MORONE, Cataldo
(in religione Bonaventura). – Nacque a Taranto nel 1560 da Marco, esponente di un’agiata famiglia cittadina, e da Franceschina De Caressina. Ebbe un fratello di nome Bartolomeo. Le date di nascita del 1554 e del 1557 riportate da alcuni biografi sono infondate; quella del 1560 si ricava dal resoconto di una visita pastorale al seminario di Taranto effettuata nel 1594 dall’arcivescovo Lelio Brancaccio, durante la quale Morone dichiarò all’arcivescovo di avere 34 anni («dixit […] et esse aetatis annorum triginta quattuor», Taranto, Curia arcivescovile, Acta s. visitationis Laeli Brancaccii archiepiscopi Tarentini, c. 54r).
Il documento è utile anche per altre notizie relative al primo periodo della vita di Morone. Da esso si ricava che si laureò in teologia a Napoli; che prima del 1594 aveva già pubblicato alcuni libri; che possedeva una ricca biblioteca di testi sacri e di classici greci e latini. Divenne sacerdote nel 1584 per assecondare il desiderio paterno, dopo aver frequentato il seminario nella città natale, dove avrebbe insegnato retorica, filosofia e teologia, e sarebbe poi divenuto vicario generale e infine rettore. Nel concilio provinciale del 1595, indetto dallo stesso Brancaccio, rivestì il ruolo di predicatore ufficiale, mentre nel sinodo provinciale del medesimo anno fu consultore ed esaminatore. Sempre per incarico di Brancaccio, nel 1586 realizzò un catechismo in latino a uso dei numerosi greci e albanesi che dimoravano a Taranto, ricevendo l’approvazione della S. Sede per il tramite del cardinale Giulio Antonio Sartorio. Il 16 maggio 1604 vestì l’abito minoritico dei riformati a Lecce, nel convento di S. Maria del Tempio, iniziando il noviziato sotto la guida del padre portoghese Luigi della Croce.
La scelta di aderire all’Ordine francescano e di abbandonare il sacerdozio secolare si può considerare il vero snodo della biografia di Morone ed è giustificata in un capitolo delle sue Rime sacre (Napoli 1619), intitolato Ingresso dell’autore nella serafica religione (pp. 277-291), in cui narra come, giunto a Lecce per dissuadere quattro seminaristi tarantini, che si erano recati contro la volontà dei loro genitori presso la scuola teologica di S. Maria del Tempio, dall’entrare fra i minori, fu accolto con gentilezza e fraternità francescane dal custode Giacomo da Faggiano e da padre Bernardino De Monti. Stimolato da quest’incontro, decise anch’egli di indossare il saio.
Fra i minori la carriera di Morone fu fulminea. Iniziato il noviziato a Lecce nel 1604, fu costretto a proseguirlo a Gravina, nella dimora di S. Sebastiano, forse perché fra il 1603 e il 1605 il convento di Lecce fu sottoposto a lavori di ristrutturazione. Probabilmente per questo motivo si imbarcò a Gallipoli, con il suo maestro Luigi della Croce e con alcuni compagni, alla volta di Taranto, dove approdò dopo essere scampato a una tempesta. Questo viaggio avventuroso è narrato nel capitolo intitolato Il periglioso passaggio da Gallipoli a Taranto nell’anno stesso del suo noviziato (Rime sacre, pp. 315-331). A Taranto, fu accolto con grande commozione, ma subì anche da parte del padre un tenace tentativo di dissuasione dalla sua vocazione (Bonaventura da Lama, 1723, p. 354). La durezza del periodo di noviziato, svolto in età adulta, è ricordata da Morone nel capitolo Tentazioni dell’autore nell’anno del suo noviziato (Rime sacre, pp. 292-314), in cui narra le tentazioni cui fu costretto a resistere in quel periodo. Concluse il suo noviziato a Gravina, e qui, ormai quarantacinquenne, emise la professione religiosa il 18 maggio 1605 assumendo il nome di Bonaventura.
Fra il 1606 e il 1608 esercitò la sua attività di docente a Lecce, dove fu lettore di materie scolastiche e professore di lingua greca ed ebraica nella scuola di S. Maria del Tempio. Allo Studio leccese impresse un duplice orientamento, umanistico-letterario e teologico. Sul piano della scienza sacra favorì l’approfondimento della filosofia tomistica, rivelando così la sua iniziale formazione sacerdotale e distinguendosi per questo dalla tradizionale impostazione francescana. Durante la quaresima del 1608 pronunciò un ciclo di sermoni nel duomo cittadino, meritandosi la fama di eccellente predicatore. Nella seconda assemblea dei riformati di Martina Franca, tenutasi il 15 novembre 1608, fu nominato custode al vertice della serafica riforma di S. Nicola in Puglia; ma il suo mandato durò appena un anno e mezzo, perché fu chiamato a Roma nel convento di Ara Coeli come lettore di lingua greca. Al repentino trasferimento contribuì probabilmente anche l’ostilità, manifestatasi durante il breve periodo del suo custodiato, di alcuni confratelli che contestarono la sua designazione con una lettera anonima al padre generale, Arcangelo Gualterio da Messina (Bonaventura da Lama, 1723, pp. 355 s.). Trasferitosi a Roma, ricoprì per tre anni il prestigioso ufficio di penitenziere nella basilica di S. Giovanni in Laterano e fu precettore di greco del cardinale Maffeo Barberini, il futuro pontefice Urbano VIII, che era solito sottoporgli anche le sue composizioni latine (De Angelis, 1713, p. 122; De Vincentiis, 1878, p. 52). Nel convento romano, dove ricoprì l’incarico di rettore del coro, si fece notare per uno stile di vita rigidissimo e immune da concessioni di alcun tipo, pur essendo sofferente di podagra. Coltivò rapporti anche con altri porporati (Cesare Baronio, Roberto Bellarmino, Andrea d'Austria, Scipione Borghese, Alessandro Peretti, Ascanio Colonna).
Ritornato in patria non prima del 1617 (nel capitolo di Barletta di quell’anno fu eletto discreto custodiale, carica che ricoprì sino al 1620), divenne poi guardiano nel convento di S. Maria del Tempio a Lecce, dove tenne alcune prediche quaresimali nel duomo. In questo stesso periodo ebbe a controllare, in qualità di visitatore generale, la provincia francescana di Principato. L’assidua frequenza nei conventi francescani di Puglia è testimoniata anche dal fatto che compose didascalie in distici latini a commento degli affreschi parietali dei conventi di Lecce, Brindisi, Bari e Martina Franca, nella cui casa francescana esiste ancora un suo ritratto.
Ricca e prolifica fu la produzione letteraria, che praticò in diversi generi, in italiano e in latino. Del 1614 è il poema agiografico in esametri Cataldiados ad cives suos libri sex. Fu composto e stampato a Roma, dedicato al cardinale Peretti e corredato in appendice di un Ragionamento in lode di san Cataldo. Il fratello Bartolomeo aggiunse gli Argumenta dei libri e una Vita del santo. L’opera dovette in qualche modo circolare in modo parziale (solo i primi cinque libri) già prima del 1614, in forma manoscritta o, più probabilmente, in una perduta edizione, come si evince dalla lettera di Morone «Ai suoi carissimi Tarentini», premessa alla sua tragedia Giustina (Venezia 1612). Nel poema, di evidente ispirazione virgiliana, si narrano le vicende biografiche del santo irlandese Cataldo, protettore della città di Taranto, e si illustrano il suo lungo viaggio dai luoghi natali sin nella Terra santa, il suo arrivo a Taranto al rientro dall’Oriente, il suo vescovado tarantino, la morte e la sepoltura nella città. Al tema agiografico e odeporico, che attraversa tutti e sei i libri del poema, si unisce uno spiccato interesse storico-erudito e municipalistico inteso a celebrare le bellezze del territorio tarantino (IV libro) e le vicende cittadine (V libro). Non è un caso che, proprio in principio del poema, Morone annunci di voler scrivere una storia di Taranto, mai effettivamente realizzata (Cataldiados, p. 1). Il Ragionamento che accompagna il poema è una significativa prova dell’abilità oratoria di Morone, nella linea della predicazione sacra secentesca di area francescana, e in esso ritorna la stessa pulsione filopatride del poema, di cui il panegirico in lode di s. Cataldo rappresenta l’essenziale integrazione.
Al periodo romano risale l’opera forse più celebre di Morone, la tragedia spirituale Il mortorio di Cristo (Bergamo 1611), dedicato ai fratelli pugliesi della serafica riforma di S. Nicolò, più volte ristampato in vita e dopo la morte dell'autore, anche con aggiunte e accrescimenti. La tragedia ha una struttura regolare, in cinque atti di endecasillabi e settenari con cori finali, forse a imitazione del teatro classico, che Morone, da esperto grecista, doveva conoscere. Nel Prologo la figura di Adamo introduce l’argomento («il funeral di Cristo», con la rappresentazione cruenta e realistica della sua passione e agonia), indicandone il pregnante valore soteriologico. Tra i personaggi del Mortorio risalta anche la figura di un rabbino di nome Misandro (secondo l’etimologia greca, «odiatore degli uomini»), emblematica delle tensioni antiebraiche che percorrono l'opera. Sulla scia del nuovo genere della tragedia spirituale, l’adattamento della materia sacra e dell’evento martirologico a una formale osservanza delle regole aristoteliche crea un effetto di originalità e si caratterizza per un notevole intendimento catartico ed educativo.
Gli stessi accorgimenti compositivi ricorrono anche nelle altre due tragedie spirituali di Morone, la Giustina e l’Irena (Venezia 1619), anch’esse in cinque atti di endecasillabi e settenari con cori finali, più volte ristampate. La Giustina era già pronta nel 1602, come riporta il frontespizio della princeps, quando Morone era ancora sacerdote secolare, ma fu stampata per la prima volta a Venezia solo nel 1612. Dedicata ai concittadini tarantini, doveva inizialmente essere destinata a vedere la luce insieme con il Mortorio (lettera prefatoria dell’amico Ercole Lolmo, del 25 agosto 1612), in un ideale dittico a sfondo religioso-catechetico. La composizione dell’Irena è assegnabile, invece, all’ultimo scorcio del periodo romano e fu concepita subito prima del rientro di Morone in patria e del suo trasferimento nella scuola leccese di S. Maria del Tempio, che egli aveva già frequentato da novizio e da docente. Fu pensata proprio come dono ai cittadini leccesi che egli si apprestava a rincontrare, nel segno di una continua e persistente inclinazione alla pratica del dramma sacro come omaggio municipale (lettera prefatoria alla «Nobilissima e fedelissima città di Lecce»). Tutte e due le tragedie rievocano in chiave tridentina vicende agiografiche relative a exempla del protocristianesimo, con una calcolata enfatizzazione del sacrificio finale e dell’exitus sanguinoso per finalità devote e parenetiche. Come il Mortorio, furono scritte per essere rappresentate, anche se non si ha alcuna notizia di una loro effettiva messa in scena. In particolare, l’Irena si inserisce nel quadro del coevo dibattito sul protettorato leccese di S. Irene, ufficialmente sostenuto dai francescani e dalla S. Sede, negli stessi anni in cui si stava affermando nel capoluogo salentino, su spinte localistiche, il culto concorrente di s. Oronzo. Dopo il poema sul patronato tarantino di s. Cataldo, Morone intervenne, dunque, con questa sua tragedia anche sul palladio leccese di S. Irene, servendosi di un uso mirato del genere della tragedia spirituale e dimostrando così un ruolo attivo e consapevole nelle strategie cultuali in atto al suo tempo in Terra d’Otranto.
Il ricordato volume di Rime sacre del 1619, accresciuto nelle successive edizioni postume, per iniziativa di Ercole Lolmo, anche di componimenti prima d’allora inediti, sino a configurarsi come un vero e proprio canzoniere diviso in due parti (Venezia 1621 e 1622), raccoglie soprattutto, sebbene non esclusivamente, poesie rimontanti al periodo del sacerdozio secolare e del noviziato. Notevoli per alcuni spunti autobiografici, questi componimenti devoti, italiani e latini, sviluppano temi di pretto conio controriformistico, secondo una rilevata chiave penitenziale e morale e una ricercata polimetria (capitoli, sonetti, terzine dantesche). Si segnalano in particolare un gruppo di sonetti di argomento biblico e una serie di nove invettive in terzine contro altrettanti vizi personificati, nella linea di una riconoscibile struttura dialettico-tenzonatoria tipica della coeva poesia religiosa.
Morone trascorse l’ultimo anno di vita a Taranto nel convento di S. Antonio di Padova, dove morì il 17 maggio 1621, e in questa stessa chiesa fu sepolto. L’orazione funebre fu pronunciata dal padre gesuita Gabriele Mastrilli.
Alcune opere attribuitegli, manoscritte e a stampa, risultano perdute o irrintracciabili, oppure rimasero al solo stadio progettuale. Oltre ai lavori già menzionati (il Catechismo e la Storia di Taranto), gli vengono assegnati una Epitome doctrinae Christianae et Graecae, un Quaresimale, un volume di Epigrammata et carmina in greco e in latino, due Carmina sulla salutazione angelica e sull’antifona del Salve Regina, che sarebbero stati stampati postumi nel 1622 a Venezia (Juan de S. Antonio , I, 1732, p. 236; Wadding, 1978, p. 9).
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