SFORZA, Caterina
Nacque intorno al 1463, a Milano o a Pavia, da Galeazzo Maria Sforza (duca di Milano dal 1466) e da Lucrezia Landriani, moglie del conte Gian Piero.
Legittimata, trascorse i primissimi anni di vita presso la nonna paterna, Bianca Maria Visconti. Quando arrivò il momento di ricevere istruzione, Caterina fu affiancata ad altri due figli naturali di Galeazzo Maria, Carlo e Alessandro. Restano registrazioni di consegna dei libri sui quali essi studiavano.
Nel marzo 1471, accompagnò il padre nel viaggio a Firenze, alla corte di Lorenzo il Magnifico. Quasi due anni più tardi, il 20 gennaio 1473, fu concluso l’accordo matrimoniale che la prometteva sposa a Girolamo Riario, il trentenne nipote di papa Sisto IV, con previsione di un complesso sistema di scambi. Il duca di Milano avrebbe venduto la signoria su Imola alla Chiesa per 50.000 ducati, ma ne avrebbe ricevuti solo 40.000. La differenza avrebbe costituito la dote di Caterina. Il pontefice, dal canto suo, avrebbe ceduto al nipote Girolamo, creato conte, la signoria sulla cittadina romagnola.
L’assassinio del padre, il giorno di S. Stefano del 1476, non indebolì in nulla la posizione di Caterina, ora che ella entrava nella famiglia del papa. Il matrimonio fu celebrato per procura, quando Caterina si era già messa in viaggio verso Roma. All’inizio di maggio 1477, fece il suo primo ingresso a Imola. Toccata Bologna, continuò poi il suo viaggio verso la città del papa. Il 25 maggio, sette miglia fuori dalle mura, fu accolta da Girolamo. Giunta in S. Pietro, incontrò il pontefice, il quale volle che fosse «contracto dicto matrimonio di novo» (Pasolini, 1893, III, p. 56). Terminata la cerimonia, il tragitto della sposa fino al palazzo Orsini a Campo dei Fiori, scelto come sua residenza, fu accompagnato dai festeggiamenti dei romani, «brusando da molti odoriferi perfumi talmente che a tucta la citade rendevano suavitate» (ibid.).
Per il momento, Caterina rimase Roma ed ebbe a breve distanza di tempo due figli: Ottaviano, nato il 1° settembre 1479 e Cesare, nato il 25 agosto 1480. Quindi, nell’estate dello stesso anno, Sisto IV aggiunse a favore del nipote Girolamo l’investitura a vicario di Forlì, tolta alla famiglia Ordelaffi. Caterina accompagnò il consorte in Romagna nel giugno 1481. Il 15 luglio la coppia fece il suo ingresso in Forlì e in settembre si trasferì a Venezia. Il soggiorno riuscì fastoso, ma scarso di risultati politici. Il pontefice, voleva per suo nipote una signoria estesa a gran parte della Romagna, comprensiva addirittura dei domini del duca di Ferrara, Ercole d’Este. La Serenissima, pure alleandosi temporaneamente con il papa contro l’Estense, non si lasciò coinvolgere nella parte più spregiudicatamente nepotista del disegno. I coniugi Riario rientrarono a Roma, diffidando del clima di congiura politica che intanto si respirava a Forlì.
Alla fine di ottobre 1481, Caterina diede alla luce una figlia, Bianca. Nei mesi seguenti, mentre il marito Girolamo, capitano generale della Chiesa, dava pessima prova delle sue qualità militari, dimostrandosi invece determinato ad accrescere le proprie fortune a spese delle famiglie nobili romane Colonna e Savelli, ella si tenne in disparte. La si descriveva intenta alle cure della prole, non meno allo studio dei classici della storiografia e dei libri devozionali.
Prima della metà di giugno 1483 seguì il marito, comandante generale della spedizione napoletana-pontificia contro Venezia, voluta da Sisto IV ribaltando le precedenti alleanze. Il 16 dello stesso mese, giunse a Forlì. Nonostante avesse prova di essere attesa e desiderata a Milano, Caterina rimase quasi fino alla fine della stessa estate in Romagna, funestata peraltro da un violento terremoto. Quindi, scoperta una nuova congiura a Forlì, rientrò con il marito a Roma. Lo seguì, insieme con i figli, anche quando quest’ultimo passò con l’esercito armato dal pontefice sotto Paliano. La coppia accolse qui la notizia della morte del pontefice, il 12 agosto 1484, e dell’assalto subito dato, come costume, al palazzo di famiglia e degli sposi in piazza SS. Apostoli. Persino la tenuta affittata a Caterina di Castel Giubileo, a Nord di Roma, fu oggetto di distruzioni e saccheggi.
In questa occasione, ella diede prova di estrema risolutezza. Mentre il marito si portava con le genti della Chiesa a Ponte Milvio, Caterina – a nome dello stesso, che sotto Sisto IV aveva ricoperto l’ufficio di castellano – entrò in Castel Sant’Angelo insieme a Paolo Orsini. Subito, incurante di essere al settimo mese di una nuova gravidanza, iniziò a prepararsi alla difesa. Fu sentita esclamare «io ho il cervello del Duca Galeazzo et son fantastica come lui» (G.A. Vespucci a Lorenzo de’ Medici, Roma, 18 agosto 1484, in Pasolini, 1893, III, p. 100). Così, nella notte, fra il 24 e il 25 agosto, fece entrare 250 soldati di rinforzo al presidio. Mentre il marito si era rassegnato a lasciare la città, Caterina appariva decisa a resistere.
Il Sacro Collegio dei cardinali non poté più ignorare la minaccia. Giunto a Roma il cardinale Ascanio Sforza, subito prima dell’apertura del conclave, fu inviato con una ristretta commissione di cardinali a trattare con la nipote. Solo in quel momento Caterina acconsentì a interrompere la sua azione e a partire per la Romagna, non senza aver chiesto rassicurazioni dal Sacro Collegio circa il futuro della famiglia. Il 4 settembre 1484, la coppia entrò a Forlì. Tre giorni più tardi arrivarono le attese notizie da Roma, ove il 29 agosto era stato eletto un nuovo pontefice (Innocenzo VIII): i vicariati concessi sarebbero stati mantenuti; Girolamo avrebbe conservato il titolo di capitano generale della Chiesa, senza obbligo di risiedere a Roma.
Alla fine di ottobre 1484, Caterina ebbe un quarto figlio, Giovanni Livio. Un quinto, chiamato Galeazzo, arrivò alla fine del 1485, dopo che il trasferimento a Forlì era divenuto definitivo. Per padrino, Caterina volle il signore di Firenze, nonostante il suo odio contro Girolamo Riario, uno dei responsabili della congiura dei Pazzi: segno che ella stava già elaborando una sua personale strategia di conservazione del potere. Non lesinava intanto dimostrazioni concrete del suo amore per la vita delle armi: un’occasione conviviale nella residenza della coppia, semplice nel cerimoniale, ma eccezionale per la caratura dei presenti (Alfonso d’Aragona, Virginio Orsini, Gian Giacomo Trivulzio), dopo la metà di settembre 1486, diede modo a Caterina di farsi notare per la sua competenza nelle discipline guerresche.
Nel marzo 1487, Caterina si spostò con il marito e i figli a Imola. Era di nuovo incinta. Ciononostante, si mise in viaggio per Milano. Incontrò la madre, il fratello Gian Galeazzo, lo zio Ludovico il Moro. Alla fine del mese successivo, però, avendo appreso della malattia del coniuge, rientrò in tutta fretta in Romagna, accompagnata dalla madre e dalle sorelle (Bianca e Stella). Fatti cercare i migliori medici per un consulto, le condizioni del marito restavano serie. Caterina dovette così affrontare da sola la ribellione di Melchiorre Zoccheo castellano della rocca di Ravaldino, principale fortificazione forlivese. Dapprima lo contattò di persona, invitandolo a uscirne. Ricevuto un netto rifiuto, trovò il modo di farlo assassinare da Innocenzo Codronchi, capitano dei provvisionati del suo palazzo. Il 17 agosto, quando nacque il figlio, Francesco, Ravaldino era tornato in possesso di un uomo fidato della coppia Riario-Sforza.
Non terminavano però i tentativi di congiura contro Girolamo Riario. Da ultimo, il 14 aprile 1488, egli fu assassinato. I congiurati, fra i quali spiccavano i membri dell’eminente famiglia forlivese Orsi, acconsentirono alla proposta della giunta locale di governo di affrettare la dedizione della città alla Chiesa: Bernardino Savelli, governatore di Cesena, ne prese possesso già il 15 aprile. Caterina, con i figli, che era stata imprigionata nel quartiere degli Orsi, per intervento dello stesso Savelli fu trasferita nella rocchetta di porta S. Pietro.
Da qui, di nuovo, ella escogitò e portò a compimento un colpo di mano. Facendo credere di poter convincere il nuovo castellano di Ravaldino, Tommaso Feo, a consegnare le chiavi della rocca, lasciati i suoi figli come ostaggi degli Orsi, vi entrò. Non spaventata delle possibili ritorsioni, iniziò il 19 aprile a far sparare sulla città dall’artiglieria, con pezzi da 60 e 70 libbre (cioè con proiettili da 20,3 e 23,6 kg).
L’episodio restò celebre. Machiavelli, nei suoi Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, aggiunse il particolare secondo il quale Caterina, di fronte all’esibizione dei figli in lacrime sotto le mura della fortificazione, prigionieri degli assassini del marito, «mostrò loro le membra genitali» (in N. Machiavelli, Tutte le opere secondo l’edizione di Mario Martelli, introd. di M. Ciliberto, Milano 2018, p. 597), manifestando così che non si curava della loro sorte, perché in grado di procreare ancora. La forza di questa scena si mantenne intatta addirittura fino ad Antonio Gramsci, che la riprese facendone una metafora della fecondità insopprimibile dei processi storici.
Intanto, nella stessa primavera 1488, Caterina poteva contare sull’appoggio dei consanguinei di casa Sforza: alla fine di aprile, un esercito di più di diecimila uomini si presentò a pochi chilometri dalle mura di Forlì. Tanto bastò per far fuggire i responsabili dell’omicidio del conte Girolamo. Caterina uscì da Ravaldino e prese il potere in nome del figlio Ottaviano, il 30 aprile 1488; quattro giorni dopo, il comandante del contingente milanese, Galeazzo Sanseverino d’Aragona, conte di Caiazzo, l’accompagnò nella sua cavalcata ufficiale verso palazzo Riario. La bolla ufficiale pontificia, che le affidava ufficialmente il ruolo di reggente sarebbe stata emanata il 15 agosto seguente.
Sulla scorta del netto successo conseguito, Caterina intraprese una feroce opera di repressione della fazione avversaria, con terribili condanne a morte pubbliche. Il palazzo della famiglia Orsi fu demolito e l’area nella quale sorgeva fu trasformata in discarica (nel 1525 sarebbe stata utilizzata per edificarvi il palazzo del Monte di Pietà). Quindi, terminato il momento della vendetta, promosse lavori nel santuario della Madonna del Piratello, presso Imola, di cui era molto devota. Le sue condizioni finanziarie, però, si deteriorarono presto. Già nell’aprile 1490 ella fu costretta a chiedere sussidi al duca di Milano. Nel successivo agosto, poco sicura della fedeltà del castellano di Ravaldino, Tommaso Feo, lo sostituì con il fratello, Giacomo, suo amante, sposato in segreto per non perdere la reggenza dei domini di casa Riario in nome del figlio Ottaviano.
Il 1492, con la morte del Magnifico, quella di Innocenzo VIII e l’elezione di Alessandro VI Borgia, doveva costituire uno spartiacque anche per la traiettoria della Sforza. Innanzi tutto, ella sembrava ormai priva di liquidità, né migliore appariva lo stato dell’economia nei suoi domini: all’inizio di marzo, di nuovo, si rivolse al fratello Gian Galeazzo, nominalmente duca di Milano, per un aiuto. Un soccorso effettivamente venne, ma Caterina dimostrandosi molto unita a Piero de’ Medici, di fatto si allontanava dall’alleanza con Ludovico il Moro, vero principe milanese. Non aveva timore di esplicitarlo. In un colloquio con Puccio Pucci, oratore fiorentino, apertamente dichiarò che mentre viveva Lorenzo de' Medici «il S. Lodovico non si ardiva né atentava di partirsi di Milano, per andare insino a Pavia», mentre ora «gli par[eva] potere ire a spasso» (cit. in Pasolini, 1893,. III, p. 185). Il Moro ebbe modo di rinfacciarglielo in una lettera a lei diretta il I giugno 1493.
La resa dei conti era vicina. Mentre il re di Francia Carlo VIII preparava la discesa in Italia, rivendicando la Corona napoletana, la posizione strategica dei domini romagnoli di Caterina risaltava a tutto tondo. Da Milano, man mano che la primavera avanzava, si moltiplicarono le pressioni affinché ella non aiutasse gli aragonesi; quindi, in agosto, il Moro le chiese esplicitamente, più volte, di allearsi con il re di Francia. Nelle stesse settimane, del resto, era avvenuta presso Cantalupo, 13 km a nord di Imola, l’unione tra le truppe francesi al comando di Bérault Stuart, signore d’Aubigny, inviate a operare in Emilia, e quelle sforzesche, guidate dal conte di Caiazzo Galeazzo Sanseverino. Dal canto opposto, anche Piero de’ Medici e il papa intendevano guadagnare Caterina alla propria parte, ma si dimostrarono poco coordinati. La missione a Forlimpopoli del cardinale Raffaele Riario, nella stessa estate, sembrò immaginata più per contrastare la presenza e l’influenza di Giacomo Feo, che per guadagnare la signora di Imola e Forlì con un patto veramente allettante. Così, dopo un periodo di ripetute rivendicazioni di neutralità, Caterina iniziò a inclinare verso gli aragonesi. Il passo successivo fu l’accordo con il fronte antifrancese, mediato dalla concessione di una condotta al figlio Ottaviano, per l’ingente somma di 16.000 ducati annui, pagati da Roma, da Firenze a da Napoli.
Le vicende della guerra, in poche settimane, vanificarono le schermaglie diplomatiche dei due mesi precedenti. Le truppe aragonesi, sotto il comando del duca di Calabria Ferdinando, erano acquartierate nel Cesenate sin da luglio. All’inizio di settembre, esse raggiunsero dapprima Villafranca, presso Forlì, poi – approvvigionate e alloggiate proprio dai sudditi di Caterina – Faenza, Imola, Castel San Pietro e Toscanella. La reggente Sforza incontrò Ferdinando d’Aragona a Bagnara di Romagna, ma non ne scaturì un efficace coordinamento delle operazioni: nella seconda metà di ottobre, la guerra investì direttamente il territorio di Imola e Forlì. I francesi assediarono dapprima il castello di Bubano, poi quello di Mordano. Quest’ultima località fu presa con strage grandissima di difensori e abitanti. Ferdinando d’Aragona non rischiò i suoi uomini. Così, prima della fine dello stesso mese, la Sforza si accordò con i francesi, cui promise libero passo e vettovagliamento.
Per quasi tutto il mese di novembre, l’esercito invasore ne approfittò: solo nell’ultima settimana dello stesso mese tolse le tende. All’inizio del 1495, Caterina, si concentrò sulla conclusione dei patti nuziali tra sua figlia Bianca e Astorre Manfredi, il giovanissimo figlio di Galeotto, signore di Faenza, ucciso il 31 maggio 1488. La costituzione di una realtà statuale più omogenea, qualora il maggior centro posto tra Forlì e Imola fosse entrato nell’orbita Riario-Sforza, sembrava a portata di mano. Tuttavia, i progetti di Caterina trovarono ostacoli insormontabili.
Innanzi tutto, il 27 agosto 1495, fu assassinato Giacomo Feo. Caterina punì i colpevoli, i fiancheggiatori, persino i loro familiari, con violenza inaudita. Sul piano politico, poi, gli arrivavano ancora insistenti richieste dal Moro di allearsi con Milano e con i membri della nuova lega antifrancese (il papa, Venezia, Serenissima, l'imperatore Massimiliano, i sovrani di Spagna). Caterina, si schermì, restando legata all’idea di un rapporto preferenziale con Firenze, anche ora che la città si era costituita in Comune popolare, alleato di Carlo VIII.
Politica e vita sentimentale dovevano ancora intrecciarsi. Per la prima volta nel 1496, Firenze inviò a Caterina un ambasciatore, Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici, detto il Popolano. Ne nacque una relazione, che la Sforza volle di nuovo sugellare mediante un matrimonio segreto, non senza prima aver guadagnato, nel novembre dello stesso anno, l’appoggio del re di Francia. Nel contempo, Caterina si rivolgeva a fra’ Girolamo Savonarola, «desiderando havere refugio a Dio, et essere da Lui adiutata, maxime in questi tempi pericolosi» (G. Savonarola a Caterina Sforza, Firenze, 18 giugno 1497, in Pasolini, 1893, III, pp. 276-277).
Nondimeno, i pericoli maggiori le dovevano venire da chi sedeva sul trono di Pietro. Infatti, Alessandro VI le fece arrivare nel maggio 1498 la proposta di unire in matrimonio il figlio Ottaviano – libero già da due anni da un precedente fidanzamento con Isotta Bentivoglio – con Lucrezia Borgia, a sua volta sciolta proprio per intervento del pontefice dal vincolo coniugale già contratto con Giovanni Sforza, signore di Pesaro. Non sembrò alla Sforza un disegno sincero, né opportuno, incredula che le fosse stato offerto il partito di una donna già «moglie de altri e che havesse tri anni dormito cum il marito, et cum uno de casa nostra» (Caterina Sforza a C. Risorboli, Forlì 31 maggio 1498, in Pasolini, 1893, III, p. 289). Preferì inviare il figlio a combattere per i Fiorentini all’assedio di Pisa e lo sostenne con infaticabili arruolamenti tratti dai suoi domini. Ottaviano Riario diede per la prima volta dimostrazione del suo valore: fu invece il Popolano che lo accompagnava a perire, per malattia, alla metà di settembre 1498, quando da cinque mesi era nato il figlio avuto da Caterina. Chiamato inizialmente (e battezzato) Ludovico, a quest’ultimo fu dato per ricordo del padre il nome di Giovanni: sarebbe divenuto non solo uno dei più stimati comandanti militari del primo Cinquecento, ma anche il genitore del primo granduca di Toscana, Cosimo I de’ Medici.
Nel contempo, era scaduto l’anno della condotta di Ottaviano, peraltro trascorso nella minaccia di un attacco veneziano dal Polesine o dalla Romagna costiera. Presso Caterina, nella terza settimana di luglio 1499, arrivò Niccolò Machiavelli, con l’incarico di trattarne il rinnovo. Nulla fu concluso in quell’occasione: Machiavelli però avrebbe avuto modo di menzionare più volte la Sforza nelle sue opere.
Lo stesso anno, il nuovo re di Francia, Luigi XII, scese in Italia puntando al ducato di Milano e al Regno di Napoli. Poteva contare sull’alleanza di alcuni antagonisti della Sforza, quali i Veneziani e Alessandro VI. Caterina fu investita dalla minaccia. Il 9 marzo 1499, papa Borgia dichiarò decaduti i Riario-Sforza dai vicariati di Imola e Forlì, investendone il figlio Cesare. Caterina tentò di sondare addirittura Luigi XII, vittorioso a Milano, per avere qualche forma di appoggio, ma invano. Alla fine di ottobre le era chiarissimo che avrebbe dovuto difendersi militarmente.
La guerra iniziò poco dopo. Caterina si chiuse nella rocca di Ravaldino e si accinse a sostenere l’assedio. Tuttavia, Imola si arrese già il 25 novembre 1499. Tre settimane dopo, Cesare entrò in Forlì. Caterina resistette a lungo all’interno della sua fortezza, combattendo in prima persona, rendendosi protagonista di sortite a cavallo e addirittura sfidando il figlio del papa in un combattimento a due. Tuttavia, un ennesimo attacco, il 16 gennaio, vinse ogni opposizione. Caterina si arrese al balì di Digione, Antoine de Bessay, capo delle truppe svizzere distaccate da Luigi XII presso l’esercito di Cesare Borgia, che la cedette quasi immediatamente al Valentino, dietro corresponsione di una taglia e ricordandogli la sostanziale protezione francese nei confronti della detenuta. Condotta a Roma, Caterina rimase dapprima in custodia nel Belvedere Vaticano; poi, entrò nelle prigioni di Castel Sant’Angelo. In favore di una liberazione fece esplicitamente pressione il re di Francia, per bocca del suo generale Yves de Tourzel, barone d'Alègre. Questi incontrò Alessandro VI a Roma il 20 giugno 1501, quando era in procinto di invadere il Regno di Napoli con un forte esercito. Dieci giorni più tardi, dopo che aveva rinunciato a rivendicare lo stato romagnolo, Caterina fu liberata. Decisa a sventare la minaccia di cadere vittima di un omicidio politico ritenuto certo da tutti gli osservatori, raggiunse un porto vicino Roma, Ostia o Fiumicino; prese il mare e sbarcò a Livorno. Alla metà di luglio 1501 entrò a Firenze, dove aveva inviato i figli, compreso Giovanni, prima di perdere il suo Stato.
Proprio per ottenere la custodia del figlio, sottrattagli da Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, fratello del Popolano, e per non lasciarsi sottrarre l’eredità di quest’ultimo, il primo periodo del soggiorno fiorentino venne impegnato in battaglie legali. Quindi, defunto il pontefice il 18 agosto 1503, Caterina iniziò a vagheggiare un ritorno nei feudi di casa Riario. Tuttavia, l’opposizione netta della fazione guelfa imolese, capeggiata dalla famiglia Sassatelli e la freddezza dimostrata dal nuovo pontefice, Giulio II Della Rovere, vanificarono il disegno: il 4 novembre 1504 Imola sarebbe definitivamente tornata fra i domini immediatamente sottoposti all’autorità della Sede apostolica. Le ristrettezze economiche, del resto, non permettevano più alla Sforza di tentare alcunché di ambizioso. La nomina a vescovo di Viterbo del figlio Ottaviano, nel settembre 1506, non soddisfaceva certo i ripetuti tentativi di ottenere per lo stesso il cappello cardinalizio.
Caterina cadde ammalata già fra il 1508 e il 1509. Fece testamento, ricordando figli e nipoti (ma non la figlia Bianca, che forse ebbe già precedenti donazioni). Privilegiò senza dubbio Giovanni de’ Medici, figlio del suo ultimo marito. Morì a Firenze il 28 maggio 1509. Seguendo le disposizioni testamentarie, il suo corpo fu seppellito nella chiesa del monastero delle Murate, ove rimase fino al 1835, quando – con l’obiettivo di trasformare il complesso in carcere giudiziario – vennero effettuati lavori al pavimento dell’antico presbiterio. Le ossa furono esumate, ma finirono disperse dopo la metà dell’Ottocento.
Tra i figli, oltre al citato Ottaviano, Cesare, già dal 3 giugno 1499, era stato nominato amministratore dell'arcidiocesi di Pisa: la sua carriera ecclesiastica si sarebbe conclusa come vescovo di Malaga; Bianca, non avendo potuto ufficializzare la sua unione con il fidanzato Astorre Manfredi, preso prigioniero da Cesare Borgia, condotto a Roma e assassinato nel 1501, sposò il conte Troilo de’ Rossi di San Secondo; Giovanni Livio era morto già nel 1496; Francesco fu vescovo di Lucca dal 1517; Galeazzo sposò Sista Gara della Rovere e diede vita ad un ramo bolognese della famiglia Riario.
Caterina compilò una corposa raccolta di ricette alchemiche, medicinali e cosmetiche: gli Experimenti. L’opera dimostra l’ampiezza dei suoi interessi in questo campo, stabilmente coltivati per tutta la vita. Caterina raccoglieva conoscenze sia pratiche che esoteriche, facendo ricorso a fonti diverse: dalla tradizione della cultura bassa, ai testi della cultura alta, senza disdegnare l’esperienza di laboratorio, diretta o riferita da altri. Fu in corrispondenza con fornitori di sostanze e ricevette non di rado richiesta di intervento, in virtù della sua perizia.
Come committente di lavori artistici, si fanno particolarmente notare le medaglie in bronzo con suoi ritratti, risalenti al periodo della reggenza romagnola. Ne sono conservati esemplari nel Kaiser Friedrich Museum di Berlino, nel British Museum e nel Victoria and Albert Museum di Londra, a Milano, nel Castello Sforzesco. Ella promosse altresì lavori al convento di S. Francesco e nella chiesa di S. Biagio in Forlì e fu attenta a rafforzare le difese militari di Forlì e di Imola.
Il quadro noto con il nome di Dama dei gelsomini di Lorenzo di Credi (Forlì, Pinacoteca civica) è considerato un suo ritratto, ma l’identificazione è contestata dalla critica. Contrasti hanno altresì accolto la proposta di identificare con Caterina Sforza addirittura La Gioconda di Leonardo da Vinci. La sua figura rimane nondimeno al centro di rielaborazioni culturali: nel Novecento al drammaturgo toscano Sem Benelli si deve la rappresentazione teatrale in tre parti Caterina Sforza (1934) e al regista Giorgio Walter Chili il film Caterina Sforza, la leonessa di Romagna (1959); ricostruzioni biografiche romanzate si succedono ancora nel secondo decennio del XXI secolo. Si notano La bastarda degli Sforza di Carla Maria Russo (Milano 2015-16) e Io, Caterina di Francesca Riario Sforza (Milano 2016).
In edizione recente sono disponibili gli Experimenti de la ex.ma s.ra Caterina da Furlì matre de lo inllux.mo signor Giovanni de Medici, Imola 2009 (ed. anast. dell'ed. Imola 1894).
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