CATALANO
Figlio di Guido di donna Ostia, bolognese, nato presumibilmente nel primo decennio del Duecento, apparteneva a ragguardevole famiglia di tradizione guelfa.
Benché sulla scorta di Giovanni Villani (Cronica, VII, 13), venga ricordato nella letteratura storica e critica frequentemente col cognome di Malavolti, tale specificazione non risulta mai attestata nelle fonti e nei documenti a lui coevi, nei quali egli viene sempre ricordato come "Catalanus domini Guidonis domine Hostie". Lo stesso cognome Catalani, col quale egli viene anche indicato in certa storiografia posteriore, non è mai attribuito a lui dalle fonti, ma compare per la prima volta nel 1279 in riferimento ad un suo fratello, Enrico.
La sicura fede guelfa del padre di C. trova conferma nel fatto che dopo la vittoria di Fossalta (nella battaglia C. ebbe il comando di una parte della fanteria bolognese) gli furono affidati in custodia alcuni prigionieri. Anche l'attività politica di C. fu decisamente orientata in senso guelfo, a partire dai suoi esordi, nel 1241, quando fu chiamato a Milano come podestà; nel 1248 fu podestà dei guelfi reggiani fuoriusciti. Furono le prime tappe di una densa carriera politica, che lo portò a reggere numerose città, a volte in condizioni particolarmente difficili e delicate, come nel 1250, quando fu podestà di Parma, centro assai importante nella lotta contro Federico II. In tale occasione C. prese parte, il 18 ag., alla sfortunata battaglia contro i Cremonesi ed i fuorusciti parmensi, e dovette alla sua abilità se riuscì a non cadere prigioniero. Nel 1256 venne chiamato a reggere, da solo, la podesteria di Modena, fatto questo eccezionale, perché dal dicembre del 1249 la città era stata governata da due podestà, l'uno guelfo e l'altro ghibellino, uso al quale si ritornò, d'altra parte, anche in seguito, sino al 1258. La nomina del solo C. può spiegarsi ammettendo che il bolognese, per l'azione di governo saviamente moderata di cui aveva dato prova in altre città, nel corso dei suoi incarichi precedenti, poteva apparire ai Modenesi come elemento pacificatore e come un garante degli equilibri interni. Podestà di Mantova nel 1258 e nel 1259, di Piacenza nel 1260 - ma qui non poté concludere il suo mandato -,nel 1261 entrò nella Milizia della Beata Vergine Maria Gloriosa, Ordine che si veniva costituendo con caratterizzazione spiccatamente nobiliare per iniziativa di Loderengo degli Andalò e di altri nobili a Bologna, e che aveva tra i fini istituzionali quelli di conciliare le fazioni e di tutelare la pace cittadina. Sembra definitivamente acquisito dalla storiografia che C. non fu tra i fondatori del movimento e che non partecipò alla prima adunanza, tenutasi in S. Domenico il 25 marzo; il suo ingresso nella Milizia deve essere tuttavia posto nei mesi immediatamente successivi, in ogni caso prima della solenne conferma della regola da parte del papa Urbano IV sul finire dell'anno. L'Ordine, più conosciuto sotto la denominazione quasi originaria e ufficiosa di fratres o milites gaudentes che venne in seguito adoperata in senso ironico dagli avversari, comprendeva le categorie dei cavalieri conventuali, dei cavalieri coniugati, dei cavalieri chierici: C. venne ascritto a quella dei cavalieri coniugati. Dal suo ingresso nella Milizia prese avvio la lunga consuetudine che legò, nello stato monastico e nell'attività pubblica, C. a Loderengo degli Andalò. Assieme a Loderengo fu chiamato infatti nel 1265 a governare Bologna come arbitro e pacificatore in un momento particolarmente difficile perché la situazione interna era in continuo deterioramento a causa dei contrasti tra la fazione dei Geremei e quella dei Lambertazzi che dividevano la città.
Le ragioni della scelta sono probabilmente da ricercarsi nel fatto che C. e Loderengo, oltre ad avere una solida esperienza politico-amministrativa, godevano entrambi di potenza e prestigio personali assai notevoli; erano inoltre figure tali da completarsi a vicenda sul piano delle correnti politiche, essendo l'uno guelfo, geremeo, e in grado di stabilire rapporti con gli esponenti del popolo grasso, e l'altro essendo ghibellino, lambertazzo, e in condizione di imporsi anche ai più influenti magnati. La loro opera di governo impedì comunque il precipitare della situazione, e si concretò fra l'altro in una raccolta di statuti e, soprattutto importante, nella creazione di un istituto, poi ampiamente diffusosi anche al di fuori di Bologna, quello dei Libri memoriali. In tali Libri, al fine di evitare frodi o alterazioni abusive, dovevano venir registrati, obbligatoriamente e sotto il controllo della pubblica autorità, le emancipazioni, gli atti di ultima volontà e tutti i contratti fra privati per valori eccedenti una somma stabilita, che all'inizio fu di 20 lire.
Concluso felicemente il mandato, l'anno successivo - forse nella speranza che potesse raggiungervi quegli stessi risulti che aveva ottenuto a Bologna - C. venne inviato a reggere Firenze.
La situazione interna di Firenze, tuttavia, era ben diversa da quella della città emiliana, ed attraversava allora un momento di estrema delicatezza. Di fronte ai ghibellini, che detenevano ancora il potere sebbene fortemente indeboliti dalla crisi generale del ghibellinismo italiano seguita alla battaglia di Benevento, stavano - sempre più attivi e intraprendenti - i guelfi, che avevano l'appoggio di papa Clemente IV, alto signore della città, e di Carlo d'Angiò; mentre il popolo grasso, non direttamente coinvolto nei maneggi politici e negli antagonismi personali dei due partiti maggiori, mirava a riconquistare un effettivo potere politico.
Il 12 maggio 1266 C. venne designato, col titolo di rettore, al governo provvisorio di Firenze dal papa, che gli dette come collega Loderengo degli Andalò. Tuttavia, sia C. che Loderengo dovevano rendersi ben conto di come le circostanze lasciassero loro, nel caso specifico, scarsissimi margini di autonomia d'azione, tanto più che, per la loro appartenenza ad un Ordine religioso, erano vincolati dal voto di obbedienza al pontefice, lui stesso parte in causa e interessato ad instaurare in Firenze un governo a lui favorevole. Dovettero dunque essere assai riluttanti ad accettare l'incarico (ed infatti più volte, in seguito, chiesero di esserne esonerati), se il pontefice - il quale nel suo disegno di controllo politico su Firenze e sulla Toscana ai frati bolognesi riservava, in definitiva, una funzione meramente strumentale - impose loro l'accettazione della nomina "sub virtute obedientie". In tale equivoca posizione, che li vedeva pregiudizialmente responsabili di decisioni prese da altri, all'esterno di Firenze, C. e il suo collega iniziarono, il 1º luglio, il loro mandato: ma era inevitabile che, date le premesse, la loro linea di governo dovesse risultare ambigua e incoerente, tanto da finire con lo scontentare non solo i Fiorentini, ma lo stesso Clemente IV, dei cui progetti avrebbero dovuto invece essere i fedeli esecutori. Incapaci di controllare le diverse forze in gioco e costantemente superati da una realtà politica in rapida evoluzione, C. e Loderengo non riuscirono né a fornire un efficace appoggio al partito guelfo né poterono evitare collusioni tra i ghibellini e il popolo grasso, di cui erano espressione le arti maggiori, che i rettori si videro costretti a riammettere alla gestione della cosa pubblica. Anche gli eventi cruciali dell'anno - la rivolta del Popolo e l'uscita da Firenze di Guido Novello, dei suoi cavalieri tedeschi, e di tutti i suoi sostenitori (avvenuta l'11 novembre) -, eventi nei quali C. e Loderengo avevano giocato una parte non secondaria, finirono sul momento con il tornare a vantaggio non dei guelfi, ma del Popolo, che si elesse un capitano nella persona di Pietro Bernardi da Orvieto, e nominò un consiglio di trentasei uomini eletti per la riforma della città, impadronendosi in tal modo del governo. Esautorati di fatto nei loro poteri politici dai Trentasei, anche se ufficialmente rimasero in carica come supremi magistrati di Firenze, C. e Loderengo vennero soppiantati anche nelle loro funzioni di rappresentanti del papa da Elia Peleti, canonicodi Beauvais, che Clemente IV, preoccupato per la restaurazione del governo popolare, si era affrettato ad inviare come suo legato a Firenze. Alla fine di dicembre, giurata la pace interna tra guelfi, e ghibellini, C. e Loderengo lasciarono Firenze.
Il giudizio dei Fiorentini su C. e sul suo rettorato, che era apparso ai più debole e incoerente, non poteva essere positivo, perché tutte le parti in causa avevano avuto - sia pure per opposte ragioni - motivo di dolersene: e di questo risentimento si fece interprete Dante, che relegò C, tra gli ipocriti nella sesta bolgia dell'ottavo cerchio dell'Inferno, richiamandosi esplicitamente ai fatti del 1266 (Inferno, XXIII, vv. 76 ss.). La condanna di Dante, unita alla polemica contro i frati gaudenti avviata già da Salimbene de Adam, ha avuto un peso notevole nel giudizio che su C. hanno dato studiosi e critici posteriori, i quali hanno ceduto a valutazioni più spesso denigratorie e moralistiche, o, talora, polemicamente encomiastiche.
Rientrato in Bologna, C. ebbe di nuovo parte nelle vicende politiche della sua città, ancora una volta accanto a Loderengo degli Andalò. Nel 1267 venne infatti eletto con quest'ultimo arbitro per risolvere i contrasti che sempre più turbavano lo equilibrio interno della città emiliana. La sua opera non ebbe tuttavia che degli effetti limitati e transitori. Èben vero che riuscì a riconciliare tra loro alcune fra le maggiori famiglie cittadine, inducendole a giurare, secondo la prassi allora in uso, paci private; ma queste paci fra privati non potevano ormai influire su una realtà politica irrimediabilmente deteriorata, né contribuire a comporre dissidi che sarebbero sfociati pochi anni dopo nell'espulsione dei Lambertazzi. Dopo il 1267 C. abbandonò la vita pubblica e si ritirò a Ronzano, sulle colline bolognesi, dove il suo Ordine aveva stabilito una nuova sede. Dal ritiro di Ronzano, dove si trovava anche l'Andalò e dove C. viveva con la terza moglie, continuò a curare i suoi consistenti interessi, sparsi tra Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, una cura resa più attenta dalla sua complessa situazione familiare. Ed a Ronzano C. morì nel 1285, tra il 18 gennaio e l'8 marzo.
C. si era sposato tre volte: con una Beatrice, con una Sismonda di Leonetto, e con una Chiarissima. Dalla prima moglie ebbe tre figli maschi: Iacopo, Guglielmo e Giovanni, che emancipò nel 1268,assegnando loro terre e case (una di queste ricomprò in seguito, nel 1274,da Guglielmo per 350 lire di bolognesi). Ebbe anche tre figliole: Catalina, Bartolomea (I) - ignoriamo se dalla prima o dalla seconda moglie -, e Bartolomea (II), quest'ultima da Chiarissima.
Il ruolo svolto da C. all'interno dell'Ordine della Milizia di Maria Vergine fu modesto: ricoprì infatti incarichi di importanza locale, tranne che nel 1268, quando fu definitore del capitolo generale che si tenne a Reggio nell'Emilia, e nel 1284, quando sarebbe stato superiore provinciale per la Lombardia inferiore. Il Gozzadini cita (p. 177)un documento del 1272in cui C. viene indicato come "curator et administrator fratrum Ordinis b. Marie Virginis",ma sembra che con tale espressione si sia inteso dire che C. era l'amministratore dei beni del suo Ordine nel bolognese, se non addirittura del solo convento di Ronzano. Secondo il Federici, inoltre, C. sarebbe divenuto priore del convento stesso di Ronzano, succedendo a Loderengo degli Andalò.
Fonti e Bibl.: Corpus chronic. Bononiensium, II, in Rer. Ital. Script.,2 ed., XVIII, 1, a cura di A. Sorbelli, pp. 163 s., 167; Iohannis de Bazano Chronicon Mutinense, ibid., XV, 4, a cura di T. Casini, p. 30; Liber Paradisus, a cura di F. S. Gatta-G. Plessi, Bologna 1956, pp. 12, 29; Salimbene de Adam, Cronica, a cura di G. Scalia, Bari 1966, pp. 488, 678; C. Ghirardacci, Della historia di Bologna, I, Bologna 1596, pp. 173 s.; D. M. Federici, Istoria de' Cavalieri Gaudenti, Venezia 1787, pp. 194, 344 ss.; G. Gozzadini, Cronaca di Ronzano e mem. di Loderingo d'Andalò, Bologna 1851, passim;A. Hessel, Geschichte der Stadt Bologna von 1116 bis 1280, Berlin 1910, pp. 474, 477; R. Davidsohn, St. di Firenze, II, Firenze 1956, pp. 817 ss., 823, 825 s., 828 s., 831-35; G. Salvemini, Magnati e popol. in Firenze, Torino 1960, pp. 282 ss.; G. Roversi, L'Ordine della Milizia di Maria Vergine Gloriosa...,in Ronzano e i Frati Gaudenti, Bologna 1965, pp. 11-50; R. Santi, Le limpide glorie di Ronzano: i Frati Gaudenti, ibid., pp. 62 s.; E. Bonora, in Enc. Dantesca, I, Roma s. d. (ma 1970), sub voce.