castello [plur. anche castella]
Il termine, nel suo significato proprio, ricorre una sola volta in prosa (CV III X 8 è simigliante a l'opera di quello savio guerrero che combatte lo castello da uno lato per levare la difesa da l'altro), e sei nella Commedia. Indica la dimora degli spiriti magni del Limbo, in If IV 106 Venimmo al piè d'un nobile castello; doveva essere, secondo il Porena, " di quelli in cui le mura ricingevano uno spazio scoperto, simile al castrum romano da cui derivò il nome di castello ". Per il significato allegorico, v. oltre.
Al plurale la parola ricorre in due similitudini: lf XV 8 e quali Padoan lungo la Brenta, / per difender lor ville e lor castelli / ... a tale imagine eran fatti quelli; XVIII 11 Quale, dove per guardia de le mura / più e più fossi cingon li castelli / ... tale imagine quivi facean quelli. Ancora al plurale, nella forma ‛ castella ' (cfr. i glossari di Schiaffini, Testi, e Castellani, Nuovi testi): If XXII 8 con tamburi e con cenni di castella, cioè " con segnali fatti con fuoco o fumo dall'alto delle torri ", e XXXIII 86 se 'l conte Ugolino aveva voce / d'aver tradita te de le castella. Il castello di lf XVIII 32 è Castel s. Angelo.
Infine, nel Fiore, 24 volte indica allegoricamente il c. edificato da Gelosia per custodirvi Bellaccoglienza: XXVIII 1, XXIX 1, 8 e 10, XXX 1, LI 2, LXXI 10, LXXIV 1, LXXVI 10, LXXVIII 7, LXXXII 3, LXXXIII 7, CXII 14, CXXI 5, CXXIV 1, CXXVII 14, CLXXVI 5, CCXX 10, CCXXII 2 e 10, CCXXIII 3, CCXXV 8 e 10, CCXXVI 1.
Il Nobile Castello. Percorrendo il Limbo verso la zona dominata dal foco / ch'emisperio di tenebre vinciti (If IV 68-69) D., in compagnia di Virgilio, Omero, Ovidio, Orazio e Lucano, arriva al piè d'un nobile castello, / sette volte cerchiato d'alte mura, / difeso intorno d'un bel fiumicello (vv. 106-108). Passato il fiume come fosse terra dura, entra attraverso sette successive porte all'interno del c., ove in un prato di fresca verdura vede gente con occhi tardi e gravi, e sembiante di grande autorità, che parlava rado, con voci soavi (vv. 109 ss.). Sono gli spiriti magni dell'antichità, suddivisi grosso modo in due schiere: personaggi storici e mitologici, quasi tutti collegati alla storia di Roma, molti cantati nell'Iliade e nell'Eneide (Ettore, Enea, Cesare, Camilla, Pantasilea, Latino, Lavinia, Bruto maggiore, Lucrezia, Giulia, Marzia, Cornelia, e il Saladino, solitario e appartato quest'ultimo appunto perché estraneo all'epoca romana), filosofi, scienziati, poeti (Aristotele, Socrate, Platone, Democrito, Diogene, Anassagora, Talete, Empedocle, Eraclito, Zenone, Averroè, Dioscoride, Orfeo, Cicerone, Seneca, Lino, Tolomeo, Ippocrate, Avicenna, Galeno, Euclide).
Già Virgilio, nel VI dell'Eneide, aveva collocato gli eroi, i vati, i benemeriti della patria, in una plaga luminosa dell'Eliso (" largior hic campos aether et lumine vestit / purpureo ", vv. 640-641) e immaginato il Tartaro chiuso entro mura circondate da un fiume (" moenia lata videt triplici circumdata muro, / quae rapidus flammis ambit torrentibus amnis ", vv. 549-550). Non è tuttavia difficile cogliere, entro queste generiche somiglianze, differenze sensibili tra la raffigurazione dantesca e quella virgiliana. A parte la non coincidenza dei particolari strutturali e descrittivi, in Virgilio, accanto al motivo guerresco ed eroico, e a quello artistico (" Phoebo digna locuti ") si pone dominante un interesse morale (" sacerdotes casti ", " pii vates "), mentre D. celebra negli spiriti magni soprattutto l'intelligenza umana; e poi Virgilio intende l'Eliso come luogo di purificazione che le anime• un giorno abbandoneranno, D. dà invece al Limbo, e quindi anche al c., natura di eterno esilio e ne raffigura gli abitanti non già banchettanti e gioiosi, come troviamo in Virgilio (" per herbam / vescentis laetumque choro poeana canentis "), ma pensosi e malinconici per una speranza saputa irrealizzabile.
Quali altre probabili fonti sono stati additati il De Genio Socratis di Plutarco, opera nota già ad Ambrogio, Agostino, Boezio, e che potè arrivare a D. attraverso qualche florilegio tradotto in latino; l' Axioco pseudoplatonico, forse reperito da D. in raccolte di excerpta escatologici o in traduzioni di estratti dossografici; la Storia vera di Luciano, autore che invero D. non conobbe, ma del quale è pensabile abbia ricevuto qualche notizia per i misteriosi canali della tradizione orale; le Lettere a Lucilio (LXXXII 4) e il De Vita beata (XXII 3) di Seneca; l'Anticlaudianus (I 55 ss., di Alano di Lilla; il De Consolatione philosophiae (I III 49) di Boezio.
Suggerimenti figurativi erano ricavabili anche dalla letteratura cortese, come dal Trattato d'Amore di Andrea Cappellano (" fertur enim et est verum, in medio mundi constructum esse palatium quattuor ornatissimas habens facies, et in facie quolibet est porta pulcherrima valde "), dal Château d'Amur di Roberto Grossatesta, dal Roman de la Rose, dall'Intelligenza (strofa 60 ss.).
Singolari concordanze sono state inoltre segnalate con la fortezza Kang della leggenda medievale iranica, una di quelle leggende largamente diffuse in occidente ai tempi di Dante.
Quanto all'allegoria generale i commentatori antichi si dimostrano per lo più concordi nel ritenere che il c. simboleggi la filosofia o la scienza umana, accessibile anche ai pagani: " nam sapientia ad modum munitissimae arcis tuetur hominem contra incommoda naturae, adversae fortunae, vicia et ignorantiam, cum quibus habet continuo acerrimum bellum " (Benvenuto). Molto più difficile riuscì ad essi di stabilire il valore allegorico dei singoli particolari e la funzione reciproca che essi assolvono all'interno della rappresentazione. Per alcuni le sette mura rappresentano le sette arti liberali del Trivio e del Quadrivio necessarie all'acquisto della scienza (Iacopo, Graziolo de' Bambaglioli, Lana, Ottimo, Benvenuto, Anonimo, Vellutello). Il Buti pensa alle sette arti meccaniche quanto agli esercizi del corpo, e alle sette scienze liberali quanto all'esercizio delle anime; il Landino alle virtù che difendono la fama (tre morali: giustizia, fortezza e temperanza; una attiva: prudenza; tre speculative: intelligenza, scienza e sapienza). Contro quest'ultima interpretazione si fa però notare che per D. le virtù morali sono undici (cfr. Cv IV XVII 4-7, e anche III II 15).
Le sette porte sono talora anch'esse intese come le sette arti liberali (Boccaccio), ma più comunemente come i principi di esse (Benvenuto, Anonimo, Serravalle, Vellutello). Pietro avanza la proposta che esse rappresentino le sette parti della filosofia naturale e morale, e cioè la fisica, la metafisica, l'etica, la politica, l'economia, la matematica e la sillogistica o dialettica.
Molto varie si dimostrano le opinioni degli esegeti antichi anche riguardo al fiumicello, che ora è la diligenza messa in opera per ottenere la virtù (Chiose anonime), ora la disposizione e l'abito dell'intelletto umano alle scienze (Lana, Pietro), ora il complesso dei labili e caduchi beni temporali, la vanitas mundi impedimento alla scienza (Boccaccio), ora, all'opposto, l'abbondanza delle ricchezze che sono necessarie a chi vuol dedicarsi agli studi (Buti), ora infine la facondia, l'eloquenza, il buon uso della parola, doti inseparabili dal sapere (Landino, Vellutello, Daniello, Gelli).
Ma l'argomento di maggior contrasto tra gl'interpreti medievali e rinascimentali è il passaggio di D. e dei suoi compagni sul fiumicello come su ‛ terra dura '. L'Ottimo chiosa: " il quale fiumicello passò lievemente, e per questo vuoi mostrare che scienziati erano, e che entrarono per tutte e sette liberali arti "; Pietro spiega: " Et dicit quod dictum fluvium transierunt ut terram solidam, idest quod affectus doctrinae iam in eis solidatus erat, et sic absque labore transibant ". Coloro che affidano all'acqua scorrente il compito di simboleggiare le cose terrene spiegano il fatto come segno di superiorità del saggio sulle ricchezze e sugli onori: egli le calpesta (Guido da Pisa, Anonimo), sottomette a sé la vanità e la fortuna (Serravalle), non si lascia influenzare dalle cose temporali (Boccaccio). Chi si ferma alla persuasione che il fiumicello denoti l'eloquenza tenta di spiegare la facilità del passaggio sulle acque da parte dei saggi sostenendo che in questi l'eloquenza " è stabile, et durabile " (Landino), o che di essa gli spiriti magni possono fare a meno: " E moralmente non debbe chi va speculando profondarsi in eloquentia, ma da quella stenersi e passar oltra, fino a tanto che sia professo da poterne e saperne usare " (Vellutello). A titolo informativo riportiamo per ultima la tesi del canonico D. Strocchi (postille all'edizione del poema curata da G. Fanelli, Pistoia 1838, t. II), secondo cui l'espressione di D. si riferisce a un guado presso Albano detto ‛ di terra dura ' ricordato nella Vita d'Ezzelino di Pietro Gerardo.
Gli studiosi moderni si tengono in una posizione più cauta di fronte alla complessa figurazione dantesca e ne considerano attentamente gli elementi diversi nel tentativo di conciliarli in un'unica e coerente soluzione. In genere, tenuto presente che per la ‛ fresca verdura ' si aggirano, accanto ai poeti e ai filosofi, che potrebbero rientrare nella categoria dei sapienti, anche uomini politici ed eroi dell'azione, sono propensi a fare del c. l'emblema non della scienza, ma dell'umana nobiltà, come suggerì il Giuliani e vigorosamente sostenne il Pellegrini, quella nobiltà che è perfezione di propria natura in ciascuna cosa (Cv IV XVI 4) e che gli spiriti magni ottennero con l'esercizio delle virtù morali e intellettuali ad essi concesse (quivi sto io con quei che le tre sante / virtù non si vestiro, e santa vizio / conobber l'altre e seguir tutte quante, Pg VII 34-36); o ancor meglio l'emblema della megalopsichia, della magnanimità, qualifica morale ben precisa e derivata dall'Etica nicomachea - come ha dimostrato il Forti - che contrassegna gli spiriti meritevoli e consapevoli della loro grandezza, delle loro attitudini a compiere in campi diversi alte e gloriose imprese (anche in Virgilio: " quique sui memores alios fecere merendo ", Aen. VI 664).
Pertanto è probabile che le sette mura vadano interpretate secondo la già riferita opinione del Landino, largamente condivisa (Lombardi, Andreoli, Rossetti, Fraticelli, Giuliani, Poletto, Berthier, Torraca, Scarano, Venturi, Pietrobono, Vandelli, Vitali, Momigliano, Chimenz, Gmelin), e che le sette porte non abbiano una precisa significazione simbolica, essendo elementi funzionalmente connessi con l'immagine delle mura, analogamente a quanto può affermarsi del fossato pieno d'acqua, mezzo comunissimo di difesa attorno alle fortezze medievali. Del resto tutta la rappresentazione dantesca mira a rendere plasticamente la difficoltà della strada alla magnanimità come anche, in armonia con una concezione spiccatamente medievale, a isolare i grandi dell'antichità, a metterli in un luogo separato ed eccelso. Il c. dove si raccoglie l'umana intelligenza, quale appare ai nostri occhi sette volte cerchiato d'alte mura, / difeso intorno d'un bel fiumicello (If IV 107-108), desta l'idea di una rocca munita che respinga da sé gli uomini comuni, anche se privi di colpe (poco prima alla onranza, alla onrata nominanza era stato riconosciuto il merito di acquistare in cielo grazia ai poeti e di ‛ dipartirli ' dal modo de li altri, vv. 74-76) e accolga soltanto gli spiriti magni. Assai interessante in questo senso risulta perciò la proposta del Pagliaro, di vedere cioè nel fiumicello il prestigio, il mito che circonda le alte personificazioni della virtù e le separa dalla massa anonima, prestigio e mito che per i quattro poeti antichi e D. non costituisce motivo di timidezza o di allontanamento, poiché per essi la fama si concreta in una conoscenza sicura e fondata.
Per quanto poi concerne il problema specifico dell'umanesimo pagano celebrato da D. negli spiriti magni, un " humanisme trop humain " per dirla col Renaudet, splendente di una luce propria, ma pur sempre chiuso e oppresso da una densa barriera di tenebre e immalinconito da uno struggente senso del limite, v. LIMBO.
Bibl. - G.B. Giuliani, Metodo di commentare la Commedia di D., Firenze 1861; P. Fanfani, La terra dura di D., in Studi ed osservazioni sopra il testo delle opere di D., ibid. 1873; T. Bottagisio, Il limbo dantesco, Padova 1898; E. Proto, Note al " Convivio " dantesco: Le ricchezze e la scienza, in " Giorn. stor. " LXV (1915) 199-262; F. Pellegrini, L'allégorie du " Nobile C. " dans les Limbes dantesques, in " Nouvelle Revue d'Italie " XVIII (1921) 176-184; G. Getto, Aspetti della poesia di D., Firenze 1947, 47-118; R.A. Gauthier, Magnanimité. L'idéal de la grandeur dans la philosophie paienne et dans la théologie chrétienne, Parigi 1951; A. Renaudet, Philosophes et savants antiques au château de la noblesse humaine, in D. humaniste, ibid. 1952, 105-146; H. Gmelin, Der IV Gesang des Inferno, Aus einem neuen Gasamtkommentar der Gottlichen Komódie, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXXI-XXXII (1953) 66-88; S.A. Chimenz - A. Renaudet, Il IV canto dell'Inferno, Roma 1954; K. Reichenberger, Zum " Nobile c. ", in " Germanisch-Romanische Monatsschrift " V (1955) 337-345; E.R. Curtius, La littérature européenne et le moyen âge latin, Parigi 1956, 240-242; C. Grabher, Il Limbo e il nobile c., in " Studi d. " XXIX (1960) 41-60; F. Forti, Il limbo dantesco e i megalopsicoi dell'Etica nicomachea, in " Giorn. stor. " LXXVIII (1961) 339-364, ora in Fra le carte dei poeti, Milano-Napoli 1965, 9-40; F. Mazzoni, Il canto IV dell'Inferno, in " Studi d. " XLII (1965) 158-168, 170-171; Pagliaro, Ulisse 496-501; Q. Cataudella, Fonti classiche della concezione dantesca del nobile c., in Atti del convegno di studi su D. e la Magna Curia, Palermo 1967, 505-518; G. Paparelli, Questioni dantesche, Napoli 1967, 120 ss.