CASTELSEPRIO
(Flavia Sibrium, Sibrie nei docc. medievali)
Località della Lombardia settentrionale in prov. di Varese, già abitata dai Galli Insubri, C. è ricordata per la prima volta nelle fonti scritte tra i secc. 7° e 8° come tappa di un itinerario che collegava Como a Novara (Anonimo Ravennate, Cosmographia, IV, 30; Guido da Pisa, Geographica, 15). Dal punto di vista topografico il complesso insediativo si sviluppa su più dossi collegati tra loro; su quello principale, delimitato da una cinta muraria in gran parte conservata nel suo perimetro, sorge il castrum, al cui interno si conservano interessanti vestigia di epoca tardoantica e altomedievale. A E, dalla cinta si diparte un muraglione in ciottoli che scende a valle raccordandosi al possente torrione costruito a controllo del punto di passaggio obbligato della strada per Porto Ceresio e il lago di Lugano e in seguito inglobato nel complesso monastico altomedievale di Torba (v.).Il castrum e la chiesa di S. Maria foris portas, situata su un dosso adiacente, costituiscono, con Torba, le principali attrattive dell'area archeologica in quanto l'esteso borgo, che occupava i dossi contigui, non è ancora stato indagato ed è sepolto dalla vegetazione.Mancano - sulla collina del castello - tracce di occupazione romana, ma i materiali lapidei, talora con iscrizioni, reimpiegati nelle murature della fortezza hanno fatto ritenere probabile l'esistenza non lontano (forse a Vicoseprio) di un centro romanizzato (Calderini, 1956; Lusuardi Siena, 1979-1983). È del resto sempre più chiaro, con il proseguimento delle indagini archeologiche nel territorio circostante, che C. si inserisce in una fitta maglia di abitati romani che in età tardoantica ebbero il loro punto di riferimento strategico, anche a protezione della popolazione, proprio nel castrum di Sibrium.Sorta forse nel sec. 5° e senza dubbio pienamente organizzata in epoca gota, periodo al quale sembra risalire la cinta muraria, l'ampia fortezza, dotata di edifici di culto e strutture abitative, assunse per tutto l'Alto Medioevo un ruolo di primo piano nelle vicende politiche della regione.In età longobarda il luogo, ricordato come Flavia Sibrium su tremissi di Desiderio, fu centro di un ampio distretto (iudiciaria) che si estendeva all'incirca da Parabiago fino al monte Ceneri comprendendo il lago di Lugano e la Val d'Intelvi e incuneandosi tra il lago di Como e il lago Maggiore.Dopo il consolidamento della conquista longobarda C. sembra perdere, almeno in parte, il suo carattere di centro difensivo evolvendosi in centro protourbano. Le torri, in parte dirute, vengono trasformate in abitazioni e nuove case si appoggiano alla cinta muraria o addirittura la scavalcano, dove questa è abbattuta, estendendosi fino al limite del pianoro. Dal sec. 7° l'antico castrum si avviò a diventare un centro a base economica prevalentemente agricola, ma anche con notevoli tracce di attività artigianali (lavorazione dei metalli e forse della pietra ollare).In età carolingia C. fu sede comitale. Dal sec. 10° il suo territorio fu interessato da frazionamenti e trasformazioni che rispecchiano l'instabilità politica e le rivalità tra Como e Milano. Esauritasi nel sec. 12° la dinastia dei conti del Seprio, si incrementò la decadenza di C., che si concluse con la distruzione del castello nel 1287 a opera dell'arcivescovo di Milano Ottone Visconti. Gli edifici religiosi furono risparmiati e continuarono a essere frequentati, anche se talora in condizioni precarie, fino al Settecento. Nel 1582 tuttavia il trasferimento della sede plebana da C. a Carnago segnò l'avvio del processo di declino e rovina degli edifici.Dal periodo postlongobardo fino alla distruzione del castello, le informazioni che si possono desumere dagli scavi sono ancora molto ridotte per la persistente difficoltà di datare con sicurezza gli strati a causa della scarsa conoscenza dei materiali d'uso di età carolingia e ottoniana. Recenti scoperte mettono tuttavia in evidenza la presenza di numerose abitazioni sia nel quartiere sudoccidentale all'interno delle mura sia nell'area circostante il complesso monumentale costituito dalla chiesa di S. Giovanni Evangelista con il battistero e la cisterna e dalla chiesa di S. Paolo (Lusuardi Siena, Brogiolo, 1982).Si ritiene che il nucleo più antico della fortificazione prevedesse solo le tre torri quadrangolari interne, tuttora visibili nell'area centrale del castrum, e che la cinta muraria, con il suo sviluppo in lunghezza di m. 900 ca., sia stata costruita solo tra i secc. 5° e 6°, lungo una curva di livello a m. 350 ca. di quota.I lavori di scavo e il rilevamento della cortina, attualmente in corso a opera della Soprintendenza archeologica della Lombardia, potrebbero consentire presto di avere una più precisa idea di insieme sulle caratteristiche strutturali e l'andamento planimetrico della muratura, che ha conosciuto nel corso dei secoli numerosi rifacimenti a causa delle frequenti frane dei margini del pianoro. Attualmente sono visibili, in fondazione e nella parte inferiore dell'alzato, ampi tratti del settore meridionale e sudorientale del castrum, oltre all'ingresso, posto a O, del quale restano i pilastri di sostegno del ponte e un semitorrione rotondo di cui si ignorano i raccordi con la restante cortina. Le mura, realizzate con l'impiego prevalente di ciottoli legati da malta e con blocchi litici romani di reimpiego, hanno spessore variabile (da m. 1,60 a m. 2,20) e sono marcate, a distanze regolari (m. 30-35 ca.), da torri quadrate. A S-O è riconoscibile un torrione angolare di grandi dimensioni, in parte franato a valle già in età longobarda, quando fu trasformato a uso abitativo; altre torri quadrate più piccole sono conservate lungo uno sperone del pianoro che custodisce al suo interno i resti di una grande costruzione quadrangolare, la c.d. casa-torre, forse di origine tardoantica, ma con rifacimenti bassomedievali. Recentemente sono stati individuati alcuni blocchi delle mura che conservano, sul lato interno, tracce di un motivo ad arco cieco (Surace, 1990).Il complesso di S. Giovanni Evangelista comprende, allo stato di rudere, la basilica con l'annesso battistero e una delle torri del primitivo impianto fortificato; a S della chiesa è installata un'ampia cisterna internamente rivestita di cocciopesto, destinata a raccogliere le acque di gronda della chiesa, della quale è sostanzialmente coeva.L'edificio di culto, orientato, è a tre navate su pilastri, biabsidato; l'aula misura internamente, dall'attacco dell'abside alla facciata, m. 2214; l'abside centrale presenta due ordini sovrapposti di tre finestre centinate, con ghiera in laterizio, tamponate in epoca postmedievale. L'absidiola che conclude la navata destra, con pianta a ferro di cavallo, risulta addossata all'abside centrale, forse in età carolingia. In testa alla navata sinistra si apre un piccolo vano rettangolare d'accesso al battistero che costituisce il punto di raccordo dei due edifici. Le murature della chiesa risultano scandite all'esterno da una serie di paraste distanziate di m. 4; nelle absidi le lunghe paraste a lieve risalto sono fondate su risega. La struttura muraria, come nell'adiacente battistero, vede l'impiego prevalente di ciottoli fluviali disposti in corsi irregolari e legati da malta; sono presenti tuttavia anche materiali eterogenei di reimpiego: blocchi di tufo e di granito, qualche laterizio e frammenti di cocciopesto. Le ghiere delle finestre absidali sono realizzate con mattoni lunghi e sottili; negli intradossi doveva svilupparsi in origine una decorazione pittorica a girali vegetali con frutti verdi e rossi, di cui l'unico lacerto sopravvissuto (Bognetti, Chierici, de Capitani D'Arzago, 1948, p. 114, tav. Vd) è malauguratamente scomparso in anni recenti.Dell'arredo interno resta solo un pluteo in marmo assegnato al sec. 7° (Gallarate, Mus. d'Arte Sacra della Collegiata di S. Maria Assunta), mentre un capitellino di pergula o di ciborio del sec. 8°-9° (Bognetti, Chierici, de Capitani D'Arzago, 1948, tav. VIb) risulta ora disperso. Dalle visite pastorali si apprende che nel Cinquecento l'edificio era ancora ornato internamente di affreschi ritenuti anteriori al Mille e che era fornito di un pergulum.Per la definizione delle fasi edilizie della chiesa si dispone di pochi dati desunti da parziali esplorazioni compiute negli anni Sessanta all'interno dell'aula e all'esterno dell'abside centrale. Preziosi dati furono invece perduti quando, negli anni Cinquanta, i resti della chiesa vennero liberati dalla vegetazione e dalle macerie fino alla quota presunta del pavimento (Milano, Soprintendenza archeologica della Lombardia, Arch., relazione del 1954-1955).In attesa di ulteriori accertamenti archeologici che consentano di precisare la data del primo impianto di culto, anche in relazione con l'origine stessa del castrum, si può fare riferimento all'ipotesi comunemente accolta di Mirabella Roberti (1962), che individua nelle vicende edilizie della chiesa almeno tre fasi: nella prima, riferibile al sec. 5°, l'edificio avrebbe avuto pianta rettangolare, come nei modelli basilicali adriatico-orientali, con il battistero ottagonale; in un secondo momento, forse agli inizi del sec. 7°, l'aula sarebbe stata tripartita con l'inserzione di pilastri e si sarebbe aggiunta - in parziale aderenza al perimetro del battistero - la grande abside, creando nell'area antistante un ampio spazio presbiteriale definito da muretti su cui dovevano poggiare plutei; successivamente, forse in età carolingia, sarebbe stata costruita l'absidiola meridionale. L'attribuzione all'età longobarda dell'abside centrale è confortata dal fatto che essa venne costruita obliterando una grande fossa-focolare, i cui materiali d'uso più tardi raggiungono il sec. 6° (Brogiolo, Lusuardi Siena, 1980).Anche il ritrovamento, entro lo spessore del muro di facciata, di un loculo sepolcrale, con oggetti appartenenti a un individuo longobardo di rango, suggerisce di attribuire a questo periodo una significativa ristrutturazione della chiesa (Lusuardi Siena, Sesino, 1987-1988). Una seconda sepoltura, individuata davanti al presbiterio e assegnata preliminarmente al sec. 7° per la presenza di una borchia dorata (Mirabella Roberti, 1962), è stata in seguito più correttamente riferita al sec. 10° (Peroni, 1981) e prova, insieme ad altre inumazioni bassomedievali costruite all'interno della chiesa, il lungo utilizzo dell'edificio come luogo di sepoltura per personaggi di rango.L'adiacente battistero paleocristiano è un edificio ottagonale (larghezza m. 7,80) con absidiola sul lato orientale. Ogni lato misura m. 3 ca. e ha gli spigoli marcati da paraste. All'interno, sull'asse, è il fonte ottagonale, a immersione, rivestito in lastre marmoree; esso è affiancato da una vasca rotonda, rivestita in cocciopesto e destinata con ogni probabilità a conservare l'acqua per il rito. Restano lacerti dell'originario pavimento in opus sectile bianco e nero, tipo ben documentato negli edifici di culto dei secc. 4°-6° dell'area lombarda, e uno zoccolo in pietra con incassi destinato a sostenere un arredo liturgico. Il battistero, mai oggetto di indagini archeologiche sistematiche, è assegnato per le caratteristiche planimetriche e architettoniche al 5°-6° secolo.Regolari campagne di scavo condotte a partire dal 1985 hanno permesso di riconoscere nell'area a N di S. Giovanni un nucleo residenziale con strutture utilitarie risalenti all'epoca bassomedievale e utilizzate anche dopo la distruzione del castrum nel 1287, fino all'abbandono definitivo in epoca tardorinascimentale (Brogiolo, 1985; 1987; Castelseprio, 1988-1989, pp. 181-182). Le strutture meglio indagate appartengono alla casa dei canonici e a un altro edificio a tre vani, costruiti ai lati opposti dello spiazzo che si apriva a N della chiesa.Gli edifici erano uniti tra loro e alla chiesa da un muro di cinta che delimitava il complesso. Altre costruzioni monovano sono state individuate nell'area, ma per esse mancano ancora elementi sicuri di interpretazione sia cronologica sia funzionale; si segnala l'edificio III, a pianta quadrata con massicci muri legati da malta, contraffortati sul lato sud e forniti di due ingressi, a S e a E, marcati da grandi lastre monolitiche; al centro del locale una pietra squadrata con un solco circolare doveva costituire l'appoggio di un palo ligneo destinato a sostenere il soffitto, come nella casa medievale del quartiere sudoccidentale.La chiesa di S. Paolo, ridotta anch'essa allo stato di rudere, è pressoché priva di indagini archeologiche; è di impianto esagonale (larghezza m. 8,52) con abside sul lato orientale poco aggettante. La muratura perimetrale ha nucleo a sacco di ciottoli e paramento pure in ciottoli con elementi in serizzo. L'abside è scandita da cinque lesene che si alzano da una risega a cm. 90 ca. dal piano di campagna. L'abside doveva disporre di tre monofore a doppio strombo di cui restano scarse tracce. L'interno è ricostruibile grazie alla descrizione fornita dalle visite pastorali tra il 16° e il 18° secolo. Da queste risulta che internamente l'edificio disponeva di sei colonne, di deambulatorio coperto da volte a crociera e di un loggiato superiore raggiungibile grazie a una scala ricavata nello spessore del muro perimetrale. Delle colonne inferiori sono state in parte individuate le fondazioni, che consentono di ricostruire un intercolumnio di m. 5 circa. Gli atti delle visite pastorali fanno cenno all'esistenza di acqua sorgente sotto la chiesa, il che ha fatto talora pensare che l'edificio, attribuito al sec. 11°, sia sorto sui resti di una fonte sacra o di un ninfeo tardoromano, come quello, pure esagonale, di Pombia (prov. Novara).Dal punto di vista architettonico sono stati sottolineati i legami di S. Paolo con i battisteri di S. Tomè di Almenno San Bartolomeo (prov. Bergamo) e del S. Giovanni di Arsago Seprio, mentre per la pianta esagonale il raffronto più significativo sembra quello con il battistero di Varese, che Reggiori (1948) colloca tra l'8° e il 10° secolo.La casa medievale tra le mura di S-O e la porta del castrum è una costruzione a più vani, non ancora interamente esplorata, posta ai margini del quartiere residenziale indagato nel 1962-1963 e a sua volta inserita in un più esteso nucleo abitativo (Castelseprio, 1978-1979). L'edificio si compone di due vani rettangolari adiacenti a un'ampia area trapezoidale, in un angolo della quale è stato ricavato un ambiente di servizio. Tre solidi basamenti per pali e una scala in pietra indicano che su quest'area, in parte scoperta, doveva aprirsi un secondo piano. Nell'indagine stratigrafica sono stati individuati gli strati di crollo del tetto in coppi e dell'elevato, almeno in parte, in ciottoli fluviali. Sul più recente piano d'uso in argilla dell'area trapezoidale sono stati recuperati frammenti ceramici e vitrei riferibili ai secc. 12°-13°, che consentono di riferire quest'abitazione all'ultima fase di vita del castello. Si ignora il momento di costruzione dell'edificio, comunque posteriore a uno strato di incendio riscontrabile in più punti di quest'area del castrum e riferito all'età longobarda (Lusuardi Siena, 1984).La cascina-monastero di S. Giovanni sorge sullo sperone sudorientale del castrum ed è destinata a diventare l'antiquarium del parco archeologico di Castelseprio. Probabile convento degli Umiliati nel sec. 13°, poi passato ai Francescani, che ne modificarono in parte l'assetto tra i secc. 16° e 17°, il complesso ha sviluppo quadrato delimitato da un muro di cinta; comprende alcuni ambienti disposti lungo un ampio cortile e ingloba una chiesa duecentesca, ad aula quadrata con abside quadrata coperta a crociera, che conserva affreschi del 15° secolo. Alcuni sondaggi stratigrafici hanno accertato che la chiesa si è impostata su un'area già occupata da edifici di età longobarda (Castelseprio, 1988-1989; Surace, 1990).
La chiesa, costruita sulla pendenza sudorientale di un dosso, a O del castrum e fuori dalla sua cinta, consta di un'aula rettangolare (m. 9,606,30 ca.) sulla quale si aprono tre absidi semicircolari ad arco oltrepassato (quello orientale di dimensioni leggermente più ampie), preceduta da un atrio di altezza inferiore. L'abside orientale, originale, conserva un importante ciclo di affreschi; le altre due sono state ricostruite, sulle primitive fondazioni, durante i restauri condotti nel primo dopoguerra. Nelle pareti nord e sud dell'aula si aprono otto finestre 'a fungo' su due ordini; ciascuna delle absidi doveva invece disporre di tre ampie finestre con archivolto tangente alle spalle, come quella centrale conservatasi intatta nell'abside orientale, con spalle che si aprono leggermente verso l'esterno. Due finestre per dimensioni e profilo simili a quelle dell'abside si aprono in facciata, al di sopra del tetto dell'atrio. La forma 'a fungo' caratterizza anche le aperture che mettono in collegamento l'aula con le absidi. All'esterno ciascuna di esse è scandita da quattro lesene rastremate all'estremità superiore nel senso della profondità. Sporgenze simili a contrafforti si osservano anche in corrispondenza delle estremità dell'aula, ma non sono in realtà che il prolungamento esterno delle pareti est e ovest.L'atrio che precede la chiesa (larghezza m. 6,50, profondità m. 4,50 ca.) ha murature dello stesso spessore di quelle dell'aula ed è caratterizzato da quattro lesene poste a due a due sugli spigoli della facciata. Nella parete meridionale sono visibili, benché tamponate, una porta e, ai lati, due finestre; analoghe aperture dovevano trovarsi in origine sulla facciata (restano solo tracce delle spalle delle finestre), mentre la parete nord è cieca. Come nell'aula, anche nell'atrio le aperture hanno forma 'a fungo' con archivolto in tufo e spalle in pietre sbozzate. Le murature della chiesa sono in opera incerta di ciottoli e trovanti; le fondazioni, individuate nel corso degli scavi, sono realizzate con grandi ciottoli fluviali disposti nell'argilla in due file. L'analisi archeologica e degli alzati ha confermato che aula, absidi e atrio sono stati costruiti con un'operazione unitaria. Dell'originaria pavimentazione in opus sectile resta ora solo un ampio lacerto nel settore nordoccidentale dell'aula: il tessellato, realizzato con piastrelle in bianco di Musso e nero di Varenna, ripropone i classici motivi a triangoli ed esagoni, separati da fasce rettilinee di lastrine rettangolari, ben documentati nell'edilizia sacra paleocristiana della diocesi mediolanense e nello stesso castrum sepriese (battistero di S. Giovanni).Assai dibattute sono la cronologia e la funzione originaria di S. Maria, la cui problematica architettonica non è mai stata disgiunta da quella dello straordinario ciclo di affreschi, lungamente considerato coevo al primo impianto di culto. Le ampie oscillazioni cronologiche che hanno interessato le pitture hanno quindi inevitabilmente coinvolto l'architettura dell'edificio, assegnato ora ai secc. 5°-6°, ora al 7°-8° per arrivare fino al 9° secolo.Per quanto riguarda la datazione dell'edificio, nuovi elementi di valutazione sono offerti dagli scavi archeologici condotti all'interno e all'esterno della chiesa in previsione dei restauri alle murature e agli affreschi. Anche se non è ancora disponibile la pubblicazione definitiva dei risultati, le pur sintetiche relazioni preliminari, integrate da quella definitiva sulle malte e gli intonaci riconosciuti sulla parete absidale orientale, consentono di fissare alcuni punti fermi nella evoluzione dell'edificio.La sequenza stratigrafica individuata (Carver, 1986; Brogiolo, 1987) si articola in sei principali periodi, il più antico dei quali (sec. 6° a.C.) è già riferibile a un uso cimiteriale (cremazioni) dell'area su cui è sorta S. Maria. Seguono, dopo un lungo intervallo di tempo, apparentemente privo di tracce di frequentazione, le attività di costruzione della chiesa (periodo II) e una prima fase di sviluppo di sepolture (periodo III); il periodo IV vede l'addossamento di annessi a N e a O della chiesa e l'incremento delle tombe all'esterno dell'edificio, intorno a una grande sepoltura privilegiata, assegnata al sec. 10° e fornita di una grande lastra di copertura con incisa una croce a spada. Tale sepolcro, rinvenuto purtroppo già depredato, risulta inserito in profondità presso le fondazioni dell'annesso nord (di incerta destinazione; potrebbe trattarsi di un campanile) e segna il momento più antico del secondo periodo di sviluppo del sepolcreto, nel quale sono state riconosciute diverse serie di inumazioni con probabile valore cronologico (nell'ordine: tombe con copertura in lastre di serizzo; tombe internamente dipinte di rosso con copertura in lastre di pietra tenera scura; tombe terragne talora recintate da file di pietre disposte a coltello). Nel periodo V, tra i secc. 10° e 13°, viene collocata l'escavazione di un grande fossato difensivo intorno alla chiesa (larghezza m. 5), mentre il periodo VI comprende attività tardo e postmedievali, tra cui la costruzione di un locale di servizio presso l'abside orientale (Carver, 1986; Brogiolo, 1987).Accertata dunque la sequenza stratigrafica, resta aperto il problema della cronologia assoluta delle diverse fasi, soprattutto dei periodi II-IV, per i quali mancano reperti in grado di fornire un supporto temporale sicuro. Le proposte interpretative si sono affidate in gran parte ai risultati di alcune analisi scientifiche condotte su campioni lignei e laterizi. Questi i dati editi: la termoluminescenza di frammenti laterizi prelevati dal cocciopesto preparatorio dell'opus sectile pavimentale della chiesa ha fornito una data al 787 ± 65 (Castelseprio, 1987); la termoluminescenza su otto tegoloni murati nel timpano e ritenuti coevi al primitivo impianto ha fornito una data media dell'828 (Ricerche, 1985; Santa Maria Foris Portas, 1987-1988); il risultato dell'analisi al carbonio 14 di una trave lignea inglobata nella muratura è 865 ± 87 (Leveto-Jabr, 1987), mentre quello della bara individuata nella sepoltura monumentale con lastra incisa ha dato come termine il 975 ± 75 (Bertelli, 1988, p. 894). Alla luce di questi risultati sembra essersi consolidata l'opinione che l'edificio sia sorto nella prima età carolingia e che alcuni decenni più tardi, tra l'841 e l'844, sia stato decorato con il ciclo cristologico, per iniziativa - secondo la recente ipotesi di Bertelli (1988) - del conte del Seprio Giovanni, che avrebbe fatto di S. Maria una cappella palatina presso la sua residenza.In realtà i risultati delle analisi scientifiche non risolvono tutti i dubbi circa la fondazione della chiesa: la datazione al tardo sec. 8° della pavimentazione potrebbe essere significativa solo se si avesse la certezza che il tessellato non abbia subìto rifacimenti e restauri e si potesse escludere che non abbia sostituito un più antico e modesto battuto che sarebbe più in sintonia con il primitivo assetto delle strutture, con muratura a vista priva di qualsiasi rivestimento. La datazione degli embrici di copertura solo con un inevitabile margine di arbitrarietà può essere ritenuta valida anche per l'edificio, dato che il tetto è, in una costruzione, la parte solitamente più soggetta a rifacimenti. La datazione della trave, infine, appare più recente della cronologia proposta per il ciclo di affreschi, che, a sua volta, occupa solo il quarto posto nell'evoluzione dell'assetto dell'abside ricostruito sulla base della stratigrafia degli intonaci. La datazione della bara lignea al sec. 10° offre invece un importante termine ante quem per il periodo IV, ma nulla consente di dedurre circa l'origine della chiesa.Ulteriori perplessità nei confronti della linea interpretativa che pare ora prevalere sono suggerite dai risultati delle analisi sugli intonaci e le malte prelevati durante i restauri dell'abside orientale (Franzini, Gratziu, 1988). Stabilendo che prima della stesura dei celebri affreschi l'abside ebbe tre distinte fasi d'uso e che il ciclo pittorico appartiene a tempi "assai più recenti" di quelli della costruzione dell'edificio, tale analisi rilancia la tesi di un'origine assai antica del luogo di culto. Prima della decorazione del ciclo la chiesa sarebbe stata infatti in funzione inizialmente con muratura a vista, quindi con un'intonacatura grigia più tardi parzialmente ricoperta da una rosata. Quest'ultima avrebbe poi subìto almeno sei operazioni di imbiancatura a calce prima di essere coperta dall'intonaco con le note pitture.Queste nuove indicazioni invitano a riconsiderare con maggior attenzione l'ipotesi di una fondazione tardoantica e longobarda dell'edificio e consentono di valorizzare l'importanza del ritrovamento effettuato alla metà del secolo scorso - all'interno della chiesa - della lastra funeraria con l'iscrizione "Wideramn", un giovane personaggio di rango di stirpe germanica, probabilmente convertitosi dall'arianesimo. L'iscrizione, preceduta da un triplice cristogramma interpretato come riaffermazione del dogma trinitario in funzione antiariana e già assegnata da Bognetti (in Bognetti, Chierici, de Capitani D'Arzago, 1948) al sec. 7° (datazione che gli studiosi non hanno finora corretto), copriva una tomba privilegiata - da cui furono recuperati speroni in rame dorato ora dispersi - inserita sotto il pavimento della chiesa. Trattandosi dell'unica epigrafe altomedievale rinvenuta a C. e non potendosi avanzare ragionevoli dubbi circa la pertinenza della lastra al sepolcro, la possibilità che si tratti di un pezzo allogeno occasionalmente reimpiegato nella chiesa sembra avere assai scarso fondamento. Questo reperto potrebbe dunque costituire la più antica prova dell'utilizzazione funeraria di S. Maria (Lusuardi Siena, Sesino, 1987-1988). La sepoltura di Wideramn, che forse diede l'avvio all'utilizzo sepolcrale della chiesa, potrebbe essere stata inserita in un più antico luogo di culto (forse un martyrium) o in una nuova fondazione con funzione di mausoleo familiare.
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I dipinti murali dell'abside orientale, celati da scialbature e pitture quattro e cinquecentesche, tornarono alla luce nella primavera del 1944, in seguito all'individuazione e alla lettura da parte di Bognetti di alcuni graffiti incisi sull'intonaco antico. Fra i graffiti, in latino, per lo più in lettere capitali, con qualche onciale e forme minuscole, riveste particolare importanza il graffito nel quale ricorre il nome di Arderico. Se in lui è da identificare l'arcivescovo di Milano negli anni 936-948 (Bognetti, 1948), la stesura degli affreschi si avvantaggerebbe di un prezioso terminus ante quem, termine per la verità accolto largamente, se si prescinde da qualche perplessità espressa di recente (Leveto, 1990a, p. 7).La scoperta nella campagna lombarda di pitture dalla sorprendente fisionomia stilistica di radice bizantina fu salutata immediatamente come un evento di eccezionale portata e diede origine a un dibattito critico che può dirsi tuttora aperto su alcune questioni di fondo. Prima fra tutte se le pitture siano da considerarsi "ancora" e non "di nuovo" ellenistiche (Longhi, 1948, p. 46), oppure "di nuovo" ellenistiche. Dall'una o dall'altra di queste interpretazioni derivano interi capitoli della vicenda storiografica su C., in primo luogo il problema della datazione - attestata sui due versanti del prima o del dopo l'iconoclastia - con tutto ciò che ne dipende in termini di contestualizzazione così storica come culturale.Le scene, variamente lacunose, sono disposte su due registri e rappresentano Storie di Cristo. Nel registro superiore, a cominciare dal lato nord sono: l'Annunciazione, la Visitazione, la Prova delle acque amare, il Sogno di Giuseppe (posposto alla scena precedente), il Viaggio a Betlemme. Sulla parete al di sopra dell'arco absidale è raffigurato il Trono vuoto fra due angeli. Il ciclo riprende a destra della curva dell'arco con l'assai articolata Natività di Cristo e l'Adorazione dei Magi. Segue la Presentazione dopo il vano della finestra sud. Una larga lacuna investe la superficie dipinta pertinente agli altri episodi sì da rendere assai problematica persino l'identificazione dei soggetti. Per via induttiva si può pensare che essi fossero compresi fra la Presentazione e il Battesimo (de Capitani D'Arzago, 1948, p. 611); diversamente, in base a una nuova analisi degli scarsi elementi figurativi superstiti, c'è chi ritiene di poter identificare nella scena, stretta fra le finestre est e nord, la Presentazione della Vergine al Tempio; nella seguente forse la Nascita della Vergine; infine, nella scena a destra dell'arco absidale, il Rifiuto delle offerte da parte di Gioacchino. Alla luce di queste ipotetiche ricostruzioni, l'impianto tematico del ciclo perderebbe l'accento spiccatamente cristologico da sempre riconosciutogli per accogliere un'accentuata coloritura mariana (Leveto, 1990a, pp. 169-191; 1990b) non del tutto persuasiva. Nel rapporto fra scelte iconografiche e fonti letterarie si delinea con chiarezza e il ruolo dei vangeli, specie di Luca, e l'apporto assai consistente dei vangeli apocrifi, in particolare del Protovangelo di Giacomo e del Vangelo dello pseudo-Matteo (de Capitani D'Arzago, 1948).Al flusso narrativo proprio delle scene del ciclo si contrappone l'impianto iconico delle tre immagini clipeate, delle quali è superstite l'icona di Cristo raffigurata al centro, sopra la finestra, oltre a qualche frammento del clipeo posto fra il Sogno di Giuseppe e il Viaggio a Betlemme. Nessun indizio può garantire che le immagini perdute rappresentassero la Theotókos e s. Giovanni Battista, vale a dire i personaggi della Déesis, piuttosto che angeli o altri soggetti ancora.La decorazione dell'abside comprende, infine, la fascia inferiore, alta m. 1,4 ca., assai frammentaria e improntata a un gusto spaziale di tipo illusionistico: davanti a dei vela appesi si slargano delle esedre in tralice mentre al centro, in asse con la finestra e con l'icona di Cristo, un codex è posato sulla stoffa ricoprente un seggio.Già a proposito delle scelte tematiche, dell'ubicazione del ciclo, dell'organizzazione dei singoli elementi figurativi, insomma della materia iconografica nel suo insieme e nelle sue varie articolazioni, affiora quella divergenza di letture che è tratto caratteristico della vicenda storiografica intorno a Castelseprio. Coerentemente con la datazione delle pitture entro la metà del sec. 7° ca., il programma iconografico nella sua totalità è stato considerato un riflesso diretto e immediato di uno dei cicli narrativi monumentali creati per i martyria della Palestina in epoca paleocristiana con parentele significative nei confronti del ciclo cristologico raffigurato negli avori della cattedra di Massimiano, della metà del sec. 6° ca. (de Capitani D'Arzago, 1948). D'altra parte, c'è chi sostiene che alcuni dettagli iconografici sono riferibili a epoca più recente, essendo noti solo a partire dall'arte posticonoclasta e presenti specialmente in opere costantinopolitane della c.d. rinascenza macedone (Weitzmann, 1951) e c'è chi, individuando nell'assetto globale dell'organismo iconografico singoli elementi - la tipologia della croce oltrepassante il nimbo di Cristo nella Presentazione al Tempio, Natività e Adorazione; la particolarità del velo che copre solo una delle mani di Simeone nella Presentazione; il rapporto fra selezione delle scene e ubicazione del ciclo nell'abside -, è portato a vedere in essi tratti dipendenti dalle elaborazioni specifiche della figuratività carolingia e ottoniana (Grabar, 1954a; 1954b).Successivamente, alcune di queste affermazioni hanno perduto di forza a favore di posizioni meno perentorie e più sfumate. Ciò si verifica a proposito della croce oltrepassante il nimbo, la cui tipologia ricorre in opere molto più antiche, come il Genesi Cotton (Londra, BL, Cott. Otho B.VI; Schapiro, 1952), o ancora a proposito dell'ubicazione del ciclo dell'Infanzia sulle pareti dell'abside, ubicazione per la quale il giusto richiamo agli affreschi preiconoclasti della c.d. chiesa Rossa a Peruštica (Lazarev, 1967) toglie saldezza al presunto monopolio carolingio-occidentale di questo aspetto.Se il terminus ante quem per la stesura dei dipinti è dato dal graffito riferibile agli anni dell'arcivescovado di Arderico, rimane tuttora fluttuante la soglia del terminus post quem. Continua, infatti, a non essere univoca la valutazione cronologica nei riguardi vuoi degli elementi esterni alle pitture ma a esse strettamente correlati - si pensi al contesto architettonico e ambientale - vuoi degli elementi interni: dal sistema stilistico, al senso profondo delle scelte iconografiche, al quadro figurativo di riferimento.Il contesto architettonico, oggetto in anni recenti di rilettura ora in chiave tardoantica (Sironi, Mazza, 1979) ora in chiave e direzione carolingia (Leveto, 1990a), risente degli esiti connessi da una parte con l'interpretazione dei dati archeologici, dall'altra con i risultati di una gamma di analisi scientifiche applicate ai vari materiali.A conclusione degli scavi condotti all'interno e all'esterno della chiesa è stato asserito (Carver, 1987, pp. 319-321) che la costruzione della chiesa coincide con il periodo II (650-800) della tabella di Brogiolo (1987, p. 44); che le sepolture del primo gruppo, sistemate nell'area fra la nave e la distrutta abside nord, gruppo al quale appartiene la tomba più prestigiosa per grandezza, tipologia e tracce di corredo (F 196), rispettano la planimetria della chiesa; che le sepolture del secondo gruppo, situate nell'atrio a ridosso della parete ovest - inesplorate - sono probabilmente contemporanee alla tomba che portava l'iscrizione "Wideramn" (Carver, 1987, p. 321), assegnata da Bognetti al sec. 7° (1948, p. 342). Per Carver (1987, p. 325) se i caratteri dell'iscrizione e altre peculiarità della grande tomba indirizzano verso l'ambiente longobardo, il quadro delle analisi scientifiche sembra orientare piuttosto verso l'ambito carolingio.Le analisi al carbonio 14 applicate a frammenti di legno di una delle travi antiche dell'abside danno la data 865 ± 87 (Leveto-Jabr, 1987). È tuttavia controverso se il tetto sia l'originario o frutto di una nuova sistemazione (Carver, 1987, p. 325), mentre è quanto meno incongruo che altri frammenti di legno estratti dall'interno del muro absidale alle spalle della Prova delle acque amare risalgano agli anni compresi fra il 46 a.C. e il 36 d.C. (Leveto, 1990a, p. 33).Esami dendrocronologici su frammenti di legno situati sul muro est della navata e nell'abside dietro la scena del Sogno di Giuseppe punterebbero a loro volta verso il sec. 9° (Leveto, 1990a, pp. 36-37). A proposito di questo tipo di analisi è stato affermato "che non esistono le serie dendrologiche che consentirebbero la datazione dei legni presenti nelle antiche strutture di Castelseprio e Torba" (Bertelli, 1988b, p. 893 n. 39). L'applicazione del carbonio 14 ai componenti della calcina dà inaspettatamente la data 1103 ± 56 (Leveto, 1990a, p. 38). A loro volta, i risultati della termoluminescenza applicata a otto tegole murate nel timpano orientale danno l'828 ca. (Brogiolo, 1987, p. 43). L'esame con termoluminescenza di tre frammenti del pavimento originario dà la datazione 787 ± 65 (Castelseprio, 1987). Infine, l'analisi al carbonio 14 della cassa di legno rinvenuta nella grande tomba posta nell'angolo fra il nartece e l'abside nord ha fornito la data 975 ± 75 (Bertelli, 1988b, p. 894).Il ventaglio delle analisi concerne, dunque, una serie di elementi tutti pertinenti all'edificio e al suo contesto. Per di più, non sempre i dipinti sono considerati contemporanei alla struttura architettonica (Leveto, 1990a, pp. 65-66). E da ultimo si presume che la stratigrafia su malte e intonaci, messa a punto in occasione dei restauri condotti agli inizi degli anni Ottanta, indichi davvero "che le pitture murali non sono contemporanee all'opera muraria ma decisamente più recenti" (Franzini, Gratziu, 1988, p. 914). Ciò si evincerebbe dalla sovrapposizione estesa ma non completa di due intonaci precedenti quello del dipinto - l'uno grigio, l'altro rosato -, dall'imbiancatura in successivi strati dell'intonaco rosato e dalla sua martellatura prima di stendere l'intonaco dei dipinti. Questa tesi, condivisa da Bertelli (1988a, p. 67; 1988b, pp. 894-895), non si confronta con una serie di esempi assai significativi, fra i quali i dipinti di S. Salvatore a Brescia, in cui è dato cogliere la stessa successione di intonaco imbiancato e martellato prima di essere dipinto (Peroni, 1983, p. 60). Una volta che l'intonaco pertinente alle pitture murali fu steso sull'intera superficie dell'abside in modo continuo, senza segni di giornate (Franzini, Gratziu, 1988, pp. 912-913), ma - sembra - in sezioni corrispondenti alle singole scene (Leveto, 1990a, pp. 76-77), si può dire, sulla base dell'osservazione dei giunti e della loro sovrapposizione, sezione dopo sezione, che si procedette dipingendo secondo un orientamento da N a E e dall'alto in basso e che gli archivolti delle finestre furono eseguiti dopo le pareti (Leveto, 1990a, p. 77). La pittura è una combinazione di affresco e pittura a secco. Le modalità tecnico-esecutive che danno corpo al processo di formazione dell'immagine - dalla delineazione del disegno preparatorio alla successione dei colori e delle lumeggiature - mostrano di collimare in linea generale con quelle in uso fra Tardo Antico e pieno Medioevo (Leveto, 1990a, pp. 75-89). Risulta indiscutibile l'omogeneità di base del progetto figurativo, tuttavia occorre riconoscere che l'arco delle varianti interne alle formulazioni stilistiche appare piuttosto ampio e troppo 'personalizzato' perché si possa ascriverlo a ragioni esterne come il ricorso a diversi modelli. Più verosimilmente le differenze stilistiche emergenti nelle pitture di C. sono da considerare frutto di due mani, di due artisti diversi (Leveto, 1990a, pp. 227-233). L'uno, al quale appartengono figure come Maria nell'Annunciazione, Maria nella Prova delle acque, Giuseppe nel Viaggio a Betlemme, Simeone nella Presentazione e probabilmente il busto clipeato di Cristo, ama costruire i volti attraverso uno schema basato sulla sovrapposizione di ombre a mezzaluna, su una rete di lumeggiature assai evidenti e delinea immagini piuttosto larghe e tozze; l'altro concepisce figure dalle proporzioni più allungate, movimenti fluidi, volti dall'espressività incantata tutta giocata su un tipo di pittura a macchia. Ed ecco figure come Maria nel Viaggio o l'angelo nel Sogno di Giuseppe (Leveto, 1990a, pp. 227-233).Diversamente, sul piano delle strutture formali, i dipinti di C. costituiscono a tutt'oggi un unicum e non solo nel panorama della pittura di epoca altomedievale esistente sul territorio italiano. Svettano isolati e senza confronti, e tuttavia comprensibilissimi nella declinazione del linguaggio stilistico. Pitture "di qualità in assoluto eccelsa, una qualità che scavalca i secoli, alla pari dei capolavori sommi di ogni tempo" (Romanini, 1988, p. 230), opera di un autore che "dipinge con scioltezza e libertà, senza sforzo alcuno, senza alcuna insistenza" (Lazarev, 1967, p. 72). Le tante figure appaiono vibranti, dai gesti "elastici" (Bertelli, 1988a, p. 65), colti nell'istante del movimento, lontani da segni stereotipati, calati in scorci prospettici, in pose spaziali del tutto inattese: si vedano l'angelo dell'Annunciazione che discende impetuosamente dall'alto, Maria che si solleva con difficoltà dal giaciglio nella Natività o la Theotókos seduta di tre quarti nell'Adorazione dei Magi. I volti sono modellati con poche pennellate sicure che conferiscono loro un'espressione individuale specialmente concentrata nell'umida lucentezza degli occhi (Lazarev, 1967, p. 72). Architetture e sfondi sono pieni d'aria e di spazi, lievi eppure saldamente costruiti, naturali al pari delle figure nel disporsi prospetticamente, in aeree profondità, nell'imminenza del vicino a portata di mano o della lontananza. Per nominare tutto ciò e altro ancora, come la gamma dei colori chiari e trasparenti e le ombre mobili e palpabili, non c'è categoria concettuale e figurativa più idonea della categoria del 'classico' nell'accezione della tradizione ellenistica. Un 'classico', tuttavia, dal timbro particolare, attraversato e vivificato com'è dal "senso acuto della vita interiore", partecipe di quella che Lazarev (1967, p. 73) definisce "l'accentuata spiritualizzazione della forma", interna all'orizzonte nuovo dell'"avventura cristiana" (Romanini, 1988, p. 232) e che segna punti di distanza nei riguardi del realismo e dell'illusionismo antico. Sui tratti vibranti, sui guizzi e lampi di gesti e movimenti si posa una soffusa malinconia, quel velo che consente la contemplazione e la forte illusione di realtà delle immagini (Bertelli, 1988a, p. 65).Nessuna ombra incrina la compattezza granitica ancorché massimamente articolata che contraddistingue il giudizio critico intorno alla sostanza 'classico-ellenizzante' dei dipinti ed è senza riserve la comprensione della loro straordinaria ed eccelsa qualità. Al contrario, le valutazioni appaiono assai difformi e sono estremamente diversificate quando si tenta di calare la specifica flessione della forma delle pitture, il lorostile, all'interno di orizzonti culturali specifici, di maglie storiche, di coordinate cronologiche. Su questo terreno bisogna fare i conti con una delle questioni in assoluto più 'aperte' dell'intero universo artistico dell'Alto Medioevo, sia orientale sia occidentale.All'indomani della scoperta, l'orientamento emerso fra gli autori della prima e fondamentale monografia sul monumento fu quello di datare le pitture di C. nell'ambito del sec. 7°, avanzato (Bognetti, 1948) o piuttosto entro la prima metà (de Capitani D'Arzago, 1948); di ritenerli opera di artisti dell'area orientale, probabilmente palestinesi (de Capitani D'Arzago, 1948), chiamati nel Seprio longobardo nella fase missionaria 'cattolica' (671-700), dunque in funzione antiariana, come trasparirebbe dalle scelte tematiche del ciclo ricco di episodi ed elementi sottolineanti la natura divina di Cristo (Bognetti, 1948).Questa datazione, che ha goduto di molto credito (Lazarev, 1967; Lorenzoni, 1974; 1986; Reuterswärd, 1978; Coche de la Ferté, 1982), è quella che si legherebbe al tipo di esperienza figurativa ellenizzante che si deve immaginare fervesse a Costantinopoli alla vigilia della crisi iconoclasta e della quale è espressione diretta seppure parziale l'ondata di cui si ha conoscenza a Roma nel breve giro degli anni del pontificato di Giovanni VII (705-707; Nordhagen, 1983). Gli affreschi giovannei in S. Maria Antiqua a Roma più che i mosaici dell'oratorio in S. Pietro condividerebbero con i dipinti di C. anche qualche elemento di quel repertorio d'apparato - nastri legati alle colonne, velari - che a C. è di casa con ben altra dovizia e naturalezza e condividerebbero pure sistemi stilistici quali il tipo di lumeggiature applicate alla superficie e la definizione del contorno mediante una linea scura (Nordhagen, 1983). Tuttavia, le pitture giovannee sembrano opere prive dell'"intenso senso acuto della vita interiore" che vibra guizzante negli affreschi di C. (Romanini, 1988, p. 232) e più povere di sangue 'classico', per cui si ventila che tali affreschi siano sì espressione della cultura costantinopolitana, ma più recenti di qualche decennio, del 720 ca., e dotati di uno stile 'classicamente' più coerente quanto ai sistemi di figure e al repertorio dei motivi (Wright, 1980, p. 739).Ma già nella seconda monografia sugli affreschi emerge una linea interpretativa assai differente e per certi versi opposta rispetto a quella di Bognetti, Chierici, de Capitani D'Arzago (1948). L''ellenismo' dei dipinti viene considerato strettamente apparentato alla stagione della rinascenza macedone e le pitture datate alla prima metà del sec. 10° (Weitzmann, 1951). Negli stessi anni vengono proposte altre datazioni: la fine del sec. 9° (Grabar, 1950) o la fine dell'8° (Schapiro, 1952), datazione quest'ultima che polarizza subito e successivamente una nutrita serie di consensi, seppure variamente articolati, fino a comprendere la fascia degli inizi del 9° (Kitzinger, 1958; Bertelli, 1988a, pp. 65-68; Leveto, 1990a). A una datazione nell'ambito del sec. 8° sembra favorevole anche l'aver individuato dei rapporti o comunque delle assonanze fra gli affreschi di C. e alcuni tratti delle sinopie cristologiche del S. Salvatore di Brescia, ascritte ora a epoca longobarda ora a epoca già carolingia, ma comunque ritenute posteriori agli affreschi di C. (Peroni, 1973; 1983).Su questa linea s'innervano i punti di una tesi elaborata di recente. Per Bertelli (1988a) radice e sfondo dell''ellenismo' delle pitture di C. sarebbero da individuare in quella temperie culturale che si ritiene essere stata vivida a Bisanzio negli anni dell'iconoclastia e che si immagina protesa verso il recupero delle esperienze il più possibile 'all'antica', ossia 'più che mai ellenistiche' e della quale gli affreschi di C., il mosaico con la Vergine in trono e il Bambino fra gli arcangeli nell'abside orientale della Santa Sofia, le miniature del Salterio Chludov (Mosca, Gosudarstvennyj Istoritscheskij Muz., Add. gr. 129) rappresenterebbero le voci più autorevoli del versante religioso di contro alla voce laica del codice di Tolomeo eseguito per l'ultimo imperatore iconoclasta (Roma, BAV, Vat. gr. 1291). In questa impostazione, il mirabile mosaico costantinopolitano - databile fra il 787 e l'815 - viene ad assumere il ruolo di "punto di riferimento insperato" (Bertelli, 1988a, p. 62) nei riguardi delle pitture di C., le quali, tuttavia, vengono agganciate a un plesso di situazioni storiche di qualche decennio più tarde e aggregabili attorno alla figura di Giovanni, conte di Milano e del Seprio a cominciare dall'844, figlio del conte di Milano Leone, personaggio di spicco presso Lotario, di notevole statura politica e culturale e in grado di promuovere l''importazione' di sistemi artistici dell'area bizantina nelle terre lombarde e di impostare un raffinato programma iconografico (Bertelli, 1987, p. 27; 1988a, pp. 58-68; 1988b). Vengono ad aprirsi, dunque, dei nuovi scorci: si profilerebbe in Giovanni la figura del committente, nella chiesa la funzione di cappella palatina e nel ciclo una diversa valenza interpretativa. Il ciclo è considerato sì cristologico, ma in senso non antiariano (Bognetti, 1948), quanto come manifesto delle posizioni iconodule alla luce della centralità che nel ciclo e nella teologia dell'immagine ha il tema dell'incarnazione (Bertelli, 1988b, pp. 889-890). In un'analisi che rivendica al collegamento fra i dipinti di C. e quelli di Müstair un rapporto probabilmente più diretto di quanto si sia supposto, la temperie carolingia viene ancora una volta a essere considerata lo sfondo storico e la cassa di risonanza adeguata (Davis-Weyer, 1987, pp. 228-230).Di contro alla linea favorevole al sec. 9° emerge sempre più articolata quella che torna a vedere nel periodo della dominazione bizantina del Seprio, fra il declino goto e l'invasione longobarda, la congiuntura storica e l'arco cronologico più idonei ad accogliere un episodio come la chiesa e i dipinti di Castelseprio. In quest'ottica, i dipinti vengono pensati "come opere dovute a quella alta e nobilissima cultura tardo-antica della Cispadania romana", a cui i maestri lombardi carolingi si rivolsero e su cui "come su un nobilissimo 'antico' si modellarono" (Romanini, 1988, p. 235), come espressione "della vitalità classicistica del VI secolo" (Righetti Tosti-Croce, 1988, p. 238); vengono proposti come opera giustinianea o postgiustinianea all'interno della stagione bizantina ellenizzante cui appartiene l'Annunciazione sul secondo strato della parete palinsesto in S. Maria Antiqua a Roma, da considerare degli anni di Giustino II (565-578; Russo, 1992), datazione appoggiata tra l'altro da una rinnovata analisi dei caratteri paleografici delle scritte ormai perdute (De Spirito, in corso di stampa). Questa prospettiva critica ha un precedente in quella tradizione - per lo più italiana - che all'indomani della scoperta si era pronunciata per una collocazione alta dei dipinti, fra i secc. 6° e 7° (Toesca, 1947; 1951; de Francovich, 1951, pp. 82-83 n. 2) o al sec. 5° o 6° al più, precisata successivamente fra il 526 e il 580 (Verzone, 1958, pp. 132-133), e ha il proprio fulcro forte nel riconoscimento che le pitture di C. sono "ancora e non di nuovo antiche". Quanto alla datazione entro i decenni della conquista bizantina, vale a dire nell'avanzato sec. 6°, un giro capillare nelle pieghe del frammentario orizzonte figurativo coevo potrebbe portare qualche nuova favilla alla comprensione di C.: dai mosaici tardogiustinianei del monte Sinai, all'impressionismo focoso delle miniature dei Vangeli di Sinope (Parigi, BN, Suppl. gr. 1286), ad alcune inclinazioni delle miniature del Genesi di Vienna (Vienna, Öst. Nat. Bibl., Vind. theol. gr. 31), all'intima e sconvolgente vitalità dell'icona della Theotókos custodita a Kiev (Kievskij muz. zapadnogo i vostočnogo iskusstva). Si è consapevoli, tuttavia, che, rispetto all'esperienza totalizzante che i dipinti di C. rendono in modo organico, le corrispondenze isolabili nell'orizzonte figurativo bizantino di epoca preiconoclasta risultano assai parziali.
Bibl.: P. Toesca, Una nuova pagina della pittura medioevale, Castelseprio, Giornale d'Italia, 10 agosto 1947; G.P. Bognetti, G. Chierici, A. de Capitani D'Arzago, Santa Maria di Castelseprio, Milano 1948; G.P. Bognetti, Santa Maria Foris portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, ivi, pp. 13-511; A. de Capitani D'Arzago, Gli affreschi di Santa Maria di Castelseprio, ivi, pp. 539-701; R. Longhi, Giudizio sul Duecento, Proporzioni 2, 1948, pp. 5-54: 5-29, 46; G.P. Bognetti, Aggiornamenti su Castelseprio, Rassegna storica del Seprio 9-10, 1949-1950, pp. 28-66 (rist. in id., L'età longobarda, III, Milano 1967, pp. 75-136); A. Grabar, Les fresques de Castelseprio, GBA, s.VI, 37, 1950, pp. 107-114; G. de Francovich, L'arte siriaca e il suo influsso sulla pittura medioevale, Commentari 2, 1951, pp. 75-92; P. Toesca, Gli affreschi di Castelseprio, L'Arte, n.s., 18, 1951, pp. 12-19; K. Weitzmann, The Fresco Cycle of S. Maria di Castelseprio, Princeton 1951 (rec.: M. 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