma anche gli specifici studi di F. Sclopis sulla storia della legislazione in Italia e sulla diplomazia sabauda dovettero contribuire all'impostazione e ai temi dati dal C. alle sue opere storiche. Particolarmente per i primi lavori, sia pure più lontano nel tempo era il riferimento al Denina della Storia dell'Italia occidentale, talvolta confutato in relazione a singoli episodi (per esempio, al fallimento del matrimonio portoghese di Vittorio Amedeo II), tenuto però presente e citato spesso non solo come fonte, ma per gli interessi europei anche da lui attribuiti alla politica del primo re di Sardegna. A questo sovrano, che la tradizione aveva tenuto a consacrare per le attività militari, il C. attribuisce meriti per l'opera di organizzazione dello Stato, per la politica giurisdizionalistica, per l'accorta diplomazia, per l'inserimento del regno sardo nei rapporti di forza degli Stati europei. Un giudizio critico su questi due lavori del C. non può ignorare che si tratta di opere di affiancamento e stimolo della politica piemontese di quegli anni, finanche nella ricerca della giusta strada nei rapporti con la Chiesa e nell'indicazione di una fedele alleata tradizionale nell'Inghilterra (F. Gabotto, In memoria di D.C., in Boll. stor.-bibl. subalpino, XV [1910], p. 10), ma accanto all'impegno civile va ricordato lo scrupolo delle indagini e il vaglio delle fonti. Dopo il Botta, il Sismondi, il Tosti e il Balbo vennero "altre storie più severe e più calme, indagatrici scrupolose del vero senza rinunziare al fine ultimo di ammaestramento ed ammonimento civile: eccellono fra queste le opere di Ercole Ricotti e D.C." (Ibidem, p. 8). Il fatto che il C. abbia preferito utilizzare le fonti narrative, manoscritte o a stampa, e che per i documenti si sia limitato ai carteggi privati o diplomatici, nulla toglie ai propositi rigorosi di opere ancor oggi utili per la meticolosità della descrizione: si vedano ad esempio le pagine dedicate alle finanze dello Stato, alla legislazione civile, alla struttura amministrativa, alle classi sociali. Il tono epico di alcune pagine, come quelle sulla pace di Utrecht che consacra la grandezza dei Savoia (pp. 384 ss.) o l'elogio della prudenza diplomatica di Vittorio Amedeo II (p. 105), scritte nell'intenzione di difendere il sovrano dalle accuse di tradimento e di leggerezza politica, e per metterne invece in luce la coerenza dei fini politici, non cadono mai nell'enfasi celebrativa e nella piaggeria. La Storia del regno di Carlo Emanuele III, che ebbe minor successo presso i contemporanei, e rimase pubblicata nella unica edizione del '59 (della Storia del regno di Vittorio Amedeo II siebbe una seconda edizione nel '63 ed una terza con correzioni ed aggiunte nel '97), appare agli occhi del lettore moderno di particolare interesse là dove si sofferma sulla storia delle riforme e sulla storia amministrativa del regno; e fino ad ora non è stata sostituita per la storia della Sardegna in quegli anni. Ricca di notizie è pure la ricostruzione del governo sardo a Milano, anche se ne risulta chiaro l'intento didascalico. Non si ritrae dall'affrontare lo scottante episodio dell'arresto e della prigionia di P. Giannone, riuscendo a darne una equilibrata interpretazione, dopo aver vagliato documenti di prima mano, fra i quali l'allora inedita Autobiografia. Non manca infine anche per Carlo Emanuele III un'interpretazione emblematica: come Vittorio Amedeo II era stato il restauratore dello Stato, il suo successore è il restauratore dell'equilibrio italiano contro le invadenze austriache.
Durante il soggiorno all'Aia, lurneggiato da un suggestivo carteggio con F. Sclopis, il C. trovò modo di continuare a dedicarsi agli studi e alle letture; scambia opuscoli e libri con lo Sclopis, stringe rapporti con i soci dell'Accademia delle scienze di Amsterdam, alternando agli studi di storia l'interesse della poesia latina come compositore e come filologo (Sexti Aureli Propertii Cynthia..., Hagae Comitum 1869; Sulpiciae Caleni Satira, in Memorie dell'Acc. delle scienze di Torino, s. 2, XXVIII [1866], 2, pp. 1-24). Un buon giudizio ne dava il Tommaseo, ponendolo fra quei "non molti che sappiano ormai di latino" (Firenze, Biblioteca nazionale, Carteggi Tommaseo, Coll. Autografi 65, 27). Di quegli stessi anni è anche una sua breve raccolta di versi Elegiaci, in gran parte dedicati al ricordo della moglie Sofia Cristina di Carlo Carutti. sposata nel 1853 e morta nel 1866, lasciandolo con tre figli.
Buona parte del carteggio con lo Sclopis è dedicato a considerazioni sulla politica italiana. Con particolare trepidazione e sfiducia segue la convenzione di settembre ("Ora tutto è consumato, e Dio protegga il nostro paese che dopo il trasferimento mi rende immagine di quella "Nave senza nocchiero in gran tempesta", di cui parla il poeta": L'Aia, 28 dic. 1864), e il successivo sviluppo della questione romana, per la cui soluzione preferirebbe non ricorrere alla forza. ("Le cose d'Italia mi tengono nella massima agitazione. Temo assai più che non speri. Non so fare pronostici, non veggo chiara una soluzione terminativa, e al punto in cui siamo giunti è pure necessaria tale soluzione": L'Aia, 18 ott. 1867). All'indomani di Mentana, lamenta: "Domando a me stesso se sia ancora possibile il governare nello stato attuale l'Italia. Altri di me più acuto domanderà se vi sono uomini capaci di governare" (L'Aia, 29 nov. 1867).
Nel '69 il C. ritornò definitivamente in Italia; preoccupato di dare stabilità alla propria famiglia, sposava Clotilde Accusani nell'ottobre, e rinunciava alla carriera diplomatica per entrare nel Consiglio di Stato, dove rimarrà fino al '91, quando fu collocato a riposo col titolo di presidente onorario di sezione. Eletto deputato per la XI e XII legislatura del collegio di Verrès, alla caduta della Destra storica nel '76 rinunciò al mandato. Alla Camera si era sempre pronunciato per un equilibrato conservatorismo, e per posizioni di cautela in fatto di politica ecclesiastica, preoccupato di salvaguardare la libertà delle coscienze religiose. Fedele ai principi dell'Unità e della monarchia, non poteva fare a meno come cattolico di auspicare "la conciliazione fra il pontificato e l'Italia nuova" (Il pericolo della situazione..., Pinerolo 1871, passim; Sopra il disegno di legge per la soppressione delle corporazioni religiose..., Roma 1873, passim). Appunto per questa sua ricerca di dialogo e incontro tra Stato e Chiesa il C. darà la sua collaborazione alla Rassegna nazionale, fondata a Firenze nel '79, i cui promotori si professavano "cattolici ed italiani", impegnati a "conservare le istituzioni religiose morali sociali civili e politiche d'Italia" (A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1948, p. 402). È comprensibile quindi la diffidenza verso il nuovo ministero, e il ritiro dalla politica (C. a F. Sclopis, 21 apr. 1876). La nomina infatti a senatore nel gennaio dell'89 non lo distoglierà dallo studio in cui era ormai assorbito.
Socio dal 1856 della Deputazione di storia patria di Torino (ne sarà eletto presidente nel 1884, mantenendo la carica fino alla morte), nel '75 fu chiamato a far parte della ricostituita Accademia dei Lincei e, nominato cancelliere, si appassionò alla storia dell'istituto; frutto delle ricerche su materiali inediti fu la Breve storia dell'Accademia dei Lincei (Roma 1883), di cui vanno ricordate le appendici bibliografiche e statutarie, mentre è parziale l'utilizzazione della corrispondenza del principe F. Cesi, probabilmente per difficoltà paleografiche. Nel 1879 ricevette il titolo baronale e il delicato incarico di dirigere la Biblioteca reale di Torino. Tornò così definitivamente a Torino, dopo essere risieduto per gli impegni politici e amministrativi prima a Firenze (1869-72) e poi a Roma. Cumiana invece era rimasta sempre la sua residenza estiva.
Le numerose pubblicazioni di questi anni testimoniano l'intensa attività storica ed erudita del C., attivo collaboratore dell'Archivio storico italiano, della Rivista universale, degli Atti dell'Accademia delle scienze di Torino, della Nuova Antologia, delle Curiosità e ricerche di storiasubalpina, della Rassegna nazionale, del Bollettino storico-bibliografico subalpino e della collezione della Miscellanea di storia patria della Deputazione di Torino, nonché della raccolta della "Biblioteca della Società storica subalpina" fondata e diretta da F. Gabotto.
La Storia della diplomazia della corte di Savoia (I-III, Torino 1875-79) è un completamento del quadro di storia sabauda che aveva già in parte tracciato con i due studi su Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III, ora riproposto per un periodo più ampio e ristudiato servendosi di nuovi spogli e di vari studi sabaudisti pubblicati quasi tutti dopo le sue due prime monografie; ringrazia infatti per i loro favori L. Cibrario, F. Sclopis, A. Peyron, E. Ricotti, N. Bianchi, G. Claretta (I, p. V). Pur improntata ad un intento apologetico (la strada percorsa dai Savoia per raggiungere il fine ultimo dell'"unità del Regno"), è costruita con scrupolo di documentazione, tanto più ricca quanto più procede; è presente la necessità di non affogare la narrazione con un eccesso di erudizione, inutile quando i fatti non siano "dubbi o controversi" (II, p. 555).
La Storia, che nel progetto del C. avrebbe dovuto giungere appunto all'Unità, non si spinge oltre il 1730, ed è preceduta da un excursus dalla caduta dell'Impero romano al 1494, come era nei correnti schemi storiografici, non mancante di note interessanti, come i giudizi sui papi del Quattrocento e dell'età di Lutero ("vollero regnare assoluti nella società religiosa, snaturando la bilanciata costituzione cattolica": I, p. 102), che suona severamente anche per Pio IX e la sua politica. Con Emanuele Filiberto comincia una nuova età per il Piemonte restaurato nel territorio e nelle strutture, mentre con Carlo Emanuele I la diplomazia persegue "concetti europei, unica via per liberare l'Italia dal servaggio spagnolo, per salvare almanco il Piemonte da questo e dal francese" (II, p. 26). Il terzo volume si apre con un quadro luminoso delle colonie inglesi d'America a contrastare le "acerbità dell'Inquisizione" e gli effetti che esse produssero in Italia (pp. 17 s.). Non si astiene dal far notare le debolezze, rispetto agli ideali di libertà, dei principi di Savoia: indicative sono ad esempio le pagine sulle persecuzioni dei valdesi sotto Emanuele Filiberto e Vittorio Amedeo II (I, p. 324; III, p. 138) e quelle della congiura di Vachero e Raffaele per impadronirsi di Genova e Savona (III, p. 53). Conclude l'opera la storia diplomatica del regno di Vittorio Amedeo II, già trattata nella monografia del re, ma qui rettificata per la nuova documentazione, e la ricchezza espositiva è tale da togliere spesso sintesi al quadro. Ècomunque un'opera basilare utilizzata ampiamente dalle monografle successive sul periodo, segnatamente da R. Quazza e F. Cognasso.
Una parte cospicua del materiale non utilizzato venne dal C. impiegata per La storia della corte di Savoia, durante la Rivoluzione e l'Impero francese (I-II, Roma 1892) che affronta, con la consueta erudizione, un periodo critico per il regno sardo. Spazio maggiore rispetto alle precedenti opere è dato agli avvenimenti interni e alle questioni sociali. Significativa soprattutto è l'ampiezza riservata ai movimenti giacobini in Piemonte, contro i quali, pur non tacendo talvolta la polemica, non pronuncia giudizi severi quanto quelli pronunciati contro Vittorio Amedeo III o Carlo Emanuele IV (p. 350) considerandone anzi gli intenti patriottici (II, libro V, cap. I). Assunto della ricerca vuole essere la dimostrazione che l'opera delle riforme, se iniziata prima dell'89, avrebbe potuto permettere il raggiungimento delle stesse conquiste civili portate fuori dai confini della Francia dalla Rivoluzione, senza i "dilaniamenti territoriali seguiti dal 1796 al 1815" (II, p. 343). La monarchia restaurata penò fino ai primi anni del regno di Carlo Alberto a ritrovare una strada che potesse ridare crescita al paese, poggiando su un "corpo sociale" rimasto per "somma ventura incorrotto" (II, pp. 344-353).
Meritano di essere ricordati, per l'eco avuto e per le novità apportate agli studi sull'argomento, i lavori sulle origini di casa Savoia, su Umberto Biancamano, su Arduino e sulla contessa Adelaide, rielaborati nel volume Il conte Umberto I e il re Ardoino, ricerche e documenti del barone D.C. nuovamente riveduti dall'autore, Roma 1888. Vi si confutano le tesi precedenti, giudicate dal C. soltanto politiche, sia che derivassero le origini di casa Savoia dagli imperatori sassoni, sia che le derivassero dai re italici, come G. Napione e, più ampiamente, L. Cibrario. La tesi del C., esposta con critiche cautele, distinguendo fra "quel che riesce certo o quello che... sembra probabile", propone Umberto I Biancamano come discendente dei signori della Borgogna romanizzata. Queste ipotesi ne svilupparono altre (B. Baudi di Vesine e F. Gabotto) o furono confutate apertamente, specie da parte francese, senza che alla questione si trovasse risposta soddisfacente per la tenuità della documentazione. Ancora relativa alla storia di casa Savoia va ricordata la pubblicazione dei Regesta comitum Sabaudiae ab ultima stirpis origine ad annum MCCLIII (Torino 1889), seguita dal Supplemento (Torino 1902). Segnalabile infine per sistematicità e completezza è la Bibliografia Carloalbertina. Per il cinquantesimo anniversario della morte del re magnanimo (Torino 1899, a cura della R. Deputazione di storia patria), divisa in otto sezioni per un insieme di più di mille numeri; in particolare si ricordano la quinta sezione che elenca le testate dei giornali che furono pubblicati durante il regno di Carlo Alberto, e l'ottava (Scritti vari e carteggio di Carlo Alberto)in cui sono enumerati anche le opere e i carteggi inediti del re che il C., quale direttore della Biblioteca reale, ebbe sotto mano.
Il C. morì a Cumiana il 4 ag. 1909.
Fonti e Bibl.: Le Carte Carutti sono presso il Museo stor. del Risorgimento di Torino, cass. 10, 59-66; il carteggio con Gioberti è nella Bibl. civica di Torino per la cui catalogazione cfr. G. Balsamo Crivelli, Le carte giobertiane della Biblioteca civica di Torino, Torino 1928, passim; le lettere a F. Sclopis sono presso l'Accademia delle scienze di Torino, fondo F. Sclopis, carteggio nn. 25427-67, 29787 s.; altre lettere non numerate sono fra i mss. 1860-61 e 1865-78. Presso la Biblioteca nazionale di Firenze si conservano lettere del C. a corrispondenti fiorentini nella Coll. Autogr., Carteggi Vieusseux, 19,19 e 19,20; De Gubernatis, 25,12; G. Capponi, III, 85; Vannucci, 3, 103; Tommaseo, 65,26 e 65,27; Lemonnier, 24,31; U. Peruzzi, XII, 42bis; Tordi, 542-49; Rossi Cossigoli, 6, VI; Carteggi vari, 65,33 e 128,55. L'elenco più completo delle opere a stampa lasciate dal C. è in A. Manno, L'opera cinquantenaria della R. Deputazione di storia patria di Torino, Torino 1884, pp. 221-224, ed esso è completato da E. Dervieux, L'opera cinquantenaria..., Torino 1935, pp. 156 ss., che indica anche le edizioni definitive curate dal C., da dove sono state tratte qui le citazioni. Una ristampa più recente dei Principî del governo libero (Milano 1946) è presentata da C. Cordiè. Per la biografia si vedano: G. Pitrè, Profili biogr. di contemporanei, Palermo 1864, pp. 41-45; A. De Gubernatis, Diz. biogr. degli scrittori contemporanei, Firenze 1878, pp. 261-262; Infanzia e giovinezza di illustri italiani contemporanei, a cura di O. Roux, Firenze 1909, I, 1, pp. 49, 61; F. Gabotto, In memoria di D. C., in Boll. stor-bibl. subalp., XV (1910), pp. 1-13; L. Laderchi, Sulla vita e sulle opere di D. C., in Rivista d'Italia, XIII (1910), pp. 625-646; D. C. 1821-1909. Memorie, a cura di P. De Donato-Giannini, Napoli 1910;A. Segre, D. C. di C., in Misc. di st. italiana, s. 3, XVI (1913), pp. 249-256; F. Petruccelli della Gattina, I moribondi di Palazzo Carignano, Milano 1916, pp. 222 ss. Per l'attiv. di letter. si v.: E. Benedetto, Ilvero autore dell'inno "Gli Apostoli" attribuito a G. Mameli, in Civiltà moderna, XI (1939), pp. 63-70. Per l'attività al ministero degli Affari Esteri si vedano F. Sclopis di Salerano, Diario segreto (1859-1875), a cura di P. Pirri, Torino 1959, passim;Min. degli Affari esteri, Indici dell'Arch. storico, I, Le scritt. della Segret. di Stato degli affari esteri del Regno di Sardegna, a cura di R. Moscati, Roma 1947, ad Ind.;R. Moscati, Il ministero degli Affari Esteri, 1861-1870, Milano 1961, passim. Considerazioni sulle opere stor. del C. sono contenute, oltre che in recensioni nelle principali riviste del tempo, in F. Cognasso, U. Biancamano, Torino 1929, pp. 34 ss.; G. Gabrieli, Gli storiografi della prima Accademia lincea, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filol., s. 6, V (1929), pp. 83 s.; La vita letteraria in Piemonte e in Lombardia nel decennio 1850-1859. Carteggio inedito Tenca-Camerini, a cura di I. De Luca, Milano-Napoli 1973, ad Ind.