DOLFIN, Caterina
Nacque a Venezia l'8 maggio 1736 da Giovanni Antonio e Donata Salamon, entrambi patrizi, ma appartenenti a rami poveri e cadetti delle rispettive famiglie.
Il padre, uomo colto e intraprendente, addottoratosi presso lo Studio di Padova, svolgeva in quegli anni attività di giudice, alternandosi nei Consigli minori della Repubblica. Attività che lo costrinse a sacrifici e rinunce nella vita di tutti i giorni, fino a indebitarsi spesso. L'incarico di consigliere a Zante non gli valse ad arricchirsi, ma, al suo ritorno, reinstallatosi nel suo appartamento a S. Marcuola e richiamata a sé la figlia che era stata nel frattempo in un collegio di monache, intraprese con successo la carriera di avvocato, emergendo tra le figure maggiori del foro veneziano. La morte improvvisa, nel 1753, interruppe tale ascesa lasciando sole la moglie - di salute malferma - e la figlia adolescente. Il rapporto padre-figlia era stato - cosa abbastanza insolita all'epoca - molto intenso, preoccupato Giovanni Antonio di darle una buona cultura e di insegnarle a bastare a se stessa senza indulgere agli stereotipi femminili del tempo. E la D. conserverà fino alla fine della vita questa coscienza della sua "diversità" rispetto alle dame sue contemporanee, questo suo modo franco e quasi maschile di gestire i suoi rapporti di amicizia fino a farne un vezzo all'incontrario.
Pochi anni dopo la morte del padre, nel 1755, la famiglia la sposò a Marcantonio Tiepolo, patrizio senza troppo denaro, ma anche senza troppe aspirazioni e scarso di studi, che entrava nelle magistrature minori con la prospettiva di passare poi nelle Quarantie e di finire la sua carriera in Senato.
La D., forse anche per sfuggire alla noia familiare ed adeguarsi alla moda del tempo che vedeva molte gentildonne darsi alla letteratura, cominciò a dedicarsi alla poesia, componendo numerosi sonetti cui si deve riconoscere fluidità d'espressione e un'ispirazione genuina e commossa. Le sue esperienze di vita e di cultura (la morte del padre, il rimpianto di lui e gli insegnamenti lasciati alla figlia) ne sono la tematica prevalente. È probabilmente in quest'epoca, durante la villeggiatura sul Brenta, che la D. poco più che ventenne, conobbe Andrea Tron.
Primogenito di una famiglia tra le più insigni della città, Andrea Tron aveva, a quarantatré anni, un prestigioso curriculum di governo che l'aveva portato come ambasciatore della Repubblica in mezza Europa. Uomo coltissimo, ricco di esperienze e legato ad una tradizione familiare che aveva sempre unito all'intraprendenza economica un serio impegno di governo, il Tron aveva ormai una conoscenza profondissima della macchina statale veneziana, il suo parere ed il suo appoggio erano spesso fondamentali per risolvere questioni ed ottenere incarichi. Tale fama pesò certo, unita al fascino dell'uomo di mondo, nell'attrazione della D. per lui e la loro relazione cominciò in quell'autunno 1756.
L'ascesa culturale e mondana della D. inizia dunque proprio in questo periodo ed essa puntò con decisione sul Tron, avviando le pratiche per l'annullamento del suo matrimonio.
Le sue opere poetiche cominciarono a circolare e le valsero l'iscrizione tra le pastorelle d'Arcadia con lo pseudonimo di Dorina Nonacrina: nel 1757 a Padova e nel 1768 a Venezia usciva la sua raccolta di sonetti dedicati al padre. La sua figura era ormai diventata il centro di una piccola corte di personaggi tra i più vari che, attirati all'inizio più che altro dal nome del Tron, le resteranno poi fedeli per tutta la vita. Tra i più assidui si ricorda Gaspare Gozzi che, insieme con la sua famiglia, fu forse l'amico più devoto della D. e poi un intellettuale poliedrico come Gian Rinaldo Carli, un poligrafo e moralista come Angelo Calogerà, il poeta Angelo Maria Barbaro, Orazio Lavezzari segretario della Cancelleria ducale ed altri.
Alla morte del padre del Tron, Niccolò, che avvenne nel 1772, il testamento favorì apertamente il figlio Francesco, e si configurò per Andrea come la dimostrazione della disapprovazione del padre per il suo legame irregolare. Caterina - che in questo periodo gli era molto vicina - riuscì nello stesso anno, il 10 aprile, ad annullare il suo vincolo coniugale perché mancante del suo libero consenso. Sempre nel 1772 fu però turbata dall'improvvisa irruzione nella sua casa degli inquisitori di Stato.
Da tempo il governo veneziano vedeva con sospetto il diffondersi in città di opere di autori francesi come La Mettrie, Hélvetius, Rousseau, Voltaire, molti dei quali facevano parte già da tempo della biblioteca della D., e proprio in quel periodo se ne era proibita la circolazione con punizioni per i detentori e i venditori. Si seppe - e non era difficile saperlo - che la D. ne possedeva: un suo ammonimento, oltre che soddisfare i nemici di Andrea Tron, poteva così assumere un valore esemplare. Il ricordo di questo avvenimento come di un'estrema violenza patita e simbolo della persecuzione di cui si sentiva oggetto comparirà sempre nelle lettere della D. ad Andrea Tron. Ed effettivamente le referte degli inquisitori - stese dopo l'avvenuta perquisizione - sembrano mettere in discussione anche tutto il suo modo di vita e le sue amicizie. Non solo essa teneva "conversazione" con persone di dubbia fama ma riguardo al suo carattere essa era di scandalosi costumi e poco zelante nelle pratiche religiose. Informazioni queste che, riprese dalla storiografia ottocentesca, coinvolsero la D. nella valutazione complessiva sul Settecento veneziano come secolo di frivolezze e dissolutezze e quasi assimilarono la sua figura a quella di una cortigiana.
La relazione col Tron si era intanto fatta, dopo sedici anni, più tranquilla e meno appassionata, e nelle lettere della D. a lui, pur se ossequiose, riconoscenti e piene di adesione agli ideali e alle battaglie politiche di Andrea, si intravvedono moti di insoddisfazione e di stanchezza. Ma finalmente, nell'autunno 1772, il Tron fece preparare il contratto di nozze: l'uomo politico si era deciso a chiarire la sua ambigua situazione privata forse essenzialmente perché questa poteva nuocere alla sua ascesa verso le più alte cariche della Repubblica cui ora poteva legittimamente aspirare. La cospicua dote che le costituiva, concedendole i redditi di buona parte delle sue proprietà di Terraferma, sarebbe in parte servita per il mantenimento della madre e l'estinzione dei debiti da lei contratti. Ora anche il tono della corrispondenza cambiava, e il Tron non era più "Eccellenza", ma "mon cher ami".
Il 28 febbr. 1773 Andrea Tron fu eletto procuratore di S. Marco de citra, carica che, tradizionalmente, equivaleva ad entrare nella rosa dei candidati alla nomina dogale, e che venne festeggiata con grande sfarzo, come consuetudine. La D. entrava così a pieno titolo nel mondo patrizio veneziano che l'aveva sempre tenuta in disparte e la sua fama stava alla pari di quella del marito nelle numerose composizioni poetiche che celebrarono il loro trionfo. Nel suo nuovo ruolo di procuratoressa la D. si trovò a svolgere, con più ufficialità ed autorità, le attività di sempre: le "conversazioni" coi dotti amici, le pressioni e gli interventi su Andrea Tron per aiutare le persone a lei vicine e alcuni di quelli che, numerosi, venivano per cercare di ottenere, tramite lei, qualche grazia o favore. Sensibile alle adulazioni e agli onori la D. era di certo, e forse questa sua debolezza può averla indotta a giudizi superficiali sulle persone che le stavano accanto. È quello che probabilmente successe nei riguardi di Pier Antonio Gratarol, personaggio piuttosto modesto, come modesti furono gli eventi a lui legati che si verificarono successivamente, ma che ebbero una vastissima eco in tutta la storiografia e l'aneddottica ottocentesca sugli ultimi anni della Repubblica, dato l'ampio risalto che ebbe la Narrazione apologetica, scritta dal Gratarol una volta andatosene da Venezia.
Pier Antonio Gratarol, appartenente ad una famiglia cittadinesca di segretari della Cancelleria ducale, arrivò presto alla carica di segretario di Stato che gli dava la possibilità di aspirare a un incarico di residente della Repubblica in qualche corte italiana. Egli puntò su Torino ed ebbe la nomina sconfiggendo un protetto del Tron, fatto che lo indusse ad assumere atteggiamenti quasi di sfida verso l'importante uomo politico, dei quali presto si pentì, rendendosi conto che l'approvazione di quello gli era indispensabile per ottenere le credenziali necessarie a partire. Questo timore lo indusse a frequentare il salotto della D. adulandola e corteggiandola assiduamente finché non ottenne assicurazione, anche da Andrea Tron, della certezza del suo incarico. Nel frattempo egli andava spendendo le provvigioni concesse dal governo per prepararsi a ricoprire con sfarzo il suo nuovo ruolo: spese inutili perché incidenti politici tra la Repubblica e il Regno di Sardegna indussero ambedue gli Stati a ritirare i propri rappresentanti. Allontanatosi da Venezia, il Gratarol vi ritornò nel 1775 e si invaghì, ricambiato, dell'attrice Teodora Ricci, che recitava nella compagnia del Sacchi e di cui Carlo Gozzi era da tempo l'amante, relazione benvista dalla compagnia cui il Gozzi cedeva gratuitamente le commedie per la rappresentazione.
Sotto l'effetto della gelosia e dell'orgoglio ferito, Carlo Gozzi forzò in senso satirico la traduzione di una commedia di Tirso da Molina su cui stava lavorando, dandole il titolo di Le droghe d'amore. Un anno dopo, quando la compagnia rientrò in città per la stagione (il Gratarol attendeva ora le credenziali per una nuova residenza, quella di Napoli), il capocomico si recò dalla D. con il testo della commedia che, anche se già approvata, rischiava di passare di nuovo sotto la censura perché la Ricci aveva scorto nel personaggio maschile la caricatura del suo amante, Pier Antonio Gratarol. La D., probabilmente indispettita con questo perché aveva cessato improvvisamente di frequentarla, una volta raggiunto il suo scopo, la diffuse tra i suoi amici, la trovò adatta ad essere rappresentata e, si dice, aggiunse di suo qualche ulteriore tocco caricaturale al personaggio del Gratarol. I pettegolezzi, il ridicolo, le chiacchiere che seguirono il successo ottenuto dalla commedia, le ingiurie intercorse tra il Gozzi e il Gratarol, l'intervento della D. ed Andrea Tron per bloccare le dicerie diffuse in città dall'ex segretario di Stato bruciarono la carriera di questo personaggio che, perseguitato dalla giustizia anche in forma eccessiva per l'episodio, riparò all'estero dove qualche anno più tardi scrisse una prolissa Narrazione apologetica in cui metteva sotto accusa l'intera classe dirigente veneziana, ma soprattutto l'onnipotenza di Andrea Tron e della moglie.
Questo episodio contribuì a creare intorno ai Tron un'atmosfera di diffamazione e di ostilità proprio mentre Andrea era impegnato in importanti battaglie politiche. Infatti con la morte del doge Alvise Mocenigo, nel 1778, si poneva il problema della successione che restarono a contendersi Andrea Tron e il senatore Paolo Renier. Entrambi uomini brillanti e colti, i candidati erano tuttavia su posizioni diversissime: legato all'oligarchia conservatrice il Tron, poco indulgente verso le turbolenze del Maggior Consiglio e delle Quarantie e, in questo periodo, molto chiacchierato; più incline alla mediazione coi novatori il Renier, possessore di ingenti fortune personali che gli riuscirono preziose per evitare tumulti, il giorno della sua contestata elezione.
Nel 1785 sia Donata Salamon che, pochi giorni più tardi, Andrea Tron, morivano. Nel suo testamento, redatto nel 1777, Andrea lasciava alla "dilettissima consorte", oltre a vari beni mobili, un congruo vitalizio e l'uso dei suoi palazzi in Terraferma: pregava inoltre i colleghi procuratori di continuare a lasciare alla D. l'uso della residenza in procuratoria dato che si trattava di una donna "che certamente mi sembra meriti ogni riguardo" (Arch. di Stato di Venezia, Testamenti, Notaio G. B. Conti, busta 20), quasi a costituire una salvaguardia che la tutelasse moralmente dopo la morte di lui.
La vita della D., ormai quasi cinquantenne, cessati gli impegni e gli onori legati al suo ruolo di procuratoressa, venne bruscamente ridimensionata tra la sua routine quotidiana - stava lavorando ad un piano per l'educazione delle donne che probabilmente rimase incompiuto e di cui non vi sono tracce - ed i pochi amici rimasti. La sua biblioteca continuò ad arricchirsi ed aggiornarsi con le opere più attuali della cultura illuministica europea. Un po' alla volta tutti i personaggi della sua vita morivano e la situazione politica internazionale mutava troppo rapidamente per non fare anche di lei una sopravvissuta. La raccomandazione testamentaria del Tron restò lettera morta e la D. dovette cercarsi un'altra abitazione e nel contempo lottare con i cognati (particolarmente Francesco Tron e la moglie Cecilia) per salvare quanto poteva della dote costituitale dal Tron e del vitalizio disposto per testamento. In attesa di finire i lavori di restauro della sua casa di S. Marcuola affittò un casino in Frezzeria, ma sempre di più la sua vita graviterà su Padova, dove nel 1788 si prese una casa.
Fu in quest'ultimo periodo della sua vita, anzi pochi anni prima della morte del marito, che la D. allacciò una nuova amicizia che, con alterne vicende, riempì la sua vecchiaia e su cui resta un'abbondante documentazione nel carteggio ritrovato ed edito dal Damerini. Il duca Gian Galeazzo Serbelloni, milanese, rimasto nel 1774, appena trentenne, erede di un vasto patrimonio e responsabile degli affari familiari, aveva molti interessi da tutelare nella Repubblica e andava cercando un aggancio importante tra la classe dirigente di tale Stato. Tramite la comune conoscenza di Gian Rinaldo Carli il duca venne presentato alla D., indispensabile tramite per entrare nelle grazie di Andrea, e la procuratoressa fu molto colpita da questo giovane uomo intraprendente che la trattava con tanta galanteria. La D. voleva, anche se femminilmente lusingata dalle attenzioni del nuovo amico, fare di questo rapporto un capolavoro di amicizia, un'amicizia schietta e franca, quella che affermava aver praticato tutta la vita, amicizia in qualche modo maschile, scevra dalle ambiguità del cicisbeismo e della galanteria.
Le lettere a Serbelloni sono molto belle, appassionate e con accenti preromantici, racchiuse in una prosa agile, ma rigorosa. Esse sono in fondo lunghi monologhi in cui questo tema dell'amicizia e dei rapporti umani più in generale, viene ampiamente trattato, andando a delineare un autoritratto abbastanza coerente con la sua cultura e la sua vita: "Io, sono una donna, ma educata con tutti i principi del cavaliere d'onore: conosco il cuore umano e ne compatisco i capricci le leggi dell'amicizia mi sono note e sacre; gli amori li calcolo quanto vanno; un abbandono può affliggermi, ma non irritarmi. Non soffro disprezzi perché non li merita né la mia nascita, né il mio costume, né la mia anima..." (Lettereinedite, in Damerini, Settecento…, p. 321). Il Serbelloni, uomo vanitoso che contava grandi successi con le donne, interpretò nel modo più banale l'entusiasmo della D. nel portare avanti la loro amicizia e pensò di accondiscenderla, se questo poteva contribuire ad ingraziarsela. La D. probabilmente lusingata, ma lucidissima, reagì in modo netto: "a dispetto di qualche sospiro che mi suona ancora all'orecchio so che amore non nasce che tra le grazie e la giovinezza ..." (Lettere..., p. 321).
Ritrattando le sue avances il duca continuò la corrispondenza con la D. anche dopo la morte di Andrea, ma in modo sempre più discontinuo e senza capire le esigenze di lei, fino a interromperla quasi del tutto.
La salute della D. non era mai stata florida: i frequenti soggiorni in campagna, le cure di Abano erano tutti tentativi di rimediare ai frequenti disturbi cui era soggetta, forse anche per la gracile costituzione e il temperamento nervoso; febbri e debolezze saranno quasi costanti negli ultimi anni della sua vita che si interruppe bruscamente, per un aneurisma, a Venezia, il 14 nov. 1793.
Il suo testamento distribuiva tra gli amici e i pochi parenti cui era legata i suoi averi, tutti i suoi libri passarono ad Alvise Barbarigo, nipote amatissimo, figlio di Luisa Tron sua cognata. La salma venne seppellita nella chiesa di S. Marcuola accanto a quella della madre.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Inquisitori di Stato, busta 525 (in merito alla requisizione in casa della D.), 201, Ibid., 641 (referte dei confidenti), 684; Testamenti, busta 20, Notaio G. B. Conti; busta 1060, Notaio Uscio; 324 e 325 Notaio Zuccoli; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr: Codici Cicogna, 3208, XXXVII; Ibid., Archivio Donà, 421, 458, 459, 462, 292, 399; Ibid., Misc. Correr, 2481: Giornale dei beni dotali di C. D. Tron; Mss. P. D. C. 2070: Libro cassa dei beni dotali; Mss. P. D. 695.C: Registro dei beni dotali. Fondamentali monografie sono le due opere di G. Damerini, La vita avventurosa di C. D. Tron, Milano 1929, che contiene in appendice i sonetti della D. al padre, 42lettere autografe ad Andrea Tron (Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Archivio Donà, busta 421/IV), e il successivo Settecento veneziano. La vita i tempi gli amori e i nemici di C. D. Tron, Milano 1939, con in appendice 103 lettere a Gian Galeazzo Serbelloni conservate presso l'archivio della famiglia. Sempre di carattere generale sulla vita e l'opera della D.: C. Dolfin Tiepolo, Sonetti in morte di suo padre Gio. Antonio Dolfino, Venezia 1767; Rime di donne illustri a S. E. C. D. cavaliera e procuratoressa Tron nel gloriosissimo ingresso alla dignità di Procurator, per merito, di S. Marco di S. E. Cav. Andrea Tron, Venezia 1773; P. L. Ferri, Biblioteca femminile italiana, Padova 1842, pp. 147 s.; E. Castelnuovo, Una dama veneziana del XVIII secolo, in Nuova Antologia, 16 giugno 1882, pp. 624-648; P. Molmenti, Epistolari veneziani del XVIII secolo, Napoli 1914, pp. 173-185; G. Canonici Fachini, Prospetto biografico delle donne italiane rinomate in letteratura dal secolo XIV ai giorni nostri, Venezia 1924, pp. 186 s. - Per i rapporti con i Gozzi: C. Gozzi, La Marfisa bizzarra, Bari 1911, ad Ind.; Id., Memorie inutili, Venezia 1797 passim; A. Dal Mistro, Lettere familiari inedite del Co. Gaspare Gozzi raccolte e date in luce dall'abate A. Dal Mistro, Venezia 1808, pp. 12-60; Lettere familiari di celebri italiani antichi e moderni, a cura di F. Antolini, Milano 1825, pp. 209-18; G. Gozzi, Lettere, Venezia 1856, pp. 79-93, 95-98; G. Tonin, C. D. Tron e i suoi rapporti con Gozzi, Milano 1923; G. B. Dolfin, Caterina Dolfin Tron e i Gozzi, Milano 1926; G. Damerini, La procuratoressa, i suoi motti, i suoi rapporti con C. Gozzi, in Il Marzocco, XXXIV (1924), pp. 4 ss. - Per la figura di A. Tron: G. Tabacco, A. Tron e la crisi dell'aristocrazia senatoria a Venezia, Trieste 1957. Per le vicende matrimoniali: Venezia, Archivio della Curia patriarcale, Liber sententiarum; Ibid., Archivio parrocchiale di S. Marcuola, Atti. - Per la vicenda del Gratarol: P. A. Gratarol, Narrazione apologetica, Venezia 1781. - Riferimenti alla D. sono inoltre reperibili in quasi tutte le opere generali di storia veneziana che comprendano il XVIII secolo; ricordiamo in particolare: P. Molmenti, Storia di Venezia nella vita privata, Trieste 1973, III, ad Indicem.