caso
Il caso è una categoria linguistica che svolge essenzialmente due funzioni, una in prevalenza sintattica e l’altra in prevalenza semantica. Sul piano sintattico, segnala la funzione che un nome svolge in una frase o un sintagma. Sul piano semantico, indica il ruolo che il referente del nome ha nella situazione descritta da una frase o da un sintagma. Siccome il caso viene segnalato tipicamente da appositi morfi nella flessione nominale (➔ flessione), esso può essere considerato anche come una categoria morfologica (cfr. Blake 2001: 1-6).
La funzione sintattica può essere esemplificata confrontando una frase italiana con la sua traduzione latina:
(1) Marci pater filium suum toto corde diligit
(2) il padre di Marco ama suo figlio con tutto il cuore
Le funzioni di ➔ soggetto e ➔ oggetto (➔ morfologia), in italiano segnalate dalla posizione dei costituenti rispetto al verbo, per lo più rispettivamente a sinistra (il padre: funzione soggetto) e a destra (suo figlio: funzione oggetto), in latino sono manifestate invece dalla forma morfologica di pater (caso nominativo, funzione soggetto) e di filium e suum (che terminano in -m: caso accusativo, funzione oggetto). Il modificatore del nome e quello del verbo sono indicati in italiano da un sintagma preposizionale (di Marco, con tutto il cuore), in latino ancora da nomi flessi (Marc-ī, caso genitivo; tot-ō cord-e, caso ablativo). Dal punto di vista del significato grammaticale, il fatto di trovarsi al nominativo in una frase transitiva dà al referente di pater ruolo di agente e, rispettivamente, l’accusativo dà al referente di filium ruolo di paziente.
Lo studio dei casi s’è sviluppato nella storia a partire dalle lingue classiche, latino, greco e sanscrito, che hanno casi morfologici, cioè affissi flessivi che segnalano i diversi casi sulle parti nominali del discorso: nomi, aggettivi, pronomi e articoli. In questo senso, costituiscono un sistema di casi le desinenze nominali del latino, del greco antico o del tedesco: i concetti figlio (in funzione di soggetto), di-figlio (in funzione di complemento di specificazione) e figlio (in funzione di complemento oggetto) sono espressi in latino rispettivamente da filius, filii, filium, in greco antico da huiós, huiôu, huión, in tedesco da Sohn, Sohnes, Sohn. Le lingue che usano sistemi morfologici siffatti si chiamano lingue a casi.
L’inventario dei valori di caso è variabile da una lingua all’altra: vi sono lingue con sistemi molto semplici, come quelli a due casi dell’antico francese o ‒ limitatamente al sistema dei pronomi ‒ dell’italiano, e lingue con sistemi di grande complessità, che hanno decine di distinzioni: tali sono le lingue caucasiche come il tabassarano o il lak, parlate soprattutto in Russia, alle quali alcune descrizioni assegnano rispettivamente 52 e 48 casi diversi.
I valori dei casi non sono universali, bensì specifici delle singole lingue: non è detto che un caso in una data lingua copra esattamente le stesse funzioni che il suo omologo copre in un’altra. Ad es., il genitivo del greco antico (3) e quello del latino (4) condividono la funzione di indicare il modificatore del nome (i denti del lupo), ma non quella di indicare il modificatore del verbo (morivano di fame), che il greco segnala col genitivo preposizionale (5), il latino con l’ablativo (6):
(3) hoi odóntes toû lúkou (genitivo)
(4) lupī dentes (genitivo)
(5) apéthnēiskon hupò toû limoû (preposizione + genitivo)
(6) moriebantur fame (ablativo).
Le descrizioni di lingue diverse condividono in effetti molti nomi di caso, come fanno ad esempio il genetiuus latino e la genikḗ ptôsis greca, ma ciò non dipende da identità funzionali bensì da un processo di diffusione culturale: dall’antichità al medioevo e oltre, le descrizioni grammaticali hanno seguito la terminologia greco-latina, partendo da termini e concetti noti e applicandoli meglio che si poteva alle nuove lingue descritte.
In italiano il caso morfologico, inteso in senso stretto, non esiste (➔ morfologia): non vi sono nomi che abbiano forme diverse a seconda della funzione sintattica che devono esprimere. Esistono però forme che si distinguono in base alla funzione sintattica nei sistemi dei pronomi personali e dei pronomi relativi. Come si vede in (7), i pronomi personali hanno forme distinte, al singolare, a seconda della funzione sintattica, opponendo un caso soggetto (detto anche, in omaggio alla tradizione, nominativo) a uno non soggetto (detto anche obliquo).
(7) persona 1ª sing. 2ª sing. 3ª sing.
soggetto io tu egli/ella
obliquo me te lui/lei
La segnalazione dei casi sui pronomi e non sui nomi, e comunque solo in alcune parti variabili del discorso, è tutt’altro che rara nelle lingue del mondo. In inglese, ad es., la situazione è simile a quella dell’italiano, con alcune differenze rispetto alle persone grammaticali interessate:
(8) persona 1ª plur. 3ª plur. 1ª plur. 3ª plur.
soggetto I he/she we they
obliquo me him/her us them
Una pertinenza della funzione sintattica (e quindi, in senso lato, del caso) si riscontra anche nelle forme atone (➔ clitici) dei pronomi personali. Tali forme esistono in italiano solo per gli obliqui, non per il nominativo: mi ti gli lo le la ci vi loro le si non sono mai usate in funzione di soggetto. Inoltre, i pronomi clitici di terza persona, singolare e plurale, suddistinguono tra gli obliqui forme di complemento oggetto diretto (es. in 9) e forme di complemento oggetto indiretto (es. in 10), secondo lo schema descritto in (11):
(9) prendo
(a) il caffè (a) lo prendo
(b) la tisana (b) la prendo
(c) le noci (c) le prendo
(d) i pistacchi (d) li prendo
(10) prendo il caffè
(a) a mio padre (b) a mia madre (c) ai miei genitori
(a) gli prendo (b) le prendo (c) gli prendo, prendo loro
(11) persona 3ª sing. 3ª plur.
oggetto lo, la li, le
indiretto gli, le gli/loro
Infine, anche il paradigma dei pronomi relativi (➔ relativi, pronomi; ➔ relative, frasi) manifesta in vari punti tracce residue di un sistema casuale:
(12) soggetto che, il/la quale, i/le quali
oggetto che
indiretto cui (con o senza preposizione).
Questa costellazione di opposizioni casuali in italiano è però in evidente difficoltà: le forme oblique tendono a diventare forme ‘non marcate’, ricoprendo anche la funzione di soggetto.
Questa è non più una tendenza ma un fatto consolidato per i pronomi di terza persona, dove i nominativi egli ed ella sono ormai ristretti sotto tutti i punti di vista: per il tipo di riferimento (egli / ella sono solo anaforici, si usano cioè solo in riferimento a una persona già nominata nel contesto precedente, mentre lui / lei sono sia anaforici sia deittici, possono cioè riferirsi anche a persone non ancora nominate), per il livello d’uso (egli ed ella sono ristretti all’uso formale), per il canale di comunicazione (egli ed ella sono usati preferibilmente per iscritto).
L’estensione dell’obliquo è la norma in alcuni tipi di frase, come nelle comparative introdotte da come e quanto (fa’ come me/lui/lei, non mangio come te), nelle esclamative (beato te!, povera lei!), nelle frasi in cui il pronome ha funzione predicativa (tu non sei me; è stato lui), nei participi assoluti, in particolare quelli coi verbi comprendere ed escludere (hanno parlato tutti, te / lui / lei compreso / compresa).
Nell’italiano contemporaneo, la terza persona te si usa normalmente come soggetto, accanto o al posto di tu, almeno in alcune importanti varietà regionali di italiano (come la settentrionale e la romana: cfr. es. 13-15; ➔ Roma, italiano di; ➔ laziali, dialetti):
(13) adesso arrivi te e pretendi di insegnarmi a lavorare?
(14) per il resto vedi te
(15) quanto mi dici te
È stato notato che quest’espansione si verifica più facilmente se il pronome è in posizione post-verbale (tipica del complemento oggetto): l’osservazione sembrerebbe confermare un incipiente indebolimento della distinzione tra forme soggetto e forme oblique. Per i relativi, tale indebolimento si manifesta nell’espansione del cosiddetto ➔ che polivalente, che appare in frasi come (16-18) e che mostra una spiccata tendenza del pronome stesso a ridursi a pura congiunzione, almeno in enunciati in cui la recuperabilità dei riferimenti sintattici è garantita dal contesto:
(16) il ragazzo che [«del quale»] ti ho parlato
(17) la macchina che ci [«con la quale/con cui»] siamo andati in vacanza
(18) la ragazza che gli [«alla quale»] ho dato 30
L’estensione del caso obliquo alle funzioni del nominativo è una tendenza di lunghissima durata, che risale a ben prima della transizione dal latino alle lingue romanze (➔ latino e italiano). Per il suo consolidarsi, la maggior parte dei nomi del lessico italiano derivano dalla forma dell’accusativo e non da quella del nominativo latino. Ciò però si vede con chiarezza solo in alcune classi nominali, in particolare quelle ove la differenza tra nominativo e accusativo non dipendeva solo dalla vocale dell’ultima sillaba ma interessava in maniera più sensibile la struttura della parola: fiore, monte o salute non possono derivare che dai rispettivi accusativi latini flōrem, montem, salūtem, perché i nominativi flōs, mōns, salūs si sarebbero sviluppati foneticamente in italiano negli impossibili *fiò, *mòn, *sàlu.
Le eccezioni a questa norma non sono numerose. Talvolta i resti delle desinenze casuali latine diverse dall’accusativo si riconoscono in maniera sistematica nella morfologia: è il caso della desinenza -i del plurale dei nomi maschili in -o, che deriva con certezza dal nominativo latino (it. lupi < lat. lupi). Questi resti si ritrovano poi in numerosi altri lessemi, a mo’ di puri segmenti fonologici, privi di ogni valore e significato grammaticali e rintracciabili solo attraverso l’analisi etimologica: ad es., il genitivo singolare è fossilizzato nel nome del lunedì < lat. lūnae diēs, letteralmente «giorno della luna», o in parole come terremoto < lat. terrae motus. Il genitivo plurale è alla base dei pronomi loro, coloro < lat. illōrum «di essi», eccum illōrum; o del nome della Candelora < lat. festum candēlārum «festa delle candele»; o ancora, per trafila dialettale, in nomi di luogo come Viganò (Lecco) < (terre) vicanōrum «terre dei paesani» (cfr. Rohlfs 1968: 9-10).
Alcune eccezioni sono interessanti anche da un punto di vista grammaticale più generale, e non meramente etimologico. Nelle lingue che hanno distinzioni di caso solo in alcuni nomi, i nominali che presentano un numero maggiore di distinzioni sono posti di norma nel seguente ordine: (1) pronomi, (2) nomi propri, (3) nomi di parentela (del tipo padre, sorella), (4) nomi che indicano esseri umani, (5) nomi che indicano esseri animati, (6) nomi che indicano entità inanimate. Se un sistema di casi si manifesta in modo differenziato, gli elementi collocati più in alto presentano più distinzioni rispetto a quelli collocati più in basso.
Ora, come s’è detto, la massima parte dei nomi nelle lingue romanze deriva dalla forma dell’accusativo latino. Le sole eccezioni sistematiche, in italiano e in vari dialetti, sono taluni lessemi con referenti umani (sarto, uomo < lat. nominativo sartor, hŏmō), di significato intrinsecamente agentivo (come il veneziano antico avogàro «avvocato», il calabrese curàtulu «capo dei pastori» < lat. nominativo advocātor, curātor) o rientrante tra i nomi di parentela (moglie < lat. nominativo mulier), che confermano così la gerarchia suddetta (cfr. Rohlfs 1968: 5-7; Zamboni 2000: 108-110).
Blake, Barry J. (2001), Case, Cambrige - New York, Cambridge University Press.
Rohlfs, Gerhard (1968), Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti,Torino, Einaudi, 1966-1969, 3 voll., vol. 2° (Morfologia) (1a ed. Historische Grammatik der italienischen Sprache und ihrer Mundarten, Bern, A. Francke, 1949-1954, 3 voll., vol. 2º, Formenlehre und Syntax).
Zamboni, Alberto (2000), Alle origini dell’italiano. Dinamiche e tipologie della transizione dal latino, Roma, Carocci.