CATALDO Tarsino
Nativo di Tarsia in Calabria (oggi in provincia di Cosenza), risulta attivo a Palermo come notaio negli anni intorno al 1560. Probabilmente in virtù della sua professione egli godeva in città di una larga popolarità che trovava alimento anche nei rapporti di parentela: suo cognato era infatti un mastro Manfredo Tuccio, con ogni evidenza un artigiano. Fra le potenti maestranze artigiane di Palermo egli contava in effetti di una grande influenza, come si vide nel settembre del 1560, quando le difficoltà di approvvigionamento annonario, causate da una grave carestia, costrinsero la municipalità a prospettare la riduzione del peso del pane.
La misura, decisamente impopolare, era destinata a provocare disordini, perché di fatto corrispondeva a un aumento surrettizio del prezzo del pane che restava solo formalmente invariato, mentre in realtà aumentava in proporzioni inverse con la diminuzione del peso della pagnotta al quale esso si riferiva. Pretore di Palermo, fresco di nomina viceregia, era in quel momento don Cesare Lanza, notabile fra i più influenti, che era stato in passato già varie altre volte a capo dell'amministrazione cittadina e sapeva far valere gli interessi suoi e della sua consorteria con tutti i mezzi, non esclusi quelli più energici e violenti. Poche settimane dopo la nomina, egli si rese conto che lasciare invariato il prezzo del pane, un prezzo politico fissato dalla municipalità e mantenuto accollando ad essa la differenza rispetto al prezzo di mercato, significava ridurre allo stremo le finanze comunali. La carestia infatti aveva determinato prezzi altissimi per le farine che scarseggiavano, con conseguente grande affluenza di consumatori ai posti di vendita controllati dal Comune.
Per fronteggiare questa situazione il pretore convocò il 23 settembre il Consiglio generale della città per proporvi la diminuzione del peso della pagnotta in corrispondenza con il prezzo aumentato della farina. La convocazione del Consiglio generale, al quale avevano l'obbligo di partecipare i consoli delle arti, era di prammatica in circostanze del genere e tendeva a strappare ai rappresentanti popolari quel consenso che la folla dei consumatori avrebbe sicuramente negato. La manovra però non riuscì, perché alla pronta adesione degli esponenti della nobiltà non corrispose quella dei popolari.
C., che da tempo usava presentarsi in Consiglio seguito da un gran codazzo di gente, vi svolse quella parte di capopopolo che tutti da lui si aspettavano. Prese la parola per ricordare "che il popolo era assai afflitto per la mala annata e che non poteva per allora soffrire che si diminuisse il pane. E non aspettando risposta dal pretore, e perché avevano quei molti pani in mano, uscendone uno, disse: questo è pane da potersi diminuire?; e con grandissimo impeto ed insolenza buttò un pane di quelli quasi in faccia al pretore" (Di Giovanni, p. 176). Il gesto di C. dette il segnale ai suoi seguaci che lanciarono i pani addosso alla municipalità e ai nobili che la spalleggiavano e proruppero in aperto tumulto. Si venne alle mani, ma i popolari non ebbero la meglio e furono scacciati a mano armata dal palazzo comunale. Sempre capeggiati da C., vi ritornarono però in numero assai maggiore di lì a poco, decisi a riprendere possesso del palazzo. I nobili si trovarono questa volta a mal partito e non valse a ristabilire l'equilibrio delle forze l'intervento del capitano di Palermo, don Gastone del Porto, barone di Sommatino, accorso alla testa di buon nerbo di cavalieri. Il popolo in rivolta lo accolse a sassate e lo costrinse ferito alla fuga. Dello scontro però poterono approfittare il pretore, i senatori e gli altri nobili asserragliati nel palazzo civico per abbandonarlo precipitosamente. Una volta sgominata la municipalità, la città sembrò cadere in mano ai rivoltosi, dato che il viceré duca di Medinaceli si tratteneva in quel momento a Messina, con buona parte della scarsa truppa spagnola di Sicilia, scampata al disastro militare della recentissima spedizione delle Gerbe.
L'uomo della situazione non tardò tuttavia a farsi avanti: Vincenzodel Bosco, conte di Vicari, luogotenente del maestro giustiziere e quindi sostituto effettivo del viceré in sua assenza, poteva contare su un certo ascendente sul popolo e non esitò a farne tesoro. Cavalcò per le vie della città con fare assai conciliante, promise pane a buon prezzo e riuscì ad evitare che la folla eseguisse il minaccioso proposito di assalire le carceri e mettere le mani sul tesoro pubblico. La sera si concertò con il pretore, gli inquisitori e gli altri notabili che si erano rifugiati prudentemente nel castello a mare per predisporre le più urgenti misure di sicurezza. Fu posta buona guardia al tesoro, la nobiltà fu invitata a mantenersi armata e pronta ad intervenire, si provvide a rifornire di pane gli spacci comunali, fu chiamato in tutta fretta il viceré. A queste misure C., che era stato acclamato capo naturale della rivolta, non seppe o non volle opporre alcunché. Per una settimana mantenne il controllo della città, contentandosi di girarvi alla testa di squadre armate che davano mostra di sé ma non torcevano un capello a nessuno. Il sospetto che fosse già pentito dei tumulti e desideroso di farseli perdonare con un comportamento moderato e preoccupato di evitare possibili eccessi della folla, è più che plausibile, anche se non trova alcuna conferma nella scarsa documentazione disponibile. C. tuttavia era piuttosto legato al conte di Vicari, che gli aveva tenuto persino un figlio a battesimo, e un cronista assicura che prese subito contatto con lui prospettandogli il grave scotto che avrebbe pagato inevitabilmente al ritorno del viceré. Incoraggiato dalla sua inettitudine, Andreotta Lombardo, un nobile che esercitava l'ufficio di secreto di Palermo con importanti funzioni fiscali, gli scaricò per strada una pistola, ma lo mancò e rischiò il linciaggio, salvandosi a stento solo "per un buon cavallo che si trovò sotto". L'incidente provocò nuova animazione fra i rivoltosi che minacciarono di dare al fuoco le case dei funzionari e dettero al sacco quella del Lombardo. Fu allora che il viceré tornò a Palermo e bastò la sua venuta per riportare l'ordine in città.
C. non pose tempo in mezzo e abbandonò la partita: secondo un diarista, il conte di Vicari l'avrebbe convinto dell'opportunità di mettersi in salvo con la fuga. Fuggì in Calabria e fu saggia decisione, perché la punizione del viceré non tardò a colpire con estrema durezza i minori caporioni che commisero la grave imprudenza di restarsene in città. Qualche tempo dopo, quando la calma più assoluta sembrava essere definitivamente ritornata e tutti credevano che non ci fosse più niente da temere, il senatore Francesco Di Giovanni, padre dello storico Vincenzo che fu il più informato cronista della rivolta, eseguì la vendetta. Per ordine del viceré arrestò all'improvviso e di notte con cento soldati tutti i più noti esponenti popolari "e senza processo nessuno, fattili confessare",li fece impiccare. Ne prese nove "i quali strangolati si videro la mattina sopra nove botti per le piazze della città". Di C. il Di Giovanni non trovò traccia e neanche di suo cognato Manfredo Tuccio, del quale "si disse che se ne avesse andato in Costantinopoli". Un altro capopopolo dei più in vista, maestro Minico Maurello, fu salvato dalla forca dall'intervento di Alonso Bezzera, fratello dell'inquisitore "sotto pretesto di essere dell'inquisizione".
Contro C. fu istruito un processo in contumacia che si concluse con la condanna a morte e la confisca dei beni. Il provvedimento di confisca fu adottato anche a carico di vari altri cittadini benestanti, sospettati di avere dato mano alla rivolta, ma con procedure abusive e capziose che provocarono ampio strascico di proteste. Al punto che la stessa municipalità si rese conto degli eccessi e chiese al re di intervenire con un provvedimento di perdono che ponesse fine alle confische indiscriminate. La richiesta fu accolta e il viceré Medinaceli promulgò il 20 genn. 1561, per ordine reale, un indulto generale per i fatti del settembre precedente, con la sola esclusione di C. e di suo cognato.
Della parte che egli aveva avuto nella rivolta e del processo istruito contro di lui la corte di Madrid era stata minutamente informata: con dispaccio del 30 luglio 1562 il re accusò ricezione al Medinaceli di un rapporto informativo su C. ancora contumace. La sua mossa di presentarsi personalmente a corte per chiedere il perdono reale risultò quindi un passo falso. A niente valse la moderazione persino esagerata che egli aveva dimostrato nel corso dei tumulti e la grande cura con cui aveva saputo evitare ogni spargimento di sangue. Appena si presentò, nel settembre del 1562, fu arrestato. Il 20 di quello stesso mese il re chiese al Medinaceli una copia degli atti del processo e di fargli sapere al più presto se desiderava che la condanna venisse eseguita in Sicilia anziché in Spagna. Senza aspettare la risposta il 17 ottobre successivo Filippo II decise di mandarlo in Sicilia perché vi ricevesse pubblicamente il castigo esemplare riservato ai sediziosi suoi pari. Tradotto a Barcellona, alla fine di novembre fu imbarcato sulle galere dirette a Napoli e da lì fu successivamente trasferito a Messina. Vi restò in prigione ancora per tre anni, finché nell'agosto del 1566 la sentenza non fu eseguita: "gli fu tagliata prima una mano, poi fu affogato e squartato".
Fonti e Bibl.: Archivo General de Simancas, Secretarias provinciales, Sicilia, libro 800, cc. 18r, 63r, 76r e ss., 83v e ss.; F. Paruta-N. Palmerino Diario della città di Palermo, in Bibl. stor. e lett. di Sicilia, a cura di G. Di Marzo, I, Palermo 1869, pp. 23 s.; Memorie diverse di notar Baldassarre Zamparrone, ibid., pp. 234 s.; V. Di Giovanni, Del Palermo restaurato, ibid., s. 2, Palermo 1872, I, pp. 175-180; G. E. Di Blasi, Storia cronol. dei viceré, luogotenenti e presidenti del regno di Sicilia, Palermo 1880, pp. 205-207; C. A. Garufi, Contrib. alla storia della inquisizione di Sicilia nei secc. XVI e XVII, in Arch. stor. sicil., n.s., XLI (1916), p. 431.