CASTELLI, REGNO D'ITALIA, SISTEMA DEI
"In qualibet civitate, in qua dominium habuit, voluit habere imperator palatium aut castrum": Salimbene de Adam (Cronica, a cura di G. Scalia, Bari 1966, p. 647) esprime con chiarezza quale fu il tratto più vistoso della politica urbanistica di Federico II, un aspetto noto e ben studiato per tutte le città del Regno normanno. La testimonianza di Salimbene, un frate francescano nato a Parma che trascorse gran parte della sua vita a nord degli Appennini, non si riferisce probabilmente alle città del Sud della penisola ma alle realtà territoriali a lui più vicine, la Romagna, per esempio, e la Toscana.
Come nell'Italia del Sud così nel Regno d'Italia Federico II concepì il controllo del territorio attraverso una serie di presidi militari che creavano una sorta di rete, un sistema indipendente, in sostanza, dagli insediamenti controllati. Il castrum urbano, costruito ai margini dell'abitato, è stato definito una fortificazione 'contro' e non a protezione della città: la sua funzione prevalente era infatti di favorirne il dominio (Settia, 1995). Questi castelli sono facilmente identificabili per alcune caratteristiche strutturali che ne denunciano tale finalità: sorgono di regola nei pressi delle mura, a margine dell'abitato, nella direzione che poteva garantire un'agevole via di fuga.
Le scelte di Federico II in merito alla politica urbanistica sono state ampiamente studiate per quanto attiene al Regno di Sicilia, meno per l'Italia centrale ‒ in specie per la Toscana ‒, per nulla nel territorio a nord degli Appennini. È noto che in Toscana Federico II provvide a costruire, contro Firenze, le fortezze di San Miniato al Tedesco e di Prato, avamposti filoimperiali di un disegno vasto e complesso di conquista e riorganizzazione del territorio.
Tali studi hanno attribuito all'imperatore svevo una visione che identificava nelle mura urbane il simbolo dell'autonomia cittadina, della sua indipendenza e della sua capacità di difendersi da attacchi militari esterni; il castello edificato nelle città soggette costituiva invece l'emblema materiale di un potere imperiale desideroso di ricostituire un controllo del territorio non limitato agli insediamenti rurali. In questo tipo di azione, che incideva profondamente nel tessuto urbanistico delle città, Federico II si mostrava erede consapevole della tradizione normanna: la costruzione di una rete di castelli all'interno delle città di Sicilia e dell'Italia meridionale da parte dei normanni è stata così interpretata da Paolo Delogu: "in un regno senza tradizione né unità, i castelli urbani furono intesi a costituire una trama continua di 'case' del re, congiunte e insieme separate dalle città che controllavano" (Delogu, 1979, p. 200).
Come avevano fatto i normanni, anche gli Svevi contrapposero alla città il palatium o il castello come simbolo e insieme come strumento di dominio. Sul piano urbanistico l'estraneità alla comunità cittadina del potere che ivi si intendeva esercitare si esprimeva con l'isolamento della residenza regia rispetto all'abitato. Concentrato l'uso della forza militare nelle sole mani imperiali, nella visione imperiale era il castello, e non le mura come nelle città comunali del Centro-Nord, a rendere sicura la comunità urbana. Questi castelli costruiti o ricostruiti per tenere a bada le città erano concepiti come organismi autonomi e isolati dall'impianto urbano; la loro fondazione non prevedeva mediazione tra la forma imposta dall'alto e i condizionamenti fisici e tradizionali del luogo. La costruzione di castelli urbani mostra caratteri analoghi nel Sud e nel Centro Italia: si trattava di un'iniziativa intrapresa ovunque Federico II riusciva a creare dei capisaldi sui quali poggiare la sua politica italiana, che potessero materialmente dare un sostegno alle sue numerose campagne militari. La storiografia federiciana ha molto insistito sulla funzione di esplicito controllo materiale e assieme di simbolo che esercitava il castello in ambito urbano, al punto da arrivare a definire come "una vera e propria strategia del terrore" (Bocchi, 1980, p. 57) la motivazione che stava alla base della costruzione di tali edifici. Un'interpretazione esplicitamente ripresa da Ernst Kirsten che, teorizzando in relazione alla 'sociotopografia' che traspare dagli interventi urbanistici nell'Italia centromeridionale dell'imperatore svevo, in specie la costruzione di castelli ai margini di città preesistenti, afferma che essa esprime una "idea di dominazione straniera, di forza e terrore, di controllo fiscale e di giustizia violenta e crudele" (Kirsten, 1986, pp. 143-144).
È probabilmente dovuto a questo tipo di approccio interpretativo il fatto che manchino indagini sulle fortificazioni urbane risalenti al XII-XIII sec. nelle città dell'Italia centrosettentrionale. La presenza stessa di tali edifici rimanda a una capacità di dominio materiale del potere imperiale che osta con l'indirizzo ideologico prevalente negli studi, specie locali, delle vicende urbane, studi e ricerche orientati, più o meno consapevolmente, a un forte senso di municipalismo, tenuto conto anche del protrarsi del clima storiografico tradizionale di stampo risorgimentale. Un municipalismo che non fu estraneo neppure, come è stato ampiamente dimostrato, ai cronisti duecenteschi: lo studio dei castelli urbani fondati dall'autorità imperiale nel Centro-Nord dell'Italia si scontra infatti con un imbarazzante silenzio delle fonti cronachistiche coeve alla costruzione degli edifici. Nella maggior parte dei casi, almeno per quanto attiene alla Romagna, è possibile ricostruire solo da testimonianze posteriori e indirette la vicenda di questi castelli. In specie, fu soltanto allorché, dal 1248, la preminenza imperiale nella regione fu sostituita dall'azione politica e militare della città di Bologna e, in seguito, a partire dagli anni Settanta del Duecento, quando in ogni città romagnola ci furono scontri cruenti fra le parti, che le fonti iniziarono a menzionare i castelli federiciani divenuti nel frattempo baluardo militare, oltre che simbolico, dello schieramento ghibellino della città. Tutti i castelli federiciani furono distrutti in modo più o meno definitivo nella seconda metà del XIII sec., e fu solo allora che le fonti narrative locali ne attestarono la presenza.
In Romagna dunque, grazie a queste fonti tardive e a un'analisi comparativa delle vicende dello sviluppo urbanistico delle diverse città, è possibile ricostruire con precisione il vero e proprio sistema che i castelli urbani voluti da Federico II costituirono a controllo dell'intera regione.
In tutta l'area romagnola, infatti, Federico II, una volta conquistata una città, provvide a rivederne l'impianto difensivo arricchendolo progettualmente e in modo sistematico con l'edificazione di un castrum. Se nelle città in cui prevaleva tradizionalmente lo schieramento filoimperiale, Forlì e Imola, tale pesante intervento urbanistico fu realizzato negli anni Venti del Duecento, per le altre città di Romagna occorre attendere invece il momento dell'assoggettamento militare dell'intera regione, dopo il 1240. Così a Ravenna, dove il castrum imperiale fu edificato solo dopo l'assedio e la presa della città, ed è il caso più noto. Ma ciò accadde pure a Faenza, Cesena e Cervia.
Per valutare l'attività di Federico II in area romagnola occorre ampliare la prospettiva cronologica. La regione viveva ancora agli inizi del Duecento un problema di giurisdizione irrisolto: la Romània era stata inserita di fatto nel Regnum a partire dalla fine del IX sec., ma la Chiesa di Roma continuava a rivendicare su essa pieni diritti di giurisdizione in forza delle donazioni carolinge. Un problema che non si era mai risolto ma che aveva contribuito a definire progressivamente un'autonoma caratterizzazione della regione, segnata inoltre, e in modo non ininfluente, dalla presenza della Chiesa ravennate, ricca di un estesissimo patrimonio fondiario, desiderosa di autonomia rispetto alla Chiesa romana, forte di una stretta rete di relazioni vassallatiche con l'aristocrazia locale. I rappresentanti del potere imperiale avevano tradizionalmente appoggiato le esigenze di autonomia dell'arcivescovo e delle sue clientele perché questo consentiva di affermare, almeno indirettamente, il proprio dominio in quest'area controversa.
L'intento pontificio di costituire in Romagna un dominio diretto si consolidò alla fine del XII sec. in un momento di debolezza del potere imperiale; Innocenzo III cercò di costituire con forze militari uno Stato della Chiesa in senso proprio, perseguendo il controllo della Marca anconetana e della Romagna. La conquista militare fallì, in quel momento, in Romagna, ma l'azione del papa pose solide premesse al successivo affermarsi del dominio pontificio in tali regioni.
Negli anni Venti Federico II assunse in Romagna un ruolo di pacificatore che si esplicitò soprattutto nella protezione di Imola, contesa fra Bologna e Faenza; mantenendosi nel solco dell'attività dei suoi predecessori, concesse inoltre protezione imperiale e conferma dei diritti tradizionali all'arcivescovo di Ravenna, ai monasteri benedettini ravennati, ai vescovi di Sarsina e di Imola. La politica di riconferma del favore imperiale alle forze già schierate da quella parte non cela la volontà specifica dello Svevo di pervenire a un diretto controllo della regione: già nel 1220 fu nominato un conte di Romagna, il parmense Ugolino da Giuliano, titolare anche del mandato di podestà imperiale a Ravenna, Cervia e nel castello di Bertinoro. E negli stessi anni fu creato legato d'Italia Corrado di Metz. Si costituì in tal modo una rete di funzionari regi, coordinati fra loro da strette relazioni gerarchiche: legato, conte di Romagna, podestà imperiali. Tale politica comportò una decisa limitazione dell'azione indipendente delle aristocrazie locali, decisa al punto tale che a Ravenna non piacque neppure alla parte filoimperiale di Pietro Traversari che pure aveva il controllo del comune, ma che mal tollerava l'azione concreta del conte di Romagna Ugolino da Giuliano.
È in questo quadro che assistiamo alle prime costruzioni di fortificazioni nelle città romagnole, a iniziare naturalmente da quelle già legate tradizionalmente allo schieramento filoimperiale.
A Forlì e a Imola la costruzione del castrum imperatoris fu contestuale all'ampliamento della cinta muraria urbana degli anni Venti-Trenta del Duecento. Un'analisi comparativa della crescita degli impianti urbani in area emiliano-romagnola mostra significativi caratteri comuni: dopo una prima crescita dello spazio intramurario databile fra gli anni Sessanta-Ottanta del sec. XII, il più importante ‒ e, quasi sempre, definitivo ‒ ampliamento delle cinte delle città si colloca fra gli anni Venti e Trenta del Duecento. L'iniziativa, che pur vide nelle diverse realtà locali cause complesse e non sempre perfettamente comparabili, segnò proprio in quegli anni tutte le città della regione: fu quello il frangente in cui Federico II impose alle città sulle quali poteva far valere la propria autorità schemi di organizzazione urbanistica a lui confacenti.
Il controllo federiciano sulla città di Forlì fu attivo, di fatto, sin dal terzo decennio del Duecento e si attuò attraverso la preminenza urbana della famiglia degli Ordelaffi. Fu per iniziativa di costoro che nel 1225 si cominciò la costruzione di una nuova cinta muraria che intendeva inglobare i sobborghi, una cinta che ‒ sappiamo da fonti successive ‒ fu affiancata da un castello. La città rimase nell'orbita imperiale fino al 1248 quando fu occupata dai bolognesi al momento della grande offensiva guelfa in Romagna. Le vicende degli anni Cinquanta-Ottanta videro a Forlì un continuo alternarsi di lotte fra la parte ghibellina, sempre rappresentata dagli Ordelaffi, e i guelfi bolognesi; ed è proprio del 1284 la prima attestazione della presenza della rocca imperiale a Forlì: le cronache infatti ne attestano la quasi completa demolizione a seguito di un violento attacco delle truppe papali. Negli anni successivi si perde notizia del fortilizio; è comune opinione della storiografia locale che una nuova rocca fosse stata costruita dalla famiglia signorile urbana negli anni 1360-1372. Certo è che nel 1371 il cardinale Anglic de Grimoard attestò l'esistenza a Forlì di due rocche, una detta Rocca di Ravaldino sita a sud della città, verso gli Appennini, e l'altra detta di S. Pietro, collocata a nord, in direzione della pianura e di Ravenna. Di queste due fortezze rimane oggi solo la Rocca Sforzesca o di Ravaldino che deve il suo stato attuale ‒ e la denominazione ‒ agli interventi voluti da Caterina Sforza alla fine del Quattrocento. Rimane testimonianza della rocca imperiale e delle sue strutture architettoniche in un disegno settecentesco, conservato presso la Biblioteca Civica, che ritrae la porta di S. Pietro. Nelle strutture fortificatorie della porta si osserva un arco a sesto acuto tamponato che richiama le caratteristiche architettoniche proprie delle fortificazioni federiciane.
Anche a Imola negli anni Venti del Duecento si provvide a ricostruire la cinta urbana in seguito alle distruzioni che la città aveva subito dopo l'assedio di bolognesi e faentini nel 1222. Alla metà del XII sec. la città occupava uno spazio ristretto, risalente ancora all'impianto altomedievale. Come le altre città emiliane e romagnole, Imola conobbe in seguito solo due significativi ampliamenti: il primo nella seconda metà del XII sec., quando il lato est del fossato giunse sino all'altezza della Via Selice; il secondo negli anni Venti del sec. XIII, allorché la città, dopo essere stata assalita dai bolognesi e dai faentini che ne spianarono i fossati e che operarono distruzioni considerevoli ai margini della cinta, fu ridisegnata con un perimetro assai più ampio del precedente. La nuova cinta inglobava nello spazio urbano ampie aree nuove, occupate dai recenti insediamenti degli abitanti dei distrutti abitati limitrofi di S. Cassiano e del Castel d'Imola, oltre al borgo, costruito a ridosso del fossato ovest, già attestato nel XII secolo.
Lo scavo di nuovi fossati urbani in questa circostanza costituì l'occasione di una completa ridefinizione dello spazio urbano, della topografia cittadina, della stessa ripartizione amministrativa di Imola. Dall'insieme di queste considerazioni si è dunque indotti a ritenere che sia stato questo momento della storia della città, quando Imola si trovò sotto la diretta protezione imperiale, quello che vide la costruzione di un sistema di fortificazioni che comprendeva pure, in direzione est, e dunque direttamente agibile da Ravenna, città in quel momento fedele all'Impero, un fortilizio nel quale dovevano risiedere un presidio militare e forse gli stessi podestà federiciani incaricati del governo della città. Un fortilizio che, a causa dell'iniziativa imperiale nella costruzione, o forse pure per la sua utilizzazione come presidio militare e politico, fu identificato per antonomasia con l'espressione castrum imperatoris. È noto inoltre che Federico II partecipò attivamente alla ricostruzione della città, imponendo all'aristocrazia romagnola di contribuire alle ingenti spese necessarie.
Così come nel caso di Forlì, anche a Imola però l'attestazione della presenza del castrum imperiale è offerta dalle fonti solo nella seconda metà del secolo. La tradizione storiografica imolese vuole che, dopo la morte di Federico II, nel momento in cui a Imola si affermava un governo di parte guelfa che agiva sotto diretta tutela bolognese, la città dominante emanasse l'ordine di costruire due rocche in città, ai margini dell'abitato, lungo l'asse della Via Emilia, una in direzione di Bologna e una seconda in direzione di Faenza; dei due fortilizi preventivati fu costruito però soltanto quello in direzione di Bologna. Tale tradizione fa esplicito riferimento a una sola fonte, gli statuti di Bologna dell'anno 1259, una delle redazioni statutarie pubblicate nell'edizione ottocentesca di Frati.
La lettura del testo riserva però una sorpresa: la città dominante, mater affettuosa che considerava gli imolesi meritevoli di essere stretti da "brachiis intime karitatis" che consentissero alla popolazione di permanere nello stato di ritrovata tranquillità e concordia seguito alla soggezione a Bologna, ordina che sia costruita "una fortilitia" in città, nei pressi della porta posta a ovest della cinta, in direzione di Bologna. Il fortilizio, una volta costruito, sarà presidiato da uomini fidati delle "societates" bolognesi, la cui retribuzione per il servizio sarà corrisposta dagli imolesi. Quest'ultima disposizione si dovrà considerare valida anche per quella fortezza "que est ad portam Ymole versus Faventiam", situata cioè sul lato opposto della città.
Il dettato statutario non esprime dunque l'ordine di costruire due fortezze: impone invece la costruzione di una sola nuova fortezza, nell'area ovest di Imola, facilmente accessibile anche dall'esterno della città dagli uomini della nuova dominante, Bologna. Attesta inoltre la preesistenza in città di una fortezza nell'area est: il testo dispone altresì che tanto la nuova quanto la vecchia fortezza debbano essere presidiate da truppe bolognesi, fedeli alla parte guelfa.
Il codice statutario bolognese del 1259 non è l'unica fonte che attesti la presenza a Imola nel Duecento di un fortilizio costruito a ridosso del fossato in direzione di Faenza. L'esistenza della rocca è documentata in modo univoco dalle cronache bolognesi, concordi nel descrivere gli avvenimenti che nel 1263 condussero alla distruzione di un castello a Imola, detto castrum imperatoris. In quell'anno, quando podestà di Bologna era Giacomo Tavernieri di Parma, a Imola scoppiarono disordini fra la parte ghibellina, rappresentata dai Mendoli, e la parte geremea, i Brizzi. Pietro Pagani, ghibellino, portò la sua parte alla vittoria che determinò l'espulsione da Imola dei Geremei. Imola era ormai da quindici anni sotto il controllo politico del governo guelfo del comune di Bologna: la reazione della città dominante non si fece attendere. Ai bolognesi fu sufficiente porre in assedio la città "et habuerunt ipsam pro concordia". Ripreso il controllo di Imola, questa volta i bolognesi agirono con determinata violenza nello smantellamento dell'impianto fortificatorio della città: inviarono una grande quantità di contadini con l'incarico di spianare i fossati del lato ovest e ordinarono al comune di Faenza di mandarne altrettanti per spianare i fossati a est. Furono così distrutti i serragli e il "castrum quod fieri fecerat Federicus imperator".
La cronaca Villola (Corpus chronicorum Bononiensium) afferma che fossati, serragli e castello erano stati approntati "de voluntate Lambertatiorum": si intende per volontà della parte ghibellina della città di Imola. Il Memoriale di Matteo Griffoni precisa: fossati e serragli erano stati edificati "de voluntate partis Lambertaciorum" e il castello era quello "quod fieri fecerat ibi imperator Federicus a latere mane". Le cronache coeve di altre città romagnole ricordano gli avvenimenti del 1263 in termini analoghi ma non recano menzione della distruzione del castello imperiale. Nel Chronicon di Pietro Cantinelli, per esempio, si narra l'espulsione della parte guelfa da Imola, l'intervento dei bolognesi, la conquista della città. Si precisa inoltre, ma come informazione a sé stante, che in quell'anno furono spianati i fossati di Imola "de voluntate hominum ipsius civitatis, pro bono et pacifico statu ipsius". La testimonianza di Cantinelli, cronista di inclinazione filoimperiale, contemporaneo agli eventi, tace la distruzione della rocca federiciana e insiste sul carattere 'pacificatorio' che ebbe l'operazione voluta dai bolognesi. Un atteggiamento analogo ‒ si tratta probabilmente dell'impiego di Cantinelli stesso come fonte ‒ ha la cronaca di Patrizio Ravennate.
Dall'insieme di queste testimonianze si capisce come le fortificazioni urbane di Imola ‒ ma, meglio, in tutte le città di Romagna ‒ fossero usate in quegli anni come strumenti di lotta civile: se la fazione filoimperiale sfruttava per gli scontri armati il castrum imperatoris, la parte guelfa si trovò prima, nel 1259, nella necessità di ordinare la costruzione di un fortilizio più facilmente controllabile nella zona a ovest della città e, infine, si determinò a distruggere anche le tracce materiali della forza ghibellina, demolendo il castello federiciano.
Il caso di Imola appare molto ben documentato e costituisce una base importante per interpretare le vicende che coinvolsero anche i castra federiciani nelle altre città romagnole. È importante soprattutto perché attesta con chiarezza come tali fortilizi divennero nella seconda metà del Duecento la base materiale e insieme simbolica della parte ghibellina; ciò spiega perché ognuna di tali città sia caratterizzata dalla coesistenza per un periodo più o meno breve di due 'castelli contro la città': anche la parte guelfa provvide infatti a costruire il proprio fortilizio urbano.
Forlì e Imola costituiscono, si è visto, i due casi più precoci dell'intervento federiciano in merito alla struttura urbana delle città romagnole. Gli interventi nelle altre città datano invece agli anni 1239-1240 quando, dopo che Paolo Traversari cambiò repentinamente di parte e portò i suoi clientes e la stessa città di Ravenna su posizioni filoguelfe, l'imperatore, forte della recente vittoria a Cortenuova ‒ che aveva altresì provocato un rinsaldarsi del fronte antimperiale ‒, mosse un deciso attacco a tutto il fronte guelfo romagnolo: furono allora assediate e prese le città di Ravenna, Faenza e Cesena.
Dopo la conquista di Faenza, la Romagna ‒ come affermava già Alfred Hessel agli inizi del Novecento ‒ "venne inserita in quel sistema di governo autocraticamente accentrato con il quale Federico sperava di reggere tutta l'Italia" (1975, pp. 118-119). Carattere comune in tutte le città romagnole di questa soggezione fu una ristrutturazione delle fortificazioni urbane che prevedeva la costruzione di un castrum imperiale.
La prima città che subì l'assedio e la conquista dell'imperatore fu ovviamente Ravenna. Nell'agosto 1240 Federico la pose sotto assedio e riuscì a riconquistarla, forse più per la morte del ribelle Paolo Traversari che per gli esperimenti di ingegneria idraulica volti ad asciugare corsi d'acqua attorno alla città. Dopo la presa di Ravenna, Federico II fece costruire un castrum sul tratto meridionale delle mura urbane, che doveva ospitare un presidio militare e i podestà imperiali inviati a controllare la città fino al 1246.
La Chronica de civitate Ravennae registra che "a Ravenna aveva lasciato un suo incaricato perché facesse scavare un fossato intorno alla torre del Palazzo, la facesse rafforzare e consolidare con le pietre delle case distrutte da Paolo Traversari e dalla sua parte" (1725, p. 578b; traduzione in Curradi, 1993, p. 814). Nella stessa narrazione si afferma poi che Federico II fece asportare dalla chiesa di S. Vitale "due colonne di onice e un pozzo dell'arcivescovo e altre pietre che volle trasportare da Ravenna a Rimini poi in Sicilia, a Palermo" (ibid.) e che, inoltre, fece portare in una calcara pietre e lastre di marmo staccate dalla Porta Aurea e con queste "fu fatta la calcina per gli accampamenti dell'imperatore edificati sulle mura intorno a Ravenna" (ibid.).
Se da un lato si dubita che le case dei Traversari e le loro torri fossero effettivamente state abbattute, certa pare invece l'attività di spoglio ai danni dei monumenti antichi. I marmi e le pietre che furono asportati dalla Porta Aurea quasi certamente furono utilizzati per la costruzione del castello, mentre da S. Apollinare Nuovo e da S. Vitale furono sottratti marmi preziosi e colonne che furono spediti mediante trasporto marittimo a Palermo, presso la Magna Curia.
È importante soffermare l'attenzione sull'area che fu scelta per costruire il castello. Se il fortilizio fosse stato concepito a difesa della città, come solido avamposto imperiale della regione, sarebbe stato logico costruire a ovest, lungo la Via Faentina che, tramite Porta Adriana, entrava in città: era infatti la strada diretta per Faenza e per Bologna, caposaldi della Lega nell'area. Il fortilizio fu invece costruito nel tratto sud della cerchia, presso Porta S. Mama: era quella la posizione ideale per inserire il nuovo fortilizio nella rete dei castra urbani ‒ erano già stati eretti quelli di Imola e di Forlì ‒, una rete che consentiva alle forze imperiali un diretto collegamento fra loro senza dovere attraversare le città. Anche a Ravenna la costruzione del castello non fu che un aspetto della completa soggezione della città: furono infatti nominati podestà imperiali e fu imposta una rigida militarizzazione.
Il castello dopo la sconfitta delle truppe imperiali fu ceduto nel 1247 da papa Innocenzo IV alla giurisdizione dell'arcivescovo Tederico dato che "non poteva essere posseduto da alcuna persona secolare senza grave pregiudizio per gl'interessi della città e della chiesa" (M.G.H., Epistolae, 1887, nr. 406, pp. 295-296). In seguito, nel settembre del 1256, tale Marcovaldo, su delega del comune di Ravenna, donò all'arcivescovo 'eletto' Filippo il castello costruito presso la Porta S. Mama con tutte le porte, torri e case affinché le conservasse a favore di tutta la città in "buono, pacifico e tranquillo stato" (Storia di Ravenna, III, Venezia 1993, regesto nr. 62, p. 786). La carta è importante non solo perché mostra come, negli anni immediatamente successivi alla sconfitta delle forze filoimperiali in Romagna, perdurasse una situazione di conflitto a Ravenna che non aveva consentito all'arcivescovo di assumere, come voluto dalla disposizione di Innocenzo IV, il controllo del castello, ma anche perché è la sola fonte che descriva con relativa ampiezza le strutture del fortilizio e la sua precisa collocazione nell'ambito dell'impianto urbano: questo aveva inizio dalla torre sita nel muro cittadino sulla fossa del castello verso Porta Gaza e si estendeva fino alla Porta Ursicina.
Dopo la conquista di Ravenna l'esercito imperiale pose sotto assedio Faenza: la città si arrese nella primavera del 1241 dopo mesi di resistenza. Su iniziativa federiciana, affidata nell'esecuzione al figlio Enzo, rettore generale della Romagna in quegli anni, vi fu eretta una rocca. È l'unico castrum imperiale urbano in Romagna che conosca una precisa attestazione coeva alla sua costruzione nelle fonti narrative, non locali però; l'eco che aveva avuto l'assedio di Faenza aveva accentrato sulla cittadina l'interesse della cronachistica d'oltralpe ed è infatti negli annali del monastero di S. Pantaleone di Colonia che si legge: "Imperator castrum et palacium in ipsa civitate construit" (Annales Sancti Pantaleonis Coloniensis, 1872, p. 534). Così come in Riccardo di San Germano e negli Annales Placentini, dove si trova l'attestazione più ampia: "Tunc temporis [cioè nell'agosto 1241] rex Hencius in civitate Faventie firmissimam munitionem fieri faciebat" (1863, p. 484). Nel 1248 la città fu conquistata dal cardinale Ottaviano Ubaldini; il controllo bolognese e della parte guelfa nei primi anni Cinquanta, così come a Imola, non fu scevro di difficoltà: nel 1256 la parte filoimperiale riprese il controllo della città ma per due soli anni. Nel 1258 infatti Faenza fu assediata dall'esercito bolognese e, dopo la presa, ne furono distrutte le mura. La tradizione storiografica locale vuole che, in questa occasione, la rocca chiamata castrum imperatoris fosse demolita; la medesima tradizione vuole peraltro che quando Alberico Manfredi, nel 1285, riuscì a conquistare definitivamente la città, provvedesse a ristrutturarne le fortificazioni ampliando la rocca. In realtà le fonti cronachistiche paiono riferirsi unicamente all'insieme del sistema fortificatorio: "[i Manfredi] feceruntque fieri foveas et stecatum ad burgum porte Pontis". E la documentazione notarile della città attesta la sopravvivenza nel sistema difensivo urbano del castrum: in una carta dell'Archivio Capitolare di Faenza, datata 10 ottobre 1256, la chiesa di S. Giovanni Evangelista in Sclavo è situata "in porta Montanaria, iuxta fossatum castri quondam imperatoris" (Rossini, 1940-1941, p. 156). Ancora nel giugno 1275 in una scrittura del notaio Pietro Cantinelli la casa degli Accarisi risulta posta "in porta Montanaria, iuxta fossatum castri Accarisiorum et locum fratrum Heremitarum" (ibid.). Gli Accarisi erano la famiglia a capo della parte ghibellina di Faenza: così come si è riscontrato già nel caso di Imola, anche a Faenza il castrum costruito su iniziativa imperiale era diventato il baluardo della parte filoimperiale della città.
La storiografia locale tramanda poi come uno dei sobborghi di Faenza fino a pochi anni prima del 1940 fosse ancora chiamato il 'sobborgo dell'Imperatore'. Si trattava di un borgo di poche case posto fuori dalla porta Montanara sulla circonvallazione che conduceva alla porta del ponte.
Nel 1371 infatti la Chiesa di Roma provvide a edificare una nuova rocca che così fu descritta dal cardinale Anglic: "in dicta civitate Faventina hedificatur de praesenti quoddam Castrum seu Roccha quae vocatur Castrum Albanum et nondum custoditur quia non positum in fortalitio" (Mascanzoni, s.d., p. 151). Tale rocca, che tuttora sopravvive, fu edificata al margine sud-ovest dell'abitato, nella parte opposta del sito prescelto per il castrum imperiale. Fu probabilmente in quell'occasione che il castrum fu abbattuto e, di conseguenza, fu murata la Porta Regis e la via che vi conduceva fu chiusa. Gli statuti della città conservati nella redazione del 1410 attestano e datano questi interventi.
Anche a Cesena, dopo la resa della cittadinanza, Federico II provvide all'atterramento delle difese urbane, compreso il castello della città, Castel Novo. La perdita dell'indipendenza urbana fu sancita dalla costruzione nel 1241 di una nuova rocca destinata peraltro a breve vita: nel 1248 l'esercito guidato da Ottaviano Ubaldini espugnò Cesena e fu demolita la rocca imperiale. Perentoria a questo proposito l'affermazione di Patrizio Ravennate: "Anno Christi MCCXLVIII [...] Destructum est castrum Cesene, quod fecerat fieri dominus imperator Federicus" (Cronica Patricii Ravennatis, 1985, p. 1152), seguito alla lettera dagli Annales Caesenates (1729). In realtà le attestazioni cronachistiche degli anni successivi ci inducono a ritenere che, seppure danneggiata, la rocca imperiale fosse rimasta agibile. Il 1o settembre del 1275 il conte Guido di Montefeltro, capitano ghibellino della guerra in Romagna, cavalcò contro Cesena insieme alla milizia e al popolo di Forlì e si appostò nel fortilizio di Reversano, sito 3 miglia a sud di Cesena, dopo averlo preso con la forza. Allora Malatesta, che si trovava a Cesena, accorse con altri della città a difesa del castello; durante il combattimento che ne seguì giunsero a sostegno di Guido di Montefeltro Guglielmo de Pacis, capitano della parte ghibellina, i suoi milites e altri milites di Faenza. Vista la situazione Malatesta fuggì con i suoi verso Cesena e ivi giunti si rifugiarono nella rocca, "securitatem in arcem elligentes" (Annales Forolivienses, 1903-1909, pp. 27-28).
Anche in seguito, durante il periodo in cui, fra il 1275 e il 1283, Cesena rimase sotto il controllo del conte Guido di Montefeltro, continuano le attestazioni del castello imperiale: nel 1277, in una torre del castello dell'imperatore furono rinchiusi Paganino degli Orgogliosi e Guglielmo degli Ordelaffi che ivi furono in seguito decapitati.
Soltanto nel 1326 la Chiesa di Roma provvide a far costruire una nuova rocca sulle rovine di quella eretta da Federico II. Sul Colle Garampo verso la fine del XV sec. esistevano due rocche: a sud quella del Trecento eretta sopra i ruderi di una fortificazione precedente; a nord la nuova eretta da Galeotto Malatesta e ristrutturata nel 1470 da papa Paolo II.
Anche la città di Cervia entrò all'inizio degli anni Quaranta a far pienamente parte del sistema regionale organizzato in Romagna da Federico II quando fu conquistata militarmente dai forlivesi nel 1241. Cervia fu però l'unica città romagnola sulla quale venne subito meno il controllo imperiale: nel 1243 fu infatti conquistata dai veneziani. Nonostante il breve periodo di dominio, anche nella cittadina le fonti attestano nella seconda metà del Duecento la presenza di un castrum imperiale. Negli anni Cinquanta del secolo, al momento della grande espansione bolognese in Romagna, Cervia fu assoggettata (1254) a Bologna che si avvalse in quella occasione della collaborazione dei forlivesi. Dopo una breve soggezione a Venezia tornò sotto il controllo di Bologna che, secondo una cronaca tarda e non sempre attendibile, "provvide a fortificarla con una rocca chiamata castello dell'imperatore" (Leone Cobelli, 1874). La notizia, evidentemente imprecisa, rivela però l'utilizzo da parte del cronista di una fonte che, descrivendo le lotte della seconda metà del Duecento per il controllo dell'importante centro di produzione del sale, attestava la presenza di un castrum imperatoris anche a Cervia. Fonte del cronista furono, con ogni probabilità, gli Annales Forolivienses: quando, nel giugno 1275, i ghibellini romagnoli conquistarono Cervia, riuscirono a impadronirsi della città ma impiegarono poi due giorni in più per occupare l'arcem imperatoris, occupata da truppe bolognesi che vi conservavano balistas et munitiones. Per evitare la cattura il presidio bolognese, secondo la testimonianza della cronaca, fuggì per aquam. L'attestazione degli Annales spiega dunque il fraintendimento del cronista: la rocca dell'imperatore non era stata edificata dai bolognesi, ma era da loro presidiata e occupata nel momento in cui la sua fonte ne faceva menzione. Attesta inoltre la posizione strategica del castello, posto ai margini dell'abitato, difficile da conquistare rispetto alla città e che inoltre consentiva agli assediati una via di fuga attraverso un canale. Può forse essere utile rammentare che la località a cui si riferiscono le fonti non coincide con l'attuale abitato omonimo. Cervia nel Duecento sorgeva nella località oggi denominata Cervia Vecchia sita nell'entroterra, in mezzo alle saline, circa 2 km a ovest del centro attuale; soltanto alla fine del Seicento, quando furono costruiti i magazzini del sale e la torre di S. Michele, l'abitato si spostò sul mare. Dell'antica rocca nelle saline sono ancor oggi visibili le fondamenta.
La vicenda del sistema dei castra federiciani urbani in Romagna ‒ che pure ebbe una durata brevissima, meno di un decennio ‒ pare avere avuto una primaria rilevanza nell'esportazione a nord degli Appennini dei sistemi di organizzazione del territorio elaborati nel Regno del Sud. Rappresenta infatti la prima coerente applicazione nell'Italia del Centro-Nord di forme di controllo materiale e urbanistico delle città che aveva avuto la sua prima espressione nella penisola italiana nell'ambito del Regno normanno-svevo. Il sistema adottato da Federico II in Romagna non poté che costituire un modello, in un primo tempo per i bolognesi che ereditarono direttamente il controllo della regione e che si impegnarono essi pure nella costruzione di fortilizi urbani, e fu poi destinato a essere accolto dalle realtà politiche in espansione dell'Italia del Centro-Nord e a divenire un sistema comune di assoggettamento delle città dominate dalla seconda metà del Duecento in poi.
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