caso
Concetto che si contrappone a quello di necessità (➔), come evento che si produce al di fuori e indipendentemente dalla serie determinata delle cause e degli effetti, e come rivendicazione dell’astratta libertà di fronte al sistema dell’astratta necessità. Nella storia della filosofia tale concetto ha assunto diversi significati a seconda che sia stato inteso in senso soggettivistico (come incapacità dell’uomo di conoscere le cause di un evento, per cui il c. si riduce a un’apparenza derivante da una mera ignoranza della causa) o in senso oggettivistico (come evento che non ha nessuna causa oggettiva, oppure è prodotto dell’intersecarsi di serie causali diverse e indipendenti).
Per gli stoici, assertori di un Universo perfettamente determinato in cui tutto accade per un’assoluta necessità razionale, così come per i filosofi cristiani convinti dell’esistenza di un Dio provvidente, si dà c. solamente per l’incapacità della ragione umana di trovare le cause di un fenomeno. Analoga concezione ritorna in Spinoza, che vede tutta la realtà come frutto di una serrata concatenazione di cause: il c. è il risultato di una carenza della nostra conoscenza, che non ha saputo o potuto prevedere un dato risultato a partire da una determinata situazione. Ugualmente, Leibniz, distinguendo fra contingenza del sapere umano e necessità di quello divino, fa del c. un’espressione della prima e imperfetta forma di conoscenza. Hume nega il principio di causalità, e dunque anche il c.: la relazione causa-effetto è il prodotto dell’abitudine maturata in seguito alla ripetuta osservazione di una certa successione tra i fenomeni, quando in tale successione le esperienze positive sono numericamente uguali o inferiori a quelle negative, allora si parla di c.; esso, dunque, consiste nell’equipollenza delle probabilità che non permette previsioni. Kant, che fa riferimento per le categorie e per i principi a priori alla fisica di Newton, basata proprio sul principio di causalità, è portato a negare l’esistenza del c.: «La proposizione ‘nulla avviene per un cieco c. (in mundo non datur casus)’ è una legge a priori della natura» (Critica della ragion pura, Analitica dei principi, Confutazione dell’idealismo). In età moderna, Bergson attribuisce il c. a un’illusione puramente soggettiva determinata dalla sorpresa di rinvenire un ordine meccanico nel quale ci si attendeva piuttosto un ordine finalistico o spirituale (le cause meccaniche che arrestano la ruota della roulette sul numero che mi fa vincere, invece del genio benefico che mi aiuta, secondo l’esempio dell’Evoluzione creatrice).
Aristotele, che propone una concezione finalistica della realtà, integra tale dottrina con la teoria del c. (Fisica, II, 4-6, 195 b 31 e segg.): egli ritiene frutto del c. gli effetti di un’azione che non erano né previsti (o probabili) né necessari per il compimento del fine dell’azione stessa. Aristotele fa riferimento al c. nelle distinte determinazioni del συµβεβηκός (l’attributo non essenziale ma accidentale), della τύχη (il c. dal punto di vista dell’azione umanȧ, cioè la fortuna intesa come evento non deliberato in vista di un fine, bensì effetto accidentale di cause che agivano in vista di altri fini) e dell’αὐτόµατον (c. in senso proprio, come avvenimento oggettivo indipendente da una causa). Ma è soprattutto con Epicuro che, nell’ambito di una concezione atomistica della realtà, prevale il senso oggettivistico di c.; egli attenua il rigido determinismo democriteo: il c. è il prodotto della spontaneità imprevedibile degli atomi che deviano accidentalmente dal loro percorso (clinamen o «deviazione degli atomi»). In epoca moderna la teoria del c. come intersezione di serie causali indipendenti è stata sostenuta da Cournot (Exposition de la théorie des chances et des probabilités, 1843) e accolta e sviluppata da pensatori positivisti come John Stuart Mill e Ardigò. L’assunzione di una radicale casualità è poi alla base della metafisica di Peirce (L’ordine della natura, 1878), il quale pone il c. come un carattere stabile dell’Universo che ne spiega la varietà e diversità. Al fondamentale uso della nozione di c. fatto dall’evoluzionismo darwiniano si riallaccia il biologo e filosofo Monod (Il caso e la necessità, 1971) che concepisce gli esseri viventi come definiti dalle tre proprietà della teleonomia (l’essere dotato di un progetto), morfogenesi autonoma (la capacità di autostrutturarsi) e invarianza riproduttiva (il potere di trasmettere l’informazione corrispondente alla propria struttura): la mutazione che dà origine all’evoluzione di una specie è un fatto del tutto accidentale, ma poiché gli esseri viventi sono caratterizzati da teleonomia e invarianza, una volta che tale mutazione viene inscritta nel codice genetico, i casuali errori replicativi vengono conservati e trasmessi dal meccanismo dell’invarianza guidato dalla più ferrea necessità (il meccanismo della selezione). Il principio di indeterminazione di Heisenberg e gli sviluppi della meccanica quantistica, infine, hanno posto il problema dell’esistenza di eventi intrinsecamente casuali a livello delle particelle subatomiche.