CASTRACANI DEGLI ANTELMINELLI, Castruccio
Figlio di Gerio di Castracane e di Puccia degli Streghi, nacque a Lucca il 29 marzo 1281, data tradizionale, ma non certa.
Apparteneva ad una famiglia attestata dai primi del Duecento e giunta, alla fine del sec. XIII, ad occupare un posto di primo piano fra le aziende commerciali e finanziarie lucchesi operanti a livello europeo. Fin dall'inizio del secolo i Castracani - residenti nella Curtis Sancti Martini, nei pressi della cattedrale - risultano proprietari urbani e campsores:esercitavano cioè in Lucca il cambio al minuto. Passarono tuttavia ben presto anche ad occuparsi di attività creditizie dapprima all'interno della città e in seguito su piazze straniere, costituendo regolari compagnie che vedevano associati i singoli membri della famiglia ad altri mercanti. I depositi raccolti in Lucca alimentavano non solo i prestiti e il cambio su scala internazionale, ma anche le attività commerciali (nel 1270, ad esempio, si finanziarono due mercanti di spezie lucchesi che dovevano trasferirsi in Africa settentrionale) e nell'ultimo ventennio del Duecento i Castracani erano ormai a capo di una delle grandi organizzazioni bancario-mercantili che da Lucca estendevano i loro affari a tutta l'Europa occidentale, e particolarmente alla Francia e alle Fiandre.
Il carattere internazionale dei traffici dei Castracani non può però far dimenticare tutta una serie di attività locali che presuppongono, all'interno della società lucchese, legami tradizionali di cui non sembra plausibile potesse fruire un semplice "self-made financier" (Blomquist, p. 476), quale sarebbe stato il nonno del C., quel Castracane di Ruggero di Castracane che, con il fratello Lutterio (avo del Francesco Castracani che avrebbe avuto larga parte nella politica lucchese dopo la morte del C.), fu erede, poco dopo la metà del Duecento, di una notevole fortuna costituita anche da possessi fondiari nel contado. Una analisi sistematica di queste proprietà è ancora da compiere, ma certo il ricordo di beni posseduti sia nelle immediate vicinanze delle mura cittadine sia nella lontana Garfagnana fa pensare ad acquisizioni di antica data. La stessa attività di allevamento, vendita e affitto di bestiame, in particolare cavalli, rivela una presenza non certo di fresca data nella vita economica del contado. Infine la partecipazione alle attività relative alla estrazione di ferro e di argento dalle miniere lucchesi (attestata dal 1255 e dal 1259) e il traffico di metalli preziosi sia per le necessità della zecca, che per quelle dell'oreficeria cittadina (dal 1259 almeno), sembrano testimoniare nella famiglia basi economiche già molto solide alla metà del secolo e comunque tali da giustificare la successiva espansione a livello internazionale delle attività finanziarie e mercantili.
Se è vero che non ci è dato sapere con precisione se i possessi fondiari appartenessero alla famiglia ab antiquo o fossero piuttosto il frutto di investimenti relativamente recenti (come è provato nel caso di alcuni acquisti urbani), la ricchezza dei Castracani appare comunque fondata su una tale varietà di iniziative e di investimenti mobiliari e immobiliari, tutti strettamente collegati, da rendere poco significativa una più approfondita indagine sulle loro remote origini. Che essi fossero nobili convertiti assai presto alla mercatura, o che fossero invece mercanti giunti rapidamente agli investimenti immobiliari ed allineati anche nel modo di vita con la nobiltà tradizionale, non muta per questo la sostanza della loro posizione preminente nella società lucchese del pieno Duecento.
È soltanto un altro aspetto della medesima questione l'interrogativo, anch'esso finora irrisolto, circa l'originaria appartenenza dei Castracani al ceppo nobile degli Antelminelli. Il fatto che per tutto il Duecento la famiglia non sia indicata nei documenti come nobile, né come un ramo degli Antelminelli, non toglie significato alla tardiva, ma incontestata assunzione del cognome Antelminelli. Ciò che conta è che i Castracani, all'inizio del Trecento, si riconoscono come membri, poco importa se originari o adottivi, di un casato dalle forti tradizioni nobiliari, ultimamente rinvigorite dal contrasto fra i bianchi - cui aderì - e i neri, e dall'espulsione da Lucca che portò gli Antelminelli a ingrossare le file del ghibellinismo italiano. Il C., erede di questa famiglia, è appunto mercante nel momento del pacifico inserimento nella vita lucchese, e uomo d'arme negli anni di un esilio che è prima di tutto estraniazione da quelle solide strutture economiche e sociali cittadine sulle quali erano fondate le fortune dei mercanti-banchieri.
Il C. era già emancipato dal padre Gerio il 1º ag. 1296 quando compare fra gli attori di un impegno assunto nei confronti della compagnia dei Ricciardi, creditori di una ingentissima somma dai Castracani; e questi ultimi apparivano in grado di pagare senza eccessive difficoltà. La più antica testimonianza sul forse appena sedicenne C. ce lo presenta nella veste di un giovanissimo mercante presto chiamato dalla famiglia ad assumere specifiche responsabilità. Quattro anni più tardi i Castracani furono costretti all'esilio e il padre del C., Gerio, si trasferì ad Ancona dove venne a morte nel 1301. Da questo momento ha inizio l'avventura che porterà il C. nel giro di tre soli lustri alla signoria di Lucca attraverso una serie di vicende ancora avvolte per larga parte nella leggenda.
Al 1301-1302 risale probabilmente il soggiorno del C. in Inghilterra presso mercanti lucchesi là trasferitisi; soggiorno che fu interrotto da un episodio di violenza che avrebbe costretto il C. a tornare sul continente e a dedicarsi alla carriera delle armi, alla quale poté essere avviato - a quanto è possibile ipotizzare - ancora una volta grazie ai suoi legami con i mercanti italiani operanti in Francia e nelle Fiandre. Egli avrebbe combattuto con altri "lombardi" al servizio di Filippo il Bello e avrebbe partecipato, nell'estate dell'anno 1303, alla battaglia di Saint-Omer in Fiandra e alla difesa di Thérouanne. Nel gennaio del 1304 il C. era comunque nuovamente in Italia, a Pisa, dove, insieme con lo zio Coluccio, nominava procuratore il fiorentino Piero Guglielmi, incaricato di riottenere dai figli di un genovese, Bonvassalino Usodimare, i libri contabili della loro compagnia depositati da un fattore dei Castracani, il lucchese Duccio da Puticciano. La trafila cui i due Castracani ricorsero per rientrare in possesso dei documenti aziendali sembra suggerire un disimpegno dalla conduzione diretta degli affari: dal documento citato non emerge tanto un C. mercante, quanto piuttosto un personaggio che si è ormai lasciato alle spalle le attività bancarie e finanziarie; e questa interpretazione è confermata anche dal fatto che in questa occasione, per la prima volta, compare il cognome Antelminelli per designare i due Castracani.
Mancano testimonianze precise sulle vicende del C. fra il gennaio del 1304 e il 1306. È probabile che abbia partecipato per qualche tempo alla difesa di Pistoia (caduta nelle mani dei guelfi il 10 apr. 1306); che sia stato poi al seguito del legato papale Napoleone Orsini; e infine che si sia trasferito come mercenario nell'Italia settentrionale, dove la sua presenza è indirettamente attestata prima a Verona e poi a Bergamo: possediamo infatti una "iscrita" (che conosciamo attraverso due copie) di mano del mercante Muzzino di Cola Alberti da San Gimignano che attesta che il C. "in due volte",a Verona e a Bergamo, gli aveva affidato al 10% la somma di 1.500 fiorini d'oro. La "iscrita" risale al 15 gennaio 1307, ed è quindi presumibile che il C. si sia trovato a Verona e a Bergamo negli ultimi mesi del 1306.
All'anno 1308 o al 1309, secondo la testimonianza di Marin Sanuto il Vecchio (in Sampieri), andrebbe fissata una condotta militare ottenuta dal C. a Verona come "stipendiarius" con due "equi",uno dei quali era da lui stesso pagato; da Verona il C. sarebbe stato quindi chiamato a Venezia come connestabile per un semestre, e destinato a Capodistria al comando di 26 cavalieri. In questa occasione i Veneziani gli avrebbero concesso un prestito di 300 fiorini. Alla scadenza del semestre, il C. avrebbe dovuto esser licenziato, ma "ne rediret ad elemosinas illorum de la Scala de Verona" - ai quali evidentemente era stato fino ad allora legato - chiese di rimanere come "stipendiarius" ai servizi di Venezia, ottenendo in seguito che gli succedesse un "avunculus",che dovrebbe essere identificato con lo zio Coluccio di Castracane: il che confermerebbe che ormai tutti i membri della famiglia avevano lasciato la conduzione diretta delle attività mercantili.
Il servizio compiuto a Capodistria è ricordato nel testamento stesso del C., dove si menzionano anche azioni militari a Vicenza, Soncino e Brescia. È probabile che quest'ultimo accenno si riferisca alla partecipazione all'assedio di quella città posto da Arrigo VII nel 1311. L'imperatore era giunto in Italia nell'ottobre del 1310, e poco tempo prima, il 30 giugno, l'"universitas" degli esuli lucchesi aveva eletto in Pisa una delegazione, che doveva incontrarsi con Arrigo VII. Il C., non presente a Pisa, fu però rappresentato in quell'occasione (insieme con lo zio Coluccio e il cugino Francesco) da Coluccio Savarigi degli Antelminelli. Il documento indica come gli esuli lucchesi contassero sulla discesa e sull'appoggio dell'imperatore per poter rientrare in patria; in un simile contesto appare perciò plausibile che il C. abbia offerto la sua opera di soldato ad Arrigo VII nel corso della guerra del 1311 in Lombardia, combattendo, quasi certamente, alle dipendenze di Werner di Homberg.
La schietta adesione del C. all'imperatore è comunque chiaramente attestata anche dai nomi che egli impose ai figli maschi natigli appunto in questi anni: il primogenito Arrigo (nato probabilmente prima dell'elezione imperiale del 1308), il terzogenito si chiamava Giovanni, come il re di Boemia, figlio dell'imperatore, e il secondogenito Vallerano, nome del fratello di Arrigo VII, caduto nell'assedio di Brescia nel luglio 1311.
In data non precisabile il C. ritirò a Milano dal mercante Muzzino Alberti 150 fiorini, corrispondenti alla "utilitate per uno anno" della somma che aveva depositato. L'Alberti afferma nella sua "iscrita" che questo prelievo avvenne nella città lombarda quando il C. "andoe a Pisa a lo 'inperatore". Ciò esclude che il C. abbia seguito l'imperatore a Genova e di qui sia con lui andato a Pisa nel dicembre del 1311; resta incerto se egli abbia raggiunto Arrigo VII in Toscana nella primavera dell'anno 1312 0 nella primavera-estate del 1313. Nel primo caso, appare quindi strano che non si abbiano successivamente affatto notizie di una sua partecipazione sia alla spedizione romana dell'imperatore sia all'assedio di Firenze dell'autunno 1312. Nel secondo caso, più probabile, il C. sarebbe rimasto nell'Italia settentrionale, forse al servizio di Cangrande Della Scala, da poco eletto vicario imperiale, e non avrebbe raggiunto l'imperatore a Pisa che dopo il marzo del 1313. Certo è,ad ogni modo, che il 22 ag. 1313 il C. era a Pisa dove rilasciava ampia e generale procura ad alcuni concittadini. Due giorni dopo a Buonconvento Arrigo VII veniva a morte e le forze ghibelline erano costrette ad affrontare gli avvenimenti stringendosi attorno a Uguccione della Faggiuola, eletto capitano e podestà di Pisa il 20 sett. 1313.
Di Uguccione - anche se mancano precise testimonianze - il C. fu stretto collaboratore, se dopo la pace del 25 apr. 134 fra Lucca e Pisa e la riammissione degli esuli, proprio sul C., una volta rientrato in Lucca, puntò Uguccione per il colpo di mano del 14 giugno che portò alla sconfitta dei guelfi e alla sottomissione della città a Pisa. Soltanto da questo momento le cronache cominciano a dare spazio alle vicende del C. sottolineando il ruolo che egli ebbe nel consentire ad Uguccione di impadronirsi di Lucca: ruolo che è confermato fra l'altro da un atto privato, un testamento del 1348, dove viene dipinta vividamente la figura del condottiero che "corre" la città e saccheggia le case dei guelfi alla testa delle masnade tedesche (Luiso, Mercatanti, p. 93). La persona del C. non ha tuttavia ancora acquistato un particolare rilievo politico e non sembra che in questo momento gli siano state affidate cariche di un certo peso in Lucca, al governo della quale Uguccione pose i suoi figli, prima Francesco e poi Ranieri. Ma a riconoscimento dei suoi meriti il C. ottenne - quasi certamente per intervento di Uguccione - una investitura che doveva rivelarsi col tempo di decisiva importanza.
La caduta di Lucca nelle mani di Uguccione era valsa fra l'altro a riportare entro la sfera d'influenza della città quelle terre della Lunigiana che agli inizi del 1313 si erano sottratte al controllo guelfo.
Accanto alla giurisdizione lucchese sopravviveva in quella zona la giurisdizione ecclesiastica del vescovo di Luni, che veniva esercitata in buon accordo con la guelfa Lucca, come dimostra il fatto che nell'ottobre del 1307,essendo la sede vacante, visconte "pro Lunensi capitulo" era il lucchese Maghinardo degli Obizzi, e che nell'agosto del 1312 il luogotenente del visconte vescovile, un Malaspina, era un altro Obizzi, Bartolomeo. Ma già nel dicembre del 1312 si ha testimonianza di un "generalis capitaneus diocesis et episcopatus Lunensis" per conto dell'imperatore. Di lì a poco, il 23 febbr. 1313, Arrigo VII, da Poggibonsi, avrebbe bandito e spogliato della signoria temporale il vescovo di Luni Gherardino Malaspina, che aderiva alla parte guelfa. Quasi contemporaneamente i Malaspina ghibellini costrinsero Sarzana a darsi ad Arrigo VII, e Lucca si trovò estromessa dal territorio lunense.
Con la morte di Arrigo VII si creò in Lunigiana un vuoto di potere di cui approfittarono sia i Pisani sia i Malaspina, ma a sfruttare la situazione fu soprattutto il C., che era lucchese e aveva già larghi interessi patrimoniali nella zona. Il 4 luglio 1314, venti giorni dopo la caduta di Lucca, tramite un procuratore, egli ottenne dal vescovo Gherardino Malaspina, rifugiato con altri guelfi a Fucecchio, la nomina a visconte del vescovato di Luni. Abilitato così al governo di un territorio con tutti i crismi di una legalità tradizionalmente riconosciuta, il C. poté presentarsi, il 5 dicembre dello stesso anno, a Sarzana e Sarzanello come vicario, difensore e protettore, risolvendo la difficile situazione dei due Comuni al cui possesso ambivano sia Pisa che i Malaspina. Mentre il viscontato vescovile doveva durare "ex nunc",cioè dal 4 luglio 1314, "quamdiu placuerit" al vescovo di Luni, il vicariato era stato attribuito al C. soltanto per due anni, dopo di che Sarzana e Sarzanello sarebbero dovute essere restituite all'imperatore o a un suo vicario.
Il 5 ag. 1315 il C. riuscì ad ottenere da Federico d'Austria una nomina a "vicario",che era assai ambigua, ma tale da rafforzare la sua posizione in Lunigiana, dove reggeva le terre vescovili con un vicevisconte, e i due Comuni con un vicevicario; a quest'ultimo, dopo la concessione del diploma imperiale, egli affidò anche l'amministrazione delle funzioni giudiziarie e civili nelle terre del vescovo, con il chiaro intento di unificare amministrativamente territori cui era preposto a titoli diversi: la sua presenza alla battaglia di Montecatini del 29 ag. 1315, alla testa, come sottolineano le fonti, di truppe reclutate in Lunigiana, sembra indicare che in questa zona il C. intendesse ritagliarsi un sicuro dominio. Ma il precipitare degli eventi nella primavera dell'anno successivo proiettò inaspettatamente il C. verso una signoria ben più importante di quella inizialmente ambita.
Il 1º apr. 1316 il C. - indicato da una fonte più tarda, ma da lui stesso ispirata, come "vicecomes episcopatus Lunensis" e non come "vicarius" dell'Impero (Lazzareschi, p. 296) - fu incarcerato a Lucca per ordine di Uguccione della Faggiuola: è probabile che la ragione dell'arresto sia da ricercarsi nel rifiuto da parte del C. di rimettere nelle mani di Uguccione le terre della Lunigiana. È indubbio che non il prestigio personale del C., ma le pressioni di Uguccione avevano potuto convincere il vescovo Gherardino Malaspina a creare suo visconte il C., e i Comuni di Sarzana e di Sarzanello a sceglierlo come loro vicario. Chiedendo a Federico III di essere nominato vicario dell'Impero - proprio quando Uguccione aderiva a Ludovico il Bavaro - il C., nonostante la collaborazione offerta in occasione della battaglia di Montecatini, aveva già manifestato le sue intenzioni di indipendenza; e Uguccione aveva deciso alla fine di fermarlo, per costringerlo a rispettare gli accordi presumibilmente intercorsi fra i due.
Fu la coincidenza della rivolta di Pisa contro Uguccione che consentì al C. di venir liberato l'11 aprile e di porsi alla testa del Comune di Lucca il quale si rivendicò a libertà: il 17 aprile il C., con Pagano Cristofori, fu eletto governatore della guerra e capitano delle milizie; il 12 giugno fu eletto capitano e difensore della città, carica che ricalcava palesemente quella già tenuta dal della Faggiuola in Pisa: il 4 novembre fu confermato per un anno, e il 7 luglio 1317 per dieci anni.
L'ipotesi che la rivolta di Pisa contro Uguccione sia stata promossa dallo stesso C., e che per questo egli fosse stato arrestato, non è suffragata da alcun documento. È certo tuttavia che il C. si dovette riconoscere debitore dei Pisani, nei cui confronti tenne per i primi anni di governo una linea di estrema prudenza: nei patti stipulati con i marchesi di Massa il 1º luglio 1316,accettò la clausola che "neque Marchiones, neque homines comunis Masse teneantur ire contra Pisanos, vel eorum terras" (Sforza, Lunigiana, p. 163);alla scadenza del vicariato biennale di Sarzana e Sarzanello, non osò impedire che Sarzana si sottomettesse a Pisa, mentre Sarzanello diventava invece lucchese; nel giugno dell'anno 1318 i Pisani ottennero che il C. rinunciasse alla costruzione di una fortezza alla foce della Magra che avrebbe potuto preludere ad un insediamento portuale in concorrenza con Pisa; in varie occasioni il C. si consultò preliminarmente con il governo di Pisa e in genere non esitò a fermare sul nascere le controversie che potessero insorgere con i Pisani.
Una volta assicurato il suo dominio su Lucca (e conclusa la pace di Napoli fra guelfi, e ghibellini toscani il 12 maggio 1317), il C. mirò a rafforzarsi proprio in quella Lunigiana che controllava sia come "signore" di Lucca sia come visconte del vescovo di Luni. Non stupisce pertanto che quest'ultimo, nel corso del 1318, sia ricorso a Giovanni XXII lamentando le usurpazioni di cui era vittima; tuttavia la bolla, con cui il pontefice affidava a tre prelati l'incarico di prendere le difese del vescovo, non attaccava esplicitamente il C., tant'è vero che lo Sforza, basandosi sulle pressioni esercitate allora da Roberto d'Angiò nei confronti del Comune di Pisa, credette che proprio i Pisani, che possedevano Sarzana, fossero i soli e maggiori responsabili delle usurpazioni, e quasi si stupì che il C., nella sua qualità di visconte, non fosse intervenuto a favore del vescovo (Lunigiana, pp. 31-32). In realtà la stessa bolla papale (ibid., p. 168) afferma che le spoliazioni del vescovato di Luni cominciarono "post expulsionem Guelforum de ipsa civitate Lucana per Gebellinos",formula elegante per dire che esse cominciarono non appena il C. ottenne il viscontado. E infatti, come ebbe a dimostrare il Davidsohn, il C. stesso fu scomunicato il 4 apr. 1318. Cadute nel vuoto le proteste del vescovo di Luni, il C. nel 1319 attaccò Spinetta Malaspina e sottomise tutta una serie di centri e di castelli della Lunigiana, presentandosi come rappresentante ora dei diritti di Lucca, ora dei diritti del vescovo di Luni. Nell'atto di sottomissione di Giuccano, del 15 ag. 1319,si legge, ad es., che gli abitanti "tamquam Vicecomiti sibi obedierunt in hiis que ad Vicecomitatum spectant; in aliis autem que ad Vicecomitatum non spectant elegerunt eundem Potestatem et Rectorem et Dominum eorum cum omni arbitrio et potestate et libera auctoritate et mero et mixto imperio" (Sforza, Lunigiana, p. 178); il 7 settembre di quello stesso 1319 il marchese Azzone Malaspina cedeva al C. il castello di Ponzano "debitum ac spectans ad Lucanum Comune, vel sibi ex offitio Vicecomitatus" (ibid., p. 185). Spontanea, sollecitata o imposta, l'adesione al dominio dei C. cresce di giorno in giorno sia per l'effettiva potenza del "signore" di Lucca - il quale si avvale di truppe mercenarie italiane e tedesche ben pagate e ben addestrate - sia per l'accortezza con cui, saldamente inserito nello schieramento ghibellino e appoggiato da Pisa, il C. si limita ad operare in zone periferiche, poco omogenee e tradizionalmente non soggette a poteri stabili; non a caso, forte dell'esperienza dell'Italia del Nord, il C. costruisce la sua fortuna in quella parte della Toscana che meno era stata toccata dal movimento comunale.
Il C. divenne ben presto il punto di riferimento di tutti i ghibellini toscani: fin dal 31 dic. 1318 era stato eletto capitano generale della parte imperiale di Pistoia, in esilio dalla città, ma padrona di alcune zone del contado pistoiese: nell'ipotesi, ormai non molto lontana, del riaccendersi del conflitto fra guelfi e ghibellini non vi eran dubbi sulla posizione che avrebbe preso il Castracani.
Il 4 apr. 1320 Federico III nominò il C. "nostrum et Imperii generalem Vicarium" di Lucca e del suo distretto, della Valdinievole, della Valleariana, della Val di Lima, della Garfagnana lucchese, della Versilia, di Massa, della Lunigiana, del Valdarno lucchese e delle terre della parte imperiale di Pistoia da lui controllate.
Si tratta questa volta di un vicariato effettivo, e non della semplice qualifica, più o meno onoraria, di "vicario" che gli era stata concessa col diploma del 5 ag. 1315("eundem Castruccium in omnibus castris, castellis, suburbiis, vicis, sive villis imperialibus quae tenet et possidet nostrum constituimus Vicarium") o di quella, non meno generica, di "vicarius Imperii" con cui era stato qualificato in una lettera del 30 giugno 1316.
In realtà, anche dopo questa nomina del 1320, il C. evitò di intitolarsi "vicarius" e continuò a farsi indicare come "capitaneus" o "dominus" "civitatis Lucane et partis imperialis Pistorii" o come "vicecomes Lunensis",mostrando di non voler dar credito ad altre investiture che a quelle che gli erano venute dal basso, dalle forze che si possono chiamare ancora "comunali",di Lucca e di Pistoia, o dal potere vescovile. Probabilmente il conflitto non ancora risolto fra Federico III e Ludovico il Bavaro induceva il C. a non scoprirsi troppo apertamente in favore dell'Asburgo: restava certa soltanto la sua posizione filoimperiale, ora confermata da una nuova investitura ufficiale, che valeva soprattutto in funzione delle vicende locali.
Fedele a questa linea di condotta, pochi giorni dopo la concessione del diploma imperiale il C. fu proclamato dagli Anziani di Lucca e dai "sapientes" appositamente eletti "generalis dominus et generalis capitaneus civitatis Lucane et eius comitatus, districtus et fortie cum omni et tota balia et auctoritate Lucani communis... pro toto tempore vite ipsius Castruccii"; e la nomina venne approvata dal popolo di Lucca riunito a parlamento (26 apr. 1320). Contemporaneamente, in pieno accordo col vescovo di Lucca, il C. occupò Santa Maria a Monte, nel Valdarno inferiore, riconfermandovi sia l'autorità del Comune di Lucca sia quella temporale del vescovato. Si trattava di un'aperta sfida ai Fiorentini, volta a distoglierli da un eventuale intervento in Lombardia contro Matteo Visconti. E proprio in appoggio di quest'ultimo e dei ghibellini liguri e lombardi il C., durante l'estate del 1320, portò le sue armi nella Riviera orientale di Genova. Nell'agosto la parte imperiale di Genova elesse per sei mesi il C. capitano generale con uno stipendio di 2.000 fiorini al mese. Il condottiero lucchese iniziò immediatamente le operazioni militari occupando Levanto già il 15 settembre; seguirono poi la sottomissione di Corvara, di Corniglia e infine di Manarola (12 febbr. 1321). Soltanto un attacco fiorentino in Valdinievole distolse il C. dal proseguire nell'impresa ligure. Nel maggio del 1321 egli si volse contro Pontremoli e precisamente contro il borgo di sotto, signoreggiato dai Fieschi, che si assoggettò al C. per un periodo di cinque anni.
Dopo aver respinto un nuovo attacco di Spinetta Malaspina in Lunigiana e aver contrastato l'assedio fiorentino a Montevettolini, il C., nel febbraio del 1322, riuscì a insignorirsi di tutta Pontremoli, strategicamente importante per i collegamenti con la Lombardia, e nei mesi successivi affrontò, senza ricorrere alle armi, nuovi contrasti insorti con i Pisani per Sarzana e Sarzanello.
Il potere del C. in Lucca si era andato rafforzando, e ne fu simbolo eloquente la costruzione dell'Augusta, iniziata nel 1322: si trattava di una vasta zona fortificata che occupava poco meno di un quinto della superficie della città: all'interno di essa, munita di fortissime mura e di ventinove torri, il C. e i suoi erano al riparo da ogni sorpresa. Ma se in Lucca l'autorità del C. appariva incontrastata, al di fuori della città e dei suoi possessi il dominio non aveva ancora un volto definito. Il capitanato della parte imperiale di Pistoia (di cui il C. era stato investito in quanto capitano di Lucca) doveva durare tanto quanto il capitanato di Lucca: la scadenza, all'atto della nomina conferita dai ghibellini pistoiesi (31 dic. 1318) era ancora quella decennale fissata il 7 luglio 1317. Soltanto nell'aprile del 1320 il C. fu proclamato capitano a vita dei Lucchesi, ma è dubbio che questa nuova scadenza potesse ritenersi impegnativa anche per la parte imperiale di Pistoia. Per ciò che riguarda la parte imperiale di Genova, il mandato conferito al C. nell'agosto del 1320 era semestrale, e non risulta che sia stato rinnovato alla scadenza, anche se il C. mantenne il controllo dei centri liguri che aveva occupato. Con la morte del vescovo di Luni, Gherardino Malaspina, avvenuta nei primi mesi del 1321, avrebbe dovuto cessare il viscontado del signore di Lucca sulle terre vescovili della Lunigiana, ma il C. il 6 aprile di quell'anno si affrettò a sollecitare la riconferma dal nuovo vescovo Bernabò Malaspina: essa non sarebbe venuta, dopo lunghe trattative, che il 19 agosto e non sarebbe stata confermata che il 31 ottobre, ma questa volta al viscontado fu fissato un termine di nove anni. Nonostante l'investitura imperiale del 1320, l'autorità del C. sulle terre non direttamente dipendenti dal Comune di Lucca continuava dunque ad aver deboli e precarie radici ed era soggetta alle vicende di una situazione politico-militare che appariva molto fluida.
Neppure la vittoria di Ludovico il Bavaro nella lotta per il trono (battaglia di Mühldorf del 28 sett. 1322) consentì al C. di dare forma definitiva al suo dominio. Abbandonato Federico d'Austria, di cui pure era vicario, prestò giuramento, come i signori di Pisa e di Arezzo, al plenipotenziario di Ludovico sceso in Italia nella primavera del 1323; quindi, nell'estate, alla guida delle sue truppe contribuì alla difesa di Milano; infine, nell'autunno vietò la pubblicazione nelle sue terre delle sentenze papali contro il Bavaro. Ma mentre in tal modo mostrava la sua fedeltà al nuovo imperatore, e mentre probabilmente conduceva in Germania trattative per ottenere un nuovo vicariato imperiale, d'altra parte il C. volse le sue ambizioni contro la città di Pisa, approfittando della guerra che stava facendo per la Sardegna con il regno di Aragona. I tentativi di accordo con il re Giacomo II (come pure l'accusa di aver congiurato contro il signore di Pisa, Ranieri di Donoratico, che pose una taglia di 10.000 fiorini sulla sua testa) dimostrano come il C. fosse allora pronto ad abbandonare lo schieramento imperiale e ad allearsi con Firenze, se questo avesse potuto servire all'affermazione del suo dominio personale. Fallito tuttavia il progetto di alleanza con gli Aragonesi, il 29 maggio 1324 il C. ottenne da Ludovico il Bavaro attraverso tre diplomi un pieno riconoscimento della sua autorità.
Nel primo, rivolgendosi al C. come al "vicarius Lucanorum",Ludovico il Bavaro riconosceva che il condottiero era stato "praecipuus in partibus Italiae pro Sacro Imperio pugilis" e gli conferiva il vicariato su tutte le terre già elencate nel diploma di Federico III e inoltre su Pontremoli e altri centri della Val di Magra recentemente occupati; con il secondo, identico nel formulario, conferiva al C. il vicariato della città di Pistoia, del suo contado e del suo distretto; con il terzo annullava, per i meriti del C., "vicarius" di Lucca, ogni sentenza emessa da Arrigo VII contro la città. Ludovico il Bavaro dunque riconosceva una precedente legittimità del potere del C., almeno in quanto signore di Lucca, anche se non sembra esser quella derivante dal diploma di Federico III; essa sembrerebbe trovare invece fondamento nell'elezione fatta da un Comune che si riconosceva fedele dell'Impero. Del resto, non importa tanto il significato che il titolo di "vicarius" poteva aver avuto nel passato, quanto il suo peso reale al momento della concessione del Bavaro e negli anni futuri: dato che soltanto dopo di essa il C. si intitolò vicario imperiale e si mosse, di conseguenza, con molta maggiore audacia e sicurezza nelle lotte politiche e militari italiane. Inoltre, attraverso uno dei suoi principali collaboratori, il giurista Ugolino da Celle, il C. non mancò di dare il suo contributo alla stessa teorizzazione dei diritti imperiali.
L'elemento decisivo delle concessioni sollecitate da Ludovico il Bavaro era il conferimento del vicariato su Pistoia: il C., che nel corso del 1323 e dei primi mesi del 1324 aveva accarezzato il progetto di farsi signore di Pisa e di parte della Corsica con la protezione degli Aragonesi e della Curia avignonese, e con la complicità di Firenze (una scelta significativamente "mediterranea"), tornò alla tradizionale linea antifiorentina dello schieramento ghibellino: la ragione di questo rapido mutamento di fronte va probabilmente ricercata nel timore che Firenze, approfittando della crisi di Pisa, riuscisse a isolare completamente Lucca, specie con provvedimenti che hanno potuto far parlare di vera e propria guerra economica.
Quasi un anno trascorse prima che il C. riuscisse ad insignorirsi di Pistoia; un anno di guerriglia nel contado e di trame politico-diplomatiche all'interno della città, a Prato, nella stessa Firenze, volte a logorare le forze guelfe e a recidere i rapporti di dipendenza di Pistoia dalla città del giglio. La signoria dell'abate Ermanno de' Tedici, prima, e quella di suo nipote Filippo, in seguito, offrirono al C. più d'una occasione di intervenire per sottrarre la città all'influenza fiorentina, finché, dopo la riconciliazione fra Ludovico il Bavaro e Federico d'Austria del 13 marzo 1325, e dopo una nuova scomunica il 30 aprile - che troncò ogni possibilità di segrete intese fra il lucchese e la Curia avignonese -, il C., d'accordo con Filippo de' Tedici, il 5 maggio occupò Pistoia. Assunta così di fatto la carica di vicario imperiale della città, il C. ne affidò il governo allo stesso Tedici, cui diede in sposa la figlia Dialta; portò quindi alla riconciliazione il Comune e i fuorusciti e munì Pistoia di nuove opere di fortificazione.
La reazione fiorentina fu immediata e tanto più violenta quanto inattesa era stata l'occupazione di Pistoia in un momento in cui Firenze appariva largamente superiore sul piano economico e militare: proprio il giorno successivo alla caduta di Pistoia giunse a Firenze il nuovo comandante dell'esercito fiorentino, lo spagnolo Ramón de Cardona, che era stato ingaggiato dopo mesi di trattative. Già ai primi di giugno l'esercito fiorentino mosse contro Pistoia; il C. non reagì e l'offensiva venne allora portata verso la Lucchesia. Il C. fu costretto a ritirarsi in Valdinievole, fra Vivinaia e Montechiari, per sbarrare al nemico la via di Lucca. Segno palese della sua debolezza in questi frangenti fu l'elezione del suo primogenito Arrigo a capitano generale di Lucca a vita. In effetti il C. continuava a mantenersi sulla difensiva e fu costretto a lasciar occupare Altopascio dai Fiorentini il 25 agosto. Le incertezze manifestatesi nel campo fiorentino, l'insalubrità della paludosa pianura in cui si era attestato, ma soprattutto i rinforzi venuti dai fuorusciti ghibellini di Genova e da Azzone Visconti, che giunse in Lucchesia alla testa di 800 cavalieri tedeschi e francesi, aprirono al C. la strada per la grande vittoria di Altopascio del 23 sett. 1325: nelle mani del lucchese restò un enorme bottino di uomini e di beni e lo stesso Ramón de Cardona, ferito, fu condotto prigioniero a Lucca.
Dopo la vittoria di Altopascio - che ebbe larghissima eco e sembrò segnare la definitiva vittoria del ghibellinismo in Toscana - le truppe del C. e di Azzone Visconti dilagarono fino alle porte di Firenze, dove il 4 ottobre, giorno di s. Francesco, il lucchese fece correre "palii a cavagli, a uomini e a meretrici" "in dispregio de' Fiorentini" (Machiavelli, Vita, p. 27). La stagione avanzata sconsigliò il C. dall'attaccare Prato e la stessa Firenze, e l'11 novembre, giorno di s. Martino, patrono di Lucca, egli rientrò nella sua città con fasto trionfale.
Per uscire dalla difficile situazione, Firenze elesse a signore Carlo d'Angiò duca di Calabria, che non sarebbe giunto in Toscana che nell'estate del 1326. Nel frattempo, tuttavia, l'esercito fiorentino fu in grado di far fronte alla minaccia dell'esercito lucchese nonostante la perdita di Montemurlo (8 genn. 1326), l'incendio di Signa (28 febbr. 1326) e la proclamazione del C. a capitano della parte imperiale di Firenze (9 marzo 1326). È dubbio che il C. ritenesse seriamente di poter piegare con le sue forze Firenze e il vano progetto di "far siepe ad Arno" alla stretta di Signa, se realmente fu accarezzato - con l'intento di inondare la città -, testimonia da solo delle difficoltà dell'impresa. Èprobabile che il C. mirasse piuttosto a far scendere a patti i Fiorentini per garantire la sicurezza dei suoi domini, e a questo fine nel luglio tentò invano di accordarsi con il legato pontificio Giovanni Orsini che era sbarcato a Pisa, diretto a Firenze, il 23 giugno.
Superata nell'estate una grave malattia e di nuovo scomunicato, questa volta per eresia, il 30 ag. 1326, il C. dovette affrontare nell'autunno le armi fiorentine condotte da Carlo duca di Calabria: questi fece una spedizione contro San Miniato, sollecitò un intervento di Spinetta Malaspina in Lunigiana, tentò di far attaccare dal mare le coste della Toscana settentrionale che erano controllate dal C., riuscì a far sollevare due piccoli centri della montagna pistoiese, Mammiano e Gavinana, promosse spedizioni contro Pistoia. Ma i danni subiti dal C. furono irrilevanti; del resto, ormai, l'attenzione di tutta la Toscana era rivolta alle mosse di Ludovico il Bavaro, di cui si dava per imminente la discesa in Italia.
A Trento, dove nel gennaio del 1327 l'imperatore tenne parlamento, furono presenti gli inviati del C., che non si era mosso dai suoi domini, perché impegnato nel tentativo di strappare Vico ai Pisani e nell'organizzazione di un colpo di mano con i fuorusciti genovesi che aveva come obiettivo la conquista di Sestri Levante. Se non vi eran dubbi sull'assoluta solidarietà e fedeltà del C. nei confronti dell'imperatore (il 25 marzo 1327 a Firenze venne nuovamente promulgata la scomunica del lucchese), la posizione del signore di Lucca non era certo tale da consentirgli una grande libertà di movimento: nel giugno egli scoprì e spense nel sangue nella sua stessa Lucca una congiura ordita dalla famiglia dei Quartigiani su ispirazione del duca di Calabria; nel luglio-agosto dovette subire senza poter reagire un attacco fiorentino in Valdarno che portò alla perdita di Santa Maria a Monte e di Artimino.
Alla notizia che Ludovico il Bavaro stava per giungere in Toscana i Fiorentini si ritirarono, e il C. accolse l'imperatore a Pontremoli il 1º sett. 1327. Il condottiero lucchese poteva presentare al suo protettore una Toscana posta abbastanza saldamente - e per quasi esclusivo suo merito - sotto il controllo ghibellino: la strada per Roma appariva libera e i Fiorentini, soggetti alla signoria di un duca di Calabria che avrebbe presto preferito far ritorno nel Napoletano, non potevano certo costituire un serio ostacolo alla marcia del Bavaro. L'unica difficoltà stava nel reciproco sospetto esistente fra Pisani e Lucchesi, tra i vecchi e i nuovi alfieri del ghibellinismo toscano. Pisa non si decideva ad aprire le porte all'imperatore nel timore, più che giustificato, di dover soggiacere al C.; quest'ultimo era ormai giunto alla convinzione che soltanto attraverso il dominio su Pisa si potesse definitivamente condizionare Firenze. Ludovico il Bavaro assediò la città per oltre un mese, ma quando essa capitolò, l'8 ottobre, si impegnò a vietare l'ingresso al C. e ai fuorusciti, e, nonostante un moto popolare favorevole al lucchese, insignì del vicariato di Pisa Baverio dei Salinguerri di Gubbio. La formale rinuncia del C. a Pisa venne sancita, dopo una visita a Lucca e a Pistoia, dall'investitura che il 17 nov. 1327 Ludovico il Bavaro dette al lucchese del ducato ereditario di Lucca, Pistoia, Luni e Volterra. Volterra, che ancora non era stata - e non lo fu mai - conquistata dal C., sembra esser stata la contropartita della esclusione di Pisa. In ogni caso la dignità ereditaria di duca e il grado di gonfaloniere del Sacro Romano Impero (titolo inusitato, e mutuato dalla Chiesa) di cui venne insignito erano un fatto senza precedenti al di qua delle Alpi e ponevano il C. in una posizione analoga a quella dei grandi principi tedeschi. Nessuna delle signorie italiane aveva infatti mai ottenuto un tale crisma di legalità nel quadro del sistema imperiale; un simile traguardo rappresentava il capolavoro politico di un uomo che aveva sistematicamente operato con scrupolosa osservanza di ogni forma di potere giuridicamente sanzionato. Come nell'attività militare, così nell'attività politica e diplomatica, nulla era stato da lui lasciato al caso, e in questo senso la figura del C. appare storicamente del tutto opposta a quella dell'avventuriero che ci si è talora compiaciuti di descrivere.
Preoccupato di organizzare il suo dominio in occasione di quella che sarebbe stata, nelle previsioni, la sua più lunga assenza dalla Toscana, il C. non seguì immediatamente l'imperatore nel viaggio verso Roma, ma lo raggiunse a Viterbo ai primi del gennaio 1328 con 300 cavalieri e 1.000 balestrieri. L'imperatore e il condottiero lucchese marciarono ben presto su Roma dove entrarono senza colpo ferire. Il 17 gennaio Lodovico il Bavaro venne incoronato in S. Pietro: tenne la corona durante la consacrazione il C., da poco creato conte palatino lateranense, e in quella stessa occasione armato cavaliere dall'imperatore. Il giorno successivo il C. venne nominato vicario della città e si trasferì in Campidoglio a esercitare le funzioni di senatore di Roma, carica assunta dal Bavaro fin dall'11 gennaio. L'annuncio del fidanzamento del primogenito del C., Arrigo, con la figlia di Sciarra Colonna valse a sottolineare ulteriormente la posizione di altissimo rilievo raggiunta da colui che era ormai divenuto il braccio destro dell'imperatore. Il lucchese toccò allora il culmine della sua carriera e la pompa di cui si circondò colpì profondamente l'immaginazione dei contemporanei, fra cui il pur guelfissimo Villani: da lui il Machiavelli trasse materia per l'icastica immagine del C., "el più propinquo amico" del Bavaro, che, assumendo la carica di vicario di Roma, "si misse una toga di broccato indosso con lettere dinanzi che dicevano: Egli èquel che Dio vuole;e di dietro dicevano: E' saràquel che Dio vorrà" (Vita, pp. 23-24).
Ma non erano ancora trascorsi dieci giorni dall'incoronazione romana che i Fiorentini, guidati dal vicario di Carlo d'Angiò, Filippo di Sangineto, attaccarono Pistoia e riuscirono a conquistarla con estrema facilità. Avuta la notizia della caduta della città, il C. lasciò immediatamente Roma e, a marce forzate, precedendo i suoi uomini, giunse a Pisa già il 9 febbraio. Questo rapido intervento del condottiero lucchese servì a bloccare ogni ulteriore iniziativa fiorentina, ma il C., con la consueta e sperimentata tattica temporeggiatrice, lasciò trascorrere tre mesi prima di passare decisamente al contrattacco. L'incertezza sulle intenzioni dell'imperatore, che prolungava il soggiorno romano e che aveva sostituito al C. come vicario della città il figlio di Uguccione della Faggiuola, Ranieri, convinsero il lucchese a rafforzare la sua posizione in Toscana. È infatti del febbraio un tentativo non riuscito contro Montopoli in Valdarno; del marzo una spedizione nella piana di Pistoia per vettovagliare il castello di Montemurlo; dell'aprile un concreto appoggio alla ribellione di Montemassi contro i Senesi, sollecitata per staccare Siena dalla lega guelfa. Il maggior successo del C. in questo periodo fu comunque il conseguimento della signoria di Pisa (a Fazio Novello di Donoratico il lucchese aveva fra l'altro dato in moglie la figlia Bertecca), cui venne chiamato per due anni il 29 apr. 1328. Ludovico il Bavaro fece buon viso a cattivo gioco e un mese dopo ratificò di fatto l'elezione, ma conferendo al C. non il titolo di duca di Pisa, cui probabilmente egli aveva aspirato, ma quello di vicario imperiale, che rendeva il possesso di Pisa e del suo territorio assai più precario di quello di Lucca e delle altre terre di cui il C. era stato investito poco più di sei mesi prima.
Da Pisa il 13 maggio il C. dette il via alla spedizione per la riconquista di Pistoia che sarebbe tornata nelle sue mani il 3 agosto senza che si fosse giunti ad un'aperta battaglia campale, pur sollecitata dai Fiorentini, ma sempre rifiutata dal C., il quale peraltro guidò personalmente, senza concedersi requie, tutte le operazioni d'assedio. Per le febbri contratte durante le fatiche militari il C. sarebbe morto di lì a poco, il 3 sett. 1328, all'età di quarantasette anni, nella fortezza lucchese dell'Augusta. L'ultimo mese di vita del condottiero, non solo per la malattia, che venne tenuta accuratamente segreta, trascorse fra grandi incertezze: Ludovico il Bavaro aveva lasciato Roma, avviandosi verso il Nord e cio rendeva possibile un duplice attacco contro Firenze da parte del C. e dell'imperatore. Ma la prospettiva di poter intraprendere la spedizione contro gli Angiò fermò la marcia di Ludovico il Bavaro, che si trovava in Maremma, all'assedio di Grosseto, quando giunse la notizia della morte del duca di Lucca.
Secondo il Villani il C., deluso dall'imperatore, avrebbe cercato negli ultimi giorni di vita di venire ad un accordo con Firenze contro Ludovico il Bavaro; ma la notizia non è certa, e si può pensare che il Villani abbia voluto fornire una ragione specifica dell'avversione più tardi manifestata dall'imperatore contro i figli del C., cui venne impedita la successione nelle cariche del padre.
In realtà i rapporti fra il C. e l'imperatore negli ultimi mesi si erano probabilmente assai raffreddati, non tanto per la questione di Pisa, aspetto particolare del contrasto, quanto più per la volontà del C. di dedicarsi piuttosto alla difesa dei suoi domini che non alle avventurose iniziative di Ludovico il Bavaro.
La morte del C. venne tenuta segreta, per sua stessa disposizione, per alcuni giorni per consentire ai figli, soprattutto ad Arrigo, di succedergli nei suoi domini; il fatto che ciò non sia avvenuto e che Lucca, Pistoia, Pisa e tutte le altre terre signoreggiate dal C. abbiano quasi immediatamente recuperato la loro indipendenza, dimostra quanto fragile fosse la costruzione politica del lucchese. Allo stato attuale degli studi è praticamente impossibile verificare in che misura la signoria del C. abbia potuto incidere sulle terre a lui soggette, nel campo dell'amministrazione civile, della giustizia, dell'organizzazione fiscale e via dicendo. Sugli stessi modi di gestione del potere da parte del C. restano numerosi interrogativi, soprattutto per la mancanza di fonti. Si può tuttavia affermare con fondamento che il C. non ebbe il tempo materiale di plasmare secondo la sua volontà lo Stato che era appena riuscito a costruire, né la possibilità di dare unità alle forze composite che con immenso sforzo era riuscito a collegare. Eppure già soltanto le sue realizzazioni diplomatiche e militari in meno di quattordici anni hanno dello straordinario.
La leggenda secolare che si venne intessendo attorno al lucchese - al punto che le sue imprese poterono essere collocate dalla tradizione popolare perfino nell'antichità romana - testimonia l'impressione di quasi estraneità al suo tempo, e a ogni tempo, che dette ai contemporanei e ai posteri il personaggio del Castracani. Nel suo stesso testamento il C. - che disponeva di esser sepolto in S. Francesco vestito dell'umile saio - si dichiarava semplice strumento di Dio che "nos ... licet immeritos, tot tantisque honoribus et dignitatibus extulit, ut non sufficiat lingua nostra proferre, neque mens nostra concipere".
In realtà questo condottiero figlio di mercanti, questo cittadino erede di nobili "feudali" fu uno dei maggiori interpreti dell'età del tramonto del Medioevo in Italia e, come il suo quasi contemporaneo Dante Alighieri, ne visse fino in fondo le esasperate contraddizioni. Non il solo C., "furmica ex pulvere",come lo definì Marin Sanuto il Vecchio, era venuto dal nulla, ma il suo stesso dominio era stato creato partendo da basi quasi inconsistenti in un ambito politico refrattario ad ogni coesione: al di là della sua fantasiosa ricostruzione dei fatti, l'intuizione del Machiavelli di una equazione principe-Stato appare ancor oggi fondamentale per la comprensione della figura storica del Castracani.
Fonti e Bibl.: Tutte le principali fonti relative al C., sia documentarie sia narrative, sono edite, e ad esse si può agevolmente risalire dalle opere di seguito elencate. In particolare si è ritenuto di poter omettere, con una sola eccezione, l'indicazione delle cronache, soprattutto di quelle toscane, che sono le fonti cui più generalmente si è attinto. Quanto alla bibliografia ci si è limitati ai titoli più significativi e più recenti; ad essi ed alle indicazioni bibliografiche che sono in essi contenute si dovrà ricorrere per più specifiche esigenze e per il tema, qui non toccato, della fortuna del C. nella tradizione popolare, nella letteratura e nella storiografia. Willelmi cappellani in Brederode... Chronicon, a cura di C. P. Hordijk, Amsterdam 1904, pp. 206, 253 s., 261 s.; N. Tegrimi, Vita Castrucii Antelminelli Castracani Lucensis Ducis, in L. A. Muratori, Rer. Italic. Script., XI, Mediolani 1727, pp. 1308-44; N. Machiavelli, La vita di C. C. da Lucca, in Ist. fiorentine, a c. di F. Gaeta, Milano 1962, pp. 3-41; A. Manucci, Le azioni di C. Castracane degl'A. signore di Lucca, a cura di L. Guidotti, Lucca 1843; T. Bini, Su i Lucchesi a Venezia. Memorie dei secoli XIII e XIV, in Atti dell'I. R. Accademia lucchese di scienze, lettere e arti, XV (1855), pp. 71 ss., 88, 163 s., 171; S. Bongi, Bandi lucchesi del secolo decimoquarto tratti dai registri del R. Arch. di Stato in Lucca, Bologna 1863, pp. 238-243; J. Ficker, Urkunden zur Gesch. des Römerzuges Kaiser Ludwig des Baiern und deritalienischenVerhältnisse seiner Zeit, Innsbruck 1865, passim;G. Sforza, Della signoria di C. e de' Pisani sul borgo e forte di Sarzanello in Lunigiana, in Atti e Mem. della R. Deput. di st. patria per le prov. modenesi e parmensi, V (1870), pp. 323-65; Id., C. C. degli A. in Lunigiana, ibid., s. 3, VI (1891), 2, pp. 301-572; Id., C. C. e i lucchesi di parte bianca in esilio, in Mem. dell'Acc. delle scienze di Torino, sezione di scienze morali, storiche e filologiche, s. 2, XLII (1892), pp. 47-104; P. Vigo, Uguccione della Faggiola podestà di Pisa e di Lucca, Livorno 1879, passim;G. Simonetti, I biografi di C. C.,in Studi stor., II, (1893), pp. 1-24; F. Winkler, C. C. Herzog von Lucca, Berlin 1897; G. Volpe, Pisa, Firenze, Imperia, al principio del 1300 e gli inizi della Signoria civile a Pisa, in Studi storici, XI (1902), pp. 193-219, 293-337; Th. E. Mommsen, C. el'Impero, in C. C. degli A. Miscellanea di studi storici e letterari edita dalla Reale Acc. lucchese, Firenze 1934, pp. 33-45 (ora in Medieval and Renaissance Studies, New York 1959, pp. 19-32); A. Sapori, Firenze e C. Tentativo di guerra econ., ibid., pp. 59-72; Q. Santoli, Pistoia e C., ibid., pp. 93-146; A. Mancini, C. in Inghilterra. Contr. alla storia dell'emigrazione italiana nel Trecento, ibid., pp. 147-164; P. Campetti, Ritratti di C. C., ibid., pp. 261-279; E. Lazzareschi, Docc. della signoria di C. C. conservati nel R. Arch. di Stato in Lucca, ibid., pp. 281-409; F. P. Luiso, I Cavalieri teutonicifondatori di una cappella dedicata a S. Giorgio nel Duomo di Lucca, in Boll. stor. lucchese, VIII (1936), pp. 167, 171 ss.; Id., Mercatanti lucchesi dell'epoca di Dante, II, Gli anten. di C. C., ibid., X (1938), pp. 69-94; G. Rossi Sabatini, Pisa al tempo dei Donoratico, Firenze 1938, passim;F. Bock, Iprocessi di Giovanni XXII contro i Ghibellini italiani, in Arch. d. R. Deput. romana di st. patria, LXIII(1940), p. 141; R. Piattoli, Docc. per la storia di C. A. e delle sue imprese, in Boll. stor. lucchese, XV (1943), pp. 3-31; Th. E. Mommsen, Italien. Analekten z. Reichsgesch. des 14. Jahrhunderts (1310-1378), Stuttgart 1952, nn. 148, 189; R. Davidsohn, Storia di Firenze, III, Le ultime lotte contro l'Impero, Firenze 1960, ad Indicem;A. Mancini, Storia di Lucca, Firenze 1950, passim;L. Mosiici, Ricerche sulla cancell. di C. C., in Ann. della Scuola speciale per archiv. e bibliot. dell'Univ. di Roma, VIII(1967), pp. 1-86; Id., La dediz. a C. A. dei fuorusciti pistotesi di parte imperiale e di alcune comunità della valle del Vincio, Borra e della Valdinievole superiore, in Bull. stor. pistoiese, LXXIV (1972), 1-2, pp. 87-117; T. W. Blomquist, The Castracani Family in Thirteenth-Century Lucca, in Speculum, XLVI (1971), pp. 459-476; R. Piattoli, L'imper. Carlo IV e una ... azione di C. C. d. A. come signore e vicario di Pisa (1328), in Studi stor. in on. di O. Bertolini, II, Pisa 1972, pp. 599-618; T. Sampieri, Gliinizi di C. C. degli A. fra mercatura e arte militare, in Studi sul Medioevo cristiano offerti a R. Morghen, II, Roma 1974, pp. 873-887; R. Mignani, Un canzoniere italiano inedito del sec. XIV, Firenze 1974, p. 60.