CASTELLI, REGNO D'ITALIA, ARCHITETTURA
Stando sia alle fonti sia alle emergenze monumentali, l'attività di Federico II quale edificatore di castelli si limita nel Regno d'Italia a un numero piuttosto esiguo di complessi. Così come avviene per l'architettura palaziale (v. Architettura, Regno d'Italia), le iniziative a carattere fortificatorio di sicura matrice sveva sono distribuite cronologicamente tra la fine del 1237, quando fu ordinata l'erezione della rocca di Lodi all'indomani della vittoria di Cortenuova, e il quinto decennio del Duecento, cioè nel momento di massimo sforzo compiuto dalla Corona nella riacquisizione e nel controllo delle regioni padane e centrali della penisola italiana.
È comunque probabile che questo ristretto gruppo di imprese, costituito, oltre che dal presidio lodigiano, dai manieri di Cesena, Ravenna e Spello, dalla rocca di Monselice e dal castello quadrilatero di Prato, abbia un lontano precedente nel cassero di San Miniato, borgo collinare della Toscana centrale situato lungo il percorso della Via Francigena dove aveva sede il vicario imperiale già in pieno sec. XII.
In questo caso si è ritenuto, sulla scorta delle analisi storico-documentarie, che il fortilizio sanminiatese fosse stato innalzato tra il 1217 e il 1221 al posto di una più antica rocca d'altura, operativa fin dal 1172, mettendone in rapporto la realizzazione alla presenza in loco di Everardo di Lautern e in particolare dell'arcivescovo Corrado di Spira (Testi Cristiani, 1967, pp. 58-67). Costui, infatti, soggiornò nella cittadina toscana durante il 1221 in veste di legato del sovrano e il suo nome era citato su una lapide murata all'esterno della torre maestra del castello. Tuttavia, il fatto che siano sconosciuti tanto la datazione quanto il contenuto dell'epigrafe ‒ perduta nel 1944 causa il minamento del battifredo (o torrione) ‒ impedisce di stabilire se vi fu un diretto coinvolgimento di Corrado nella fabbrica, la cui ultimazione risalirebbe a prima del 1223, perché soltanto a partire da quel momento compare nelle carte il termine 'cassero' a indicare la zona superiore del centro murato.
La costruzione del fortilizio duecentesco segnava la trasformazione dell'impianto di San Miniato e del suo assetto difensivo, peraltro smantellato per ritorsione da Federico nel 1240. In quel frangente l'abitato aggregato ai piedi della pieve di S. Maria e del palatium imperiale, quest'ultimo attestato già nel 1178 e individuato nello stabile che attualmente ospita l'Albergo Miravalle (ibid., p. 26), fu unito in un unico contesto insediativo al nuovo presidio che risultava del tutto separato dal borgo nella fase anteriore all'intervento svevo, malgrado rimanesse inserito ‒ in posizione periferica ‒ all'interno del circuito cittadino. Non è dato sapere quale andamento planimetrico avesse la rocca elevata nel corso del sec. XII, di cui sopravvivrebbe, come singola testimonianza, la torre rettangolare detta di Matilde, in seguito inglobata nel vicino complesso pievano in funzione di campanile.
Sembra invece plausibile che la fortezza attribuita alla committenza federiciana non venisse a sostituire in toto il precedente maniero, ma piuttosto ne ampliasse la superficie, così da occupare gran parte della sommità del poggio. Secondo la ricostruzione fatta da Testi Cristiani (1967), sulla base sia delle fonti scritte e iconografiche sia delle modeste sopravvivenze in laterizio, il castello doveva sviluppare nel complesso una forma allungata a trapezio irregolare ed era organizzato in due recinti affiancati, ciascuno differente per dimensioni e mansioni.
La più estesa corte inferiore risaliva dal piano antistante la pieve lungo il pendio sudoccidentale del colle fino a raggiungere la cima. Tale settore del cassero, oggi quasi del tutto scomparso, era a servizio del soprastante castelletto e possedeva una coppia di accessi. Ambedue gli ingressi erano situati ai capi del breve fronte rettilineo che costeggiava il 'prato di S. Maria' ed erano rispettivamente integrati alla torre di Matilde e a quella scomparsa delle Cornacchie. Sopra l'altura s'innalzava il ridotto, il cui circuito poligonale seguiva l'orlo ellissoidale della vetta ed era munito nel vertice prospiciente la corte bassa di un torrione quadrato, che da sempre la tradizione locale collega alla figura di Federico II.
Prima dell'ultimo conflitto mondiale, il ridotto rimaneva la sola porzione della compagine duecentesca conservatasi in elevato, sicché il suo rifacimento postbellico, portato a termine nel 1958, assume esclusivamente un valore di ripristino della memoria, rinviando l'analisi del perduto manufatto a un numero alquanto limitato di fotografie storiche e ai rilievi editi nelle opere di Georges Rohault de Fleury (1873) e di Bodo Ebhardt (1916).
Da tale documentazione si ricava che la torre maestra raggiungeva la considerevole altezza di 28,41 m, benché fosse da tempo crollata la struttura in muratura dell'attico. A eccezione dell'ultimo piano, lo slanciato corpo parallelepipedo era chiuso da pareti in laterizio prive di qualsiasi articolazione muraria sulla faccia esterna e forate da un numero limitato di aperture, tra le monofore e i due accessi in quota, comunicanti l'uno verso la corte l'altro in direzione degli spalti della cinta. La collocazione di portoni e finestre stabilisce che questo segmento del torrione accoglieva cinque stanze abitabili sovrapposte, divise da impalcati e collegate da scale in legno; inoltre la coppia di ambienti situata nella parte alta possedeva una cubatura più ridotta rispetto agli altri tre e, pur mancante di vani-latrina, aveva finalità strettamente residenziali, in quanto le camere erano dotate su tutti e quattro i lati di confortevoli monofore che si aprivano al centro delle pareti.
Inteso dunque come una casa-torre piuttosto che nella versione di mastio, il torrione del ridotto fu ulteriormente sopraelevato mediante l'addizione di una struttura in cotto a forma di baldacchino, ancora leggibile nelle vedute di San Miniato risalenti alla prima metà del sec. XVIII e della quale erano sopravvissuti sino al 1944 due dei quattro pilastri cilindrici che s'impostavano negli angoli della terrazza. Sebbene non sia mancato chi abbia ritenuto siffatto organismo anch'esso frutto del cantiere svevo, adducendo come prova un'analogia di soluzioni con i piani sommitali di alcuni campanili dell'Italia meridionale (per esempio il duomo di Caserta, la cattedrale di Amalfi e la Martorana a Palermo; Testi Cristiani, 1967, pp. 65-67), comunque evidente appariva il suo stacco progettuale, nonché stilistico, con il blocco sottostante così da farne supporre una datazione più avanzata, forse da riportare al principio del sec. XIV per le consonanze con la cella su pilastri che corona la trecentesca torre di Palazzo Vecchio a Firenze.
Sta di fatto che, qualora si accetti per il presidio sanminiatese sia il diretto patrocinio della Curia sia la datazione al 1217-1221, ciò lo renderebbe tanto un esempio cronologicamente isolato nel quadro dell'architettura federiciana nell'Italia centrosettentrionale, quanto un precedente, anche tipologico, rispetto alle più antiche fabbriche castrali del Regnum Siciliae (per esempio i manieri di Gaeta, Aversa e Napoli), la cui fondazione non scende mai sotto il 1223 (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 109). In tal caso il maniero toscano risulterebbe il prodotto di un clima storico-politico del tutto estraneo a quello che vide sorgere gli altri castelli nel Regno d'Italia dal 1237 in avanti, nella maggior parte dei casi come conseguenza delle campagne militari condotte da Federico II contro i comuni padani.
Di questa stagione edilizia rimangono oggi poche e tuttavia qualificate testimonianze nella rocca del borgo padovano di Monselice e nell'imponente castello di Prato, mentre delle altre imprese si ha notizia dalle fonti o ne è attribuita in via ipotetica la committenza sveva, come di recente è stato proposto per il castrum di Pordenone, città del Friuli governata dal 1248 da un capitaneus imposto dall'autorità imperiale (Bortolami, 1993, p. 14; Id., 2001, p. 160). In sostanza si tratta di un numero piuttosto contenuto di castelli (forse una parte di quanto fu effettivamente costruito), del quale si conosce di frequente l'anno di fondazione e l'ubicazione topografica nel tessuto urbano che veniva ad accoglierli. È il caso del presidio di Lodi, il più antico della serie, che, innalzato nel 1237-1238 sul versante meridionale dell'abitato murato presso Porta Cremonese (odierna Porta Romana), fu demolito dalle milizie milanesi l'anno seguente la morte dell'imperatore (Agnelli, 1917, pp. 214, 276). Né si conservano i fortilizi di Cesena e di Ravenna, il primo insediato laddove sorgeva il Castel Nuovo smantellato dagli imperiali nel 1239 (Vasina, 1985, p. 138), il secondo edificato lungo la cinta urbana e a fianco della Porta S. Mama all'indomani della presa del città, caduta il 22 agosto 1240, e verosimilmente passato nelle mani dell'autorità arcivescovile già nel 1245 (Crosara, 1952, pp. 269, 279; Bortolami, 2001, p. 159). A tale proposito la cronaca ravennate ricorda che la rocca federiciana fu realizzata utilizzando materiale da costruzione ricavato dalla calcinazione degli elementi marmorei e lapidei tratti dall'antica Porta Aurea ("Insuper omnes lapides, et lastras marmoreas de Porta Aurea quaecumque inventae sunt ad Calcinariam, et ex eis facta est calcina pro Castris Imperatoris aedificatis in muro circa murum Ravennae"; Crosara, 1952, p. 279 n. 67).
E se probabilmente un'identica sorte toccò nell'aprile 1241 anche a Faenza, riguardo la quale Riccardo di San Germano annotava in maniera sibillina che "Imperator ipse fieri munitionem mandat" (1936-1938, p. 208; inoltre Annales Placentini Gibellini, 1863, p. 485), e l'anno seguente alla ribelle Pontremoli, dove una "magnam munitionem" fu costruita "ab uno capite" dell'abitato allora privato delle sue difese (Annales Placentini Gibellini, 1863, p. 485; Chronicon Parmense, 1902, p. 12), appare ormai un dato certo che il programma castrale fu esteso negli anni Quaranta ad alcuni centri dell'Italia centrale in concomitanza con l'istituzione dei vicariati. Ciò è provato non solo dal castello di Prato, ma anche dalla rocca di Spello, luogo strategico per il controllo della pianura umbra e del sistema stradale che, attraversandola, collegava Roma e la Tuscia alle regioni altoadriatiche. Alla stregua del palatium della vicina Foligno, la cui esistenza è registrata da più tarde bolle pontificie (v. Architettura, Regno d'Italia), circa l'operatività di un presidio a Spello negli anni Quaranta si ha conoscenza da una lettera di papa Alessandro IV, il quale nel novembre 1258 intimava al comune di consegnare alle Clarisse di Vallegloria un casalino sito entro le mura, "in loco ubi quondam Fredericus olim Imperatoris arcem fecerat", vale a dire nella zona più arroccata del borgo ‒ nota con il toponimo di Pianello ‒ ove la comunità francescana fondò il monastero nel 1340 (Lazzeri, 1911, p. 70, pergg. LVIII, LIX; Sensi, 2001, pp. 91-95).
Nei fatti, sia la totale perdita dei manufatti architettonici fin qui considerati, sia l'assenza di mirate indagini archeologiche, impediscono di valutare l'effettiva portata delle iniziative, tanto meno permettono di sapere quale configurazione avessero tali insediamenti. Ma è soprattutto l'assenza di dati monumentali precedenti al 1240 a costituire un ostacolo al fine di stabilire i tempi e i modi di penetrazione dei modelli castrali elaborati nei cantieri del Regnum Siciliae nelle regioni dell'Italia padana e centrale, come manifestano il castrum ad ali regolari di Prato e il torrione tetragono con base scarpata di Monselice, entrambi realizzati nell'ultimo decennio di regno.
Ciò nonostante un altro indicatore fornisce elementi utili a comprendere quando sia avvenuta la trasmissione di tipologie edilizie dal Mezzogiorno verso il Settentrione della penisola, ovvero la lettura di quanto è pervenuto o si conosce delle residenze urbane di Federico II nel Regno d'Italia. Le sopravvivenze del pallaciumde Rena a Parma, ampliato nel 1238 in veste di broletto lombardo, così come la ricostruzione nel 1239 della turris Carthularia ai piedi del Palatino nelle forme di un fortilizio baronale romano, dimostrano la stretta dipendenza di entrambi i complessi dai linguaggi dell'architettura locale (v. Architettura, Regno d'Italia). È quindi da presumere che pure i presidi fatti erigere dalla Corona sul finire del quarto decennio del Duecento si conformassero a questa linea, che fu abbandonata al principio degli anni Quaranta per la diretta adesione a modelli di provenienza meridionale.
Non è dunque un caso che lo spartiacque tra i due momenti edilizi coincida con la riforma amministrativa del Regno italico, messa in atto tra il maggio 1239 e il febbraio 1240 attraverso la creazione dei vicariati generali. All'interno di questo ambizioso progetto politico, mediante il quale Federico II intendeva dar vita a una compagine statale che fosse strutturata sul tipo di quella applicata nel Regno di Sicilia, un ruolo unificante e al contempo di propaganda dovette essere attribuito alle fabbriche curiali, simbolo concreto del ripristino dell'auctoritas imperiale. E la gestione dei nuovi cantieri, come sta a dimostrare la presenza a Prato del siciliano Riccardo da Lentini nell'ufficio di magister castri imperatoris nel 1246 (Fantappié, 1991, p. 261 n. 296), fu affidata a personale altamente qualificato formatosi nei ranghi di quella burocrazia di origine meridionale a cui la Corona delegò il compito di governare la giovane macchina statale.
A registrare un siffatto mutamento nell'edilizia di matrice sveva, peraltro non più riconoscibile nell'architettura palaziale dopo il 1240 causa la perdita delle residenze di Foligno e di Viterbo, concorrono proprio i fortilizi di Monselice e di Prato. Infatti ambedue i complessi palesano caratteri del tutto sconosciuti al panorama castellare dei territori di appartenenza, inquadrandosi invece per forma di impianto, soluzione degli alzati, corredo plastico e funzionalità degli spazi agli esemplari di identica categoria realizzati nel Regnum Siciliae fin dai primi anni Trenta del Duecento. Si tratta di un legame già da tempo istituito per il castrum ad ali toscano (Agnello, 1954) e che va esteso pure al mastio di Monselice, tangibile attestazione dell'intervento fortificatorio svevo nella "maggiore delle camere speciales Imperii in terra veneta" (Bortolami, 2001, p. 159).
Riguardo la datazione della rocca del centro euganeo ‒ sino a oggi quasi ignorata dalla critica, ma oggetto in tempi recenti di prospezioni archeologiche ancora da editare (La Rocca medievale, 1998) ‒ è stata proposta una fondazione ai primi mesi del 1239, mettendola in correlazione con il contestuale soggiorno della corte imperiale a Padova, dove si era acquartierata nel monastero di S. Giustina. Il fatto, comunque, che una guarnigione comandata da capitani apuli vi fosse registrata nel 1249 (Bortolami, 2001, p. 159) esplicita sia come il maniero fosse allora in attività, sia come esso svolgesse innanzitutto compiti di presidio di un territorio pianeggiante solcato da importanti vie di comunicazione. Dunque la fortezza era forse stata ultimata entro quest'ultima data, e per realizzarla furono atterrati l'antica pieve così come alcuni casamenti presenti sulla sommità del poggio che sovrasta la cittadina. Inoltre la rocca veniva a innalzarsi all'interno del circuito urbano, laddove le murazioni, risalendo il pendio dell'altura, creavano lo spigolo nordorientale della cinta, così da rimanere in posizione defilata rispetto all'abitato che si estendeva alle pendici del colle.
Tuttavia, a eccezione del poderoso mastio quadrato e della cinta che lo attornia, nessun'altra emergenza monumentale è riconducibile con certezza all'impianto federiciano, peraltro ampliato già nel sec. XIV durante la signoria dei Carraresi mediante l'elevazione di un secondo recinto sul fronte urbano. L'assenza di segni di addossamento sulle cortine esterne del torrione assicura che esso si elevava nel mezzo del cortile, palesando una formulazione differente da quella del cassero di San Miniato, ma in linea con la configurazione del ridotto con mastio pentagonale di Rocca Ianula in Terra di Lavoro, presidio d'altura fatto innalzare dalla Corona tra il 1235 e il 1239 (Pistilli, 2003, pp. 110-151). D'altro canto ulteriori dati progettuali, come l'alta scarpata al piede del torrione, l'accesso in quota ai vani abitabili e le anguste aperture, ne stabiliscono una totale autonomia difensiva, mentre gli spazi interni erano organizzati su tre livelli coperti: nel blocco troncopiramidale era accolta la cisterna, sopra cui s'impostava il fusto parallelepipedo che conteneva i due vani residenziali, collegati da una scala in spessore di muro, illuminati da finestrelle rettilinee disposte al centro di ogni parete e dotati di servizi igienici.
Nel complesso il manufatto dimostra di possedere tutte le prerogative residenziali e difensive dei donjons italomeridionali, avvicinandosi inoltre nel disegno volumetrico ‒ condizionato dalla base scarpata ‒ a esemplari quali il mastio normanno-svevo del castello di Milazzo (Cadei, 1992) e apparentandosi nella realizzazione tecnica dei parati, allestiti in filari regolari di blocchi squadrati di trachite, agli apparecchi lapidei di numerose imprese federiciane di Puglia, Sicilia e Campania. Quest'ultimo riscontro farebbe supporre che, a partire dal 1240, non vi sia soltanto stata la trasmissione di modelli architettonici, ma che tale fenomeno fu anche accompagnato dalla migrazione verso settentrione di maestranze specializzate, circostanza che trova effettivo riscontro nel castrum pratese, dove tra l'altro si sono riconosciuti nelle sculture dell'ingresso principale gli inizi dell'attività del pugliese Nicola Pisano in Toscana (Bertaux, 1903, pp. 799-802; Agnello, 1954, p. 199).
Indubbiamente la fabbrica di Prato ha una veste architettonica e dimensioni tali da renderla in assoluto la più importante tra le committenze curiali nel Regno d'Italia. Ancora una volta non si conosce l'esatta cronologia del cantiere svevo, certamente in via di realizzazione nell'aprile del 1246 data la presenza in loco di Riccardo da Lentini, ma è plausibile che la decisione di edificarlo fosse maturata nell'aprile del 1241 a seguito del soggiorno in città di re Enzo (Kantorowicz, 1988, p. 552). Pertanto, nella veste di legato generale d'Italia, il figlio di Federico II potrebbe essere stato il patrocinatore dell'iniziativa volta a sostituire il vetusto e ormai poco confortevole palatium imperatoris, la cui esistenza è attestata per la prima volta tra il 1191 e il 1192. A spingere verso questa soluzione fu la volontà di possedere un complesso di prestigio in un centro di incondizionata fede ghibellina e una struttura che non fosse una macchina militare, anzi, al contrario, avesse le capacità e ogni genere di comodità sia per ospitare i membri della corte sia per assolvere le funzioni di sede degli uffici amministrativi. Nelle intenzioni del committente il castello di Prato fu concepito per espletare soprattutto compiti di residenza e di rappresentanza, alla stregua dei manieri meridionali ubicati ad Aversa, Napoli (Castel Capuano), Trani, Bari e Brindisi, con i quali condivideva in linea di massima l'impianto rettilineo ad ali con bastioni angolari e una collocazione periferica all'interno del tessuto urbano.
Ciò nonostante l'estrema regolarità e razionalità del tracciato a terra, così come l'impiego di torri mediane su tutti e quattro i fianchi dell'edificio, scartano una diretta deriva-zione del fortilizio toscano dai succitati monumenti peninsulari, perché 'imperfetti' nella loro formulazione planimetrica (Cadei, 1996, pp. 474-475), evidenziando invece puntuali rimandi con le fabbriche castellari della Sicilia orientale (Augusta, Catania e in minor misura Castel Maniace a Siracusa; Agnello, 1954; Cadei, 1995, p. 115), alla cui edificazione aveva sovrinteso lo stesso Riccardo da Lentini sul finire degli anni Trenta. È quindi ragionevole ritenere che tramite il magister Riccardo fu applicato al cantiere pratese lo schema del castrum ad ali regolari e la versatilità del modello architettonico consentì non solo di apportare alcune significative varianti rispetto agli esemplari isolani, ma anche di riutilizzare al meglio preesistenti corpi edilizi, da individuare nelle torri rettilinee inserite al centro dei versanti nordoccidentale e nordorientale del maniero.
Infatti la coppia di torri risalente al tardo sec. XII ‒ un tempo svettante sulla compagine castrale duecentesca ‒ è forse quanto fu salvato dell'antico palazzo imperiale dal cantiere svevo, il quale, insediatosi su un leggero sopralzo del terreno e con gli spigoli del quadrato orientati in direzione dei punti cardinali, veniva a interrompere il percorso sudorientale della cinta urbana. Per il resto la costruzione federiciana segue un piano pressoché unitario, che fu comunque eseguito solo in parte, in quanto le ali abitative a chiusura della corte interna non furono mai realizzate.
Benché l'opera sia rimasta incompiuta alla morte del sovrano, tanto le ingenti strutture in elevato delle murazioni perimetrali quanto l'analisi degli apparecchi murari offrono solide basi per ricostruire in via ipotetica il progetto originario del castello (Agnello, 1954; Kappel-Tragbar, 1996). Questo prevedeva, infatti, un assetto planimetrico fondato su un reticolo geometrico, il quale dettava le dimensioni del doppio quadrato disegnato dal cortile e dal circuito turrito, i cui lati si estendono per una lunghezza pari a circa 40 metri. Alla cinta rispondono in posizione di mezzeria i baluardi d'angolo, anch'essi di forma quadra, mentre lungo i fianchi sono sistemate le quattro torri mediane, a due a due rettilinee e pentagonali. Delle otto torri, soltanto la coppia più antica non partecipava al funzionamento del maniero perché raggiungibile esclusivamente da accessi esterni all'insediamento svevo. Le restanti sei, invece, dovevano integrarsi ai previsti quattro bracci del complesso, sicché i due bastioni collocati nei vertici occidentale e orientale accoglievano scale elicoidali che mettevano in comunicazione il pianoterra con le terrazze e gli spalti del castello, laddove gli altri baluardi contenevano un unico stanzone abitabile, illuminato da sottili feritoie e dotato di un vano latrina. Relativamente ai dispositivi di accesso, questi erano tre e ubicati in posizione decentrata sui lati di appartenenza, con il portone principale timpanato localizzato sul versante nordoccidentale e derivato da quello di Castel del Monte, di cui riprende i "più minuti dettagli decorativi" (Agnello, 1954, pp. 156, 193-200).
La configurazione delle ali che avrebbero dovuto girare intorno alla corte è praticabile grazie ai segni architettonici che ancora si conservano sulle cortine interne della cinta (Kappel-Tragbar, 1996). Qui l'apertura di un solo registro di feritoie su tre dei quattro prospetti del maniero, spesso accompagnato alla medesima quota da una serie di capitelli pensili equidistanti tra loro, esplicita che i bracci erano stati organizzati su un solo livello, così come era previsto che ciascun organismo fosse scandito da archi trasversi e pareti divisorie in sei campate quadrate di identiche dimensioni, coperte da volte a crociera costolonate. L'articolazione degli spazi interni doveva seguire, pertanto, il ritmo modulare delle campate e ogni corpo edilizio era stato concepito per essere suddiviso in più ambienti secondo la destinazione d'uso, in modo tale da ottenere nelle ali sudoccidentale e nordorientale una sequenza di ambienti monocellulari, mentre gli altri due fabbricati erano destinati a ospitare le aule di rappresentanza e l'androne dell'ingresso maggiore.
Sta di fatto che la mancata ultimazione dell'impresa, dato questo che accomuna il maniero di Prato a numerose fabbriche fondate dalla Corona nell'Italia meridionale anche nel quarto decennio del sec. XIII (per esempio i castelli di Brindisi e Catania; Cadei, in corso di stampa), e in particolare l'assenza di quelle strutture ricettive che si addossavano lungo la cinta, non esclude l'operatività del complesso negli ultimi anni di regno di Federico II. Anzi, la visita nel 1246 del sovrano nella città toscana e soprattutto il prolungato soggiorno del figlio e vicario generale, Federico di Antiochia, dal 1247 al 1250, starebbero a testimoniare il contrario, e cioè che l'erezione del circuito murario con le torri ‒ quattro delle quali riservate a compiti residenziali ‒ era più che sufficiente. Tale considerazione rende possibile l'ipotesi che l'attività del cantiere si sia concentrata nell'arco cronologico compreso tra il 1241 e il 1246-1247, come peraltro avvalora la presenza a Prato di Riccardo da Lentini, cui fece seguito un drastico rallentamento dei lavori, se non addirittura una loro definitiva sospensione. D'altronde l'epilogo dell'impresa appare annunciato da quanto fu realizzato in alzato del castello e sta a dimostrarlo la minor cura con cui avanzò la fabbrica dopo l'elevata qualità tecnica dei primi lotti costruiti. Questi ultimi sono da individuare nel portale principale, nel basamento a bugnato piatto del bastione settentrionale e negli apparecchi murari in conci squadrati di alberese con cui furono allestiti i tratti inferiori delle fiancate che lo collegano alle due torri ereditate dal palatium imperiale.
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Pio Francesco Pistilli