Catone l'Uticense
Marco Porcio C. (95 - 46 a.C.) è ricordato in If XIV 13-15, e in più luoghi del Convivio e della Monarchia (di cui si dirà più avanti); personaggio dei canti i e II del Purgatorio. Come di altri personaggi della Commedia, non se ne fa il nome, ma indirettamente è designato dai nomi di Utica e di Marzia nel discorso a lui rivolto da Virgilio, che l'ha subito riconosciuto e che gli parla con grande reverenza (O sacro petto), ed evocato nei tratti fisici e morali che ce ne lasciarono gli scrittori antichi e in particolare Lucano, felicemente sintetizzati. In aspetto di venerando vecchio (anzi veglio, con voce, nota il D'Ovidio, meno consueta e perciò più nobile; anche più innanzi, nel canto II, egli è il veglio onesto; non ha fondamento l'opinione [Chistoni] che D. lo confondesse con Catone il vecchio), dalla lunga barba grigia (e non bianca, come troppi ripetono), dalla doppia lista di capelli, appare inatteso dinanzi a D. e Virgilio usciti dalla cavità infernale, illuminato dalla luce di quattro stelle fulgidissime, simbolo evidente delle virtù cardinali; con tono severo, quasi di rimprovero, chiede ai poeti il perché della loro presenza, che sembra in contrasto con le leggi d'oltretomba, e alle parole di Virgilio, il quale con finezza oratoria non soltanto spiega le ragioni del loro viaggio, voluto dal cielo, ma cerca di cattivarne la benevolenza per D. toccando le corde più sensibili (l'amore della libertà - cfr. Cv III V 12 -, la gloriosa morte in Utica, l'affetto per Marzia) risponde respingendo quelle che gli paiono lusinghe e dà, senz'altra replica, brevi e precise istruzioni su quel che deve far Virgilio per preparare D. all'ascesa del monte del Purgatorio (lavargli il viso per tergerlo dei segni della caligine infernale, cingerlo del giunco simbolo di umiltà); dopo di che scompare così improvvisamente com'era apparso. Ricomparirà mentre D., Virgilio e gli spiriti appena giunti al Purgatorio ascoltano rapiti il canto di Casella, per rimproverar loro con la severità che gli è propria quel colpevole indugio.
Per l'ufficio che adempie è detto dai commentatori, non da D., guardiano o custode del Purgatorio (da taluno erroneamente dell'Antipurgatorio), con termine non del tutto proprio e forse inadeguato alla sua dignità. Egli stesso parla del monte del Purgatorio come delle mie grotte e Virgilio dei suoi sette regni (vale a dire le sette cornici del Purgatorio) con reminiscenza, nota il Tommaseo, dei " regna " di Radamanto, e, prima, più esplicitamente alludendo al proprio compito: e ora intendo mostrar quelli spirti / che purgati sé sotto la tua balìa (I 65-66; balìa: "potestà governo ", Daniello): trasposizione cristiana, come tutto l'episodio, di cui è la fonte prima, della figura di C., quale è rappresentata nella descrizione dello scudo di Enea nel verso " secretosque pios, his dantem iura Catonem " (Aen. VIII 670), convertiti gli spiriti degli Elisi nelle anime destinate alla beatitudine e colui che grandissimo fra i grandi romani compariva come loro signore e giudice, nel personaggio dantesco preposto al regno della salvezza e dell'espiazione, investito di un carattere di sacralità.
Ma indipendentemente dal suo ufficio, se pur è lecito distinguere la persona di C. dal compito che gli è stato affidato, egli viene a rappresentare l'uomo perfetto (Parodi), naturalmente perfetto, la vetta a cui è giunta l'umanità antica prima della rivelazione, per l'esercizio delle virtù cardinali spinte tant'oltre che la sua figura, illuminata della loro luce, appare a D. come fosse illuminata dalla luce del sole, ossia dalla stessa grazia, di savio antico e insieme di santo (De Sanctis). Tanto lo ha avanzato ' Dio tra gli altri magnanimi del nobile castello, che l'ha tratto insieme coi patriarchi fuori del Limbo (" alla santità veneranda dei patriarchi fa pensare la sua figura ", Momigliano), e l'ha posto alle soglie del regno della salvezza come esempio di perfezione umana, a cui altro luogo non si conveniva che questo confine alle falde del monte del Paradiso terrestre. Per questo non sono semplici adulazioni, come è parso a taluno (Renucci), le parole di Virgilio de l'alto scende virtù che m'aiuta / conducerlo a vederti e a udirti (I 68-69), in quanto l'incontro con questo personaggio esemplare è, se non la meta, una delle mete del viaggio di D. (Proto), come una meta è il Paradiso terrestre, preannunciato in certo senso dal più perfetto degli uomini antichi, " severissimus auctor " di quella libertà che D. va cercando nel suo viaggio d'oltretomba. Anche per questo la sua parte non avrebbe potuto esser affidata a un angelo, sostanza separata, creatura del tutto staccata dalla terra; doveva essere un personaggio storico, quel personaggio che per la figura e per le gesta, e più ancora per la celebrazione che ne avevan fatto gli scrittori antichi, rimasta non senza eco nel Medioevo, si presentava a D. con l'aureola di una singolare esemplare grandezza, come si presenterà ancora al Montaigne che ne darà un giudizio non disforme da quello di D.: " Ce personnage là fut véritablement un patron que nature choisit pour montrer jusques où l'humaine vertu et fermeté pouvoit atteindre " (Essais, I 37).
A quegli scrittori che alla fine della repubblica e poi nell'età della restaurazione augustea e nel primo secolo dell'impero, e in particolare a Cicerone e a Virgilio, a Seneca e a Lucano, avevano esaltato l'Uticense come modello di virtù, come figura fuori del comune e in certo senso unica, soprastante a ogni altra, tale da dover essere assunta ad esempio (valgano fra i molti Cicerone Fin. IV XVI 44 " omnium virtutum auctor " e Seneca Const. sap. II 1 " securum te esse iussi Catonem... certius exemplar sapientis viri nobis deos immortales dedisse, quam Ulyssem et Herculem prioribus saeculis "), D. si rifà per la sua trasfigurazione cristiana dello stoico avversario di Cesare, rielaborando i dati di quella tradizione da lui accolta con reverenza e con evidente simpatia per un uomo, in cui sentiva tanto di sé medesimo: già Benvenuto a giustificare la parte che C. ha nella Commedia, ricordato il monito di Seneca di scegliersi un individuo ad esempio del proprio operare, scrive che D. ha scelto " Catonem rigidum quia et ipse multum fuit rigidus et durus ", e le sue parole sembrano riecheggiate in quelle del Croce sul personaggio dantesco: " Catone è la figura in cui il poeta attua uno dei lati del suo ideale etico: la rigida rettitudine, l'adempimento dell'alto dovere, che par che non possa compiersi... senza rivestirsi di una certa asprezza, senza l'abito ritroso e alquanto diffidente di chi vigila sempre su sé stesso e sugli altri ".
Precedenti dell'episodio del Purgatorio sono i passi del IV libro del Convivio nei quali D. torna con significativa insistenza su C., menzionandolo come seguace della dottrina stoica che riassume da Cicerone con poche icastiche linee: filosofi molto antichi... credettero questo fine de la vita umana essere solamente la rigida onestade; cioè rigidamente, sana respetto alcuno, la verità e la giustizia seguire, di nulla mostrare dolore, di nulla mostrare allegrezza, di nulla passione avere sentore. E diffiniro così questo onesto: ‛ quello che, sanza utilitade e sanza frutto, per sé di ragione è da laudare '. E costoro e la loro setta chiamati furono Stoici, e fu di loro quello glorioso Catone (IV VI 9-10); e nel capitolo precedente, al termine della rassegna dei grandi Romani, le cui azioni non potevano non essere ispirate da Dio, rinunciando a ricordare le sue come aveva fatto per le gesta di quegli altri personaggi, con una preterizione che viene a rilevare retoricamente l'acme del discorso e ad accostare lo stoico pagano nientemeno che a s. Paolo: O sacratissimo petto di Catone, chi presummerà di te parlare? Certo maggiormente di te parlare non si può che tacere, e seguire Ieronimo quando nel proemio de la Bibbia, là dove di Paolo tocca, dice che meglio è tacere che poco dire (IV V 16). Né esita, per innalzarlo ancor più, a escogitare un'interpretazione allegorica delle vicende dei matrimoni di Marzia (così come erano narrate nel I libro della Pharsalia), riconoscendo nella donna un'allegoria dell'anima e in C. addirittura della divinità a cui l'anima fa ritorno alla fine della vita, e ribadendo la propria interpretazione con queste parole: E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone ? Certo nullo (IV XXVIII 15); affermazione che può sorprendere non tanto per l'arditezza dell'allegoria, poiché essa non comporta, come è ovvio, identità, quanto per quella risoluta negazione che alcun uomo terreno sia stato più degno di significare Iddio (lo Scarano ritiene che in queste parole non si faccia nessuna eccezione, nemmeno per i padri della Chiesa e per i santi), se non si avvertisse in quel terreno non già un pleonasmo, " uomo sulla terra ", quanto piuttosto una specificazione: uomo terreno, vale a dire dotato di virtù naturali. (E se D. ha avuto qui presente il passo di Seneca autore delle Controversiae [I, exord.], citato dai commentatori: " Et quem tandem antistitem sanctiorem invenire sibi divinitas potuit quam Catonem, per quem humano generi non praeciperet, sed convicium faceret? ", certo è andato ben più oltre). E la storia di Marzia e dei suoi matrimoni, con C. e con Ortensio, e infine di nuovo con C. (il cui nome ricorre ancora ai §§ 13, 14 [due volte], 15, 16, 18, 19), ossia dell'anima umana attraverso le diverse età e delle virtù che a ciascuna si convengono, si conclude ancora col nome di C.: Nel nome di cui, commenta lo scrittore, è bello terminare ciò che de li segni de la nobilitade ragionare si convenia, però che in lui essa nobilitade tutti li dimostra per tutte etadi (§ 19). È qui già, nel libro dedicato alla nobiltà, il veglio onesto del Purgatorio, il personaggio in cui, a giudizio di Pietro, il poeta " figurat virtutem et honestatem... Cato idest virtus honestatis ".
È però da notare che in questi passi del Convivio non si fa menzione del suicidio dell'Uticense; che invece è presentato come il fatto più memorabile, anzi essenziale della personalità di C. nella Monarchia, con cui si conclude, come si concludeva nel Convivio, non soltanto per ragioni cronologiche, la rassegna dei grandi Romani, ricordati come esempio di uomini che il loro operare volsero al bene comune. Quella magnanima morte, accostata e posta al disopra del sacrificio dei Deci, si rivela, dopo gli altri esempi della virtù romana, l'esempio più grande, l'ammaestramento più alto che un Romano abbia lasciato agli uomini di tutti i tempi: Accedunt nunc illae sacratissimae victimae Deciorum, qui pro salute publica devotas animas posuerunt... accedit et illud inenarrabile sacrifitium severissimi verae libertatis tutoris Marci Catonis. Quorum alteri pro salute patriae mortis tenebras non horruerunt; alter, ut mundo libertatis amores accenderet, quanti libertas esset ostendit dum e vita liber decedere maluit quam sine libertate manere in illa (Mn II V 15). L'autorità di Cicerone soccorre a D., per giustificare quell'atto come straordinario, unico, in certo qual modo necessario a tal uomo per rimanere fedele a sé stesso, alla legge che s'era imposta, alla coerenza che aveva informato tutte le sue azioni e per cui altra doveva essere la sua condotta da quella dei suoi compagni di partito: " Catoni vero cum incredibilem natura tribuisset gravitatem, eamque perpetua constantia roborasset, semperque in proposito susceptoque consilio permansisset, moriendum ei potius, quam tyranni vultus adspiciendus fuit " (0 ff. I XXXI 112). La preterizione (o reticenza?) del Convivio si risolve in queste esplicite affermazioni con cui si riconosce carattere di vero e proprio martirio alla morte dell'Uticense (inenarrabile sacrifitium severissimi verae libertatis tutoris), un più ampio universale valore di quello meramente politico alla libertà (non persuade l'interpretazione di Vinay di vere avverbio anziché aggettivo - vere = verae -, in quanto, contrariamente a quello che egli dice, l'esempio di C. non resta " un modello interno alla storia di Roma " bensì veramente " si proietta su un piano assoluto " di una più comprensiva libertà, come è attestato dai versi del Purgatorio), la severità del dovere imposto a un individuo che dagli altri si distingue per superiore saggezza.
Così D. pur senza nominarlo viene a contrastare il giudizio che del celebrato suicidio di C. aveva dato s. Agostino nel De Civitate Dei (I 22, 23, 24), ribadendo che a nessuno è lecito uccidere sé medesimo, e ricordando che C. aveva pure esortato il figlio a sottomettersi a Cesare (e quel che era giusto per il figlio perché non lo era per lui?): e la citazione di Cicerone sembra rispondere a questo argomento agostiniano. Piuttosto in Agostino stesso egli poteva trovare una giustificazione per quell'accenno alle sante che sfuggirono uccidendosi agli oltraggi in tempo di persecuzioni, o alla morte di Sansone (" Si hoc fecerunt, non humanitus deceptae sed divinitus iussae; nec errantes, sed oboedientes "); e così in un passo di s. Tommaso, il quale richiamandosi ad Agostino afferma che a nessuno è lecito darsi la morte, ma aggiunge " nisi forte divino instinctu fiat, ad exemplum fortitudinis ostendendum, ut mors contemnatur " (Sum. theol., Suppl. 96 6 ad 6). Tale era appunto per lui il suicidio di C., un suicidio singolare di un individuo eccelso, ispirato non da timore ma da una legge di superiore coerenza morale e, se ben si vede, dalla stessa divinità (" un eroe cristiano... si uccide per ispirazione divina ", Parodi). Per questo non si deve ricordare - come invece si è fatto da più d'uno (fra gli altri Porena, Gmelin) per spiegare il posto singolare che il suicida d'Utica ha nell'oltretomba - che altra è la legge dei cristiani, altra quella dei pagani, e che conformemente alle due leggi D. nel girone dei suicidi colloca soltanto cristiani, mentre suicidi pagani sono in altre parti dell'Inferno, come Cleopatra e Lucrezia. Il suicidio di C. non era per lui un atto che dovesse essere giustificato con l'ignoranza della legge divina, una colpa sì ma una colpa meno grave che per un cristiano, bensì un atto divinamente ispirato ed esemplare, come era stato per gli antichi, e che acquistava un nuovo senso e valore entro la sua concezione del mondo.
La pagina della Monarchia è il migliore commento del canto I del Purgatorio e avrebbe dovuto prevenire dubbi e obiezioni di lettori: ma è pur lecito supporre - come confermerebbero, nonostante l'autorità della contraria tesi del Nardi, le ipotesi più attendibili sulla cronologia della Monarchia e del Purgatorio (o almeno dei primi canti del Purgatorio) - che tra i passi ricordati del Convivio e il capitolo della Monarchia si collochi la figura di C. quale è stata concepita dal poeta della Commedia, superando nella creazione poetica o poetico-teologica quel che era incerto ancora e approssimativo negli elogi del trattato italiano e trapassando dalla forzata interpretazione allegorica (Catone-Dio, Marzia-anima) a una rappresentazione figurale (Auerbach) per cui il C. storico con le sue virtù e le sue gesta è prefigurazione del personaggio del Purgatorio. Nell'ambito di questa interpretazione (e qui è più che altrove legittima e persuasiva la proposta dell'Auerbach) il suicidio di C., esaltato dagli antichi, ha la sua consacrazione: salvo non già nonostante il suicidio ma per il suicidio (Ussani, Rossi), C. può avere una parte fondamentale nella vicenda del poeta pellegrino e la libertà da lui rivendicata col magnanimo rifiuto rivelarsi una cosa sola con quella cercata da D. nel suo viaggio d'oltretomba, e in particolare su per il monte dell'espiazione, che è anche il monte della liberazione, il regno della libertà, di cui l'Uticense è signore. Perciò le parole di Virgilio libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta (Pg I 71-72) e la menzione che segue di Utica e della sua morte non sono una semplice captatio benevolentiae, ma rispondono anch'esse a una verità di fatto, anzi sono la chiave dell'interpretazione di tutto l'episodio e di questo grande personaggio dantesco in cui si rivela nel suo profondo significato sul piano dell'eternità in un mondo metastorico la sua storica personalità.
Non più allegoria (le allegorie proposte sono troppo vaghe o non altro che definizioni del suo carattere, come la ‛ nobiltà ', la ‛ libertà ', la ‛ virtù naturale ', ecc.), o se si vuole allegoria di sé medesimo, l'idea di C. nella sua purezza (" tel qu'en lui-méme enfin l'Eternité le change "), egli è anche qui, come era stato in terra, l'uomo della legge (Valente), che alla legge, la legge cristiana d'oltretomba, sempre si richiama (Son le leggi d'abisso così rotte?, v. 46; più muover non mi può, per quella legge che fatta fu, vv. 89-90), che ne è custode inflessibile attuando e compiendo nel mondo della Grazia quel che era stato l'ideale dello stoico (cfr. sulla dottrina stoica il passo cit. del Convivio); uomo del dovere per il dovere, che sdegna come lusinga ogni appello a sentimenti estranei alla ragione e alla legge, intollerante di ogni debolezza: Qual negligenza, quale stare è questo? (II 121).
Bene egli sta per questo suo carattere al principio del cammino dell'espiazione, per far presente con la sua figura e con le sue parole la severità del compito che il pellegrino deve affrontare, così come alla sommità del monte dopo le solenni parole di Virgilio: libero, dritto e sano è tuo arbitrio (XXVII 140), a D. si presenterà nel Paradiso terrestre la figura di Matelda, congiunta e pur opposta a quella di C. (cfr. Proto), quasi due aspetti della libertà morale: nell'uno, il veglio onesto, la libertà come sommissione alla legge, nell'altra, la giovane donna, la gioia dello spontaneo libero operare.
Una tale concezione non ha potuto non suscitare dubbi sulla sua ortodossia, o almeno su come D. poteva conciliarla con la sua fede. Li enuncia, se non per primo, in forma più esplicita, Benvenuto: " Hic autem erat Cato Uticensis. Et quia hic videtur error satis enormis, rogo te, lector, ut vires animi parum colligas ad considerandum quid poeta noster intendat sub ista mirabili nova fictione, quae videtur sapere haeresim: nimis enim videtur absurdum quod ponat Catonem custodem purgatorii, quem debuisset ponere in inferno, tum quia fuit paganus infidelis, tum quia interfecit se ipsum; unde debebat melius reponi inter violentos contra se ipsos "; e prosegue respingendo le affermazioni di alcuni commentatori (tra cui era Pietro) che " poeta propter mirabilem virtutem Catonis imaginatur quod Deus inspiraverit sibi veram cognitionem fidei; sed istud nihil valet ". È pur lecito ammettere che Dio nel suo giudizio imperscrutabile l'abbia salvato, ma per quel che ci è dato conoscere non possiamo non ritenerlo dannato. " Ideo si poeta habebat respectum ad excellentiam virtutis Catonis, sufficiebat ponere ipsum inter viros illustres cum Socrate, Seneca, et aliis magnis viris, quos ponit sine poena in loco luminoso et herboso ". Nemmeno si può accettare l'opininone di chi ritiene che C. sia qui introdotto come allegoria dell' onestà ' o ‛ nobiltà ' (simbolo dell'onestà è piuttosto Marzia, e sull'onestà di C. è da ricordare quanto ha scritto s. Agostino); ma tutti i dubbi sono risolti, conclude Benvenuto, se si pensa che C. sia un personaggio allegorico scelto da D. per la conformità del suo carattere, come colui che lo dirige alla via della salvezza (" fingit sibi praesentiam Catonis, qui dirigit ipsum ad viam virtutis altissimae "); l'ha scelto memore di quanto aveva scritto Valerio Massimo " quod qui unum bonum ac sapientem nominare voluerit, sub Catonis nomine diffiniat ", e perché più di altri fu pieno delle quattro virtù cardinali: " et fuit acerrimus defensor libertatis, quam solam poeta nunc ibat quaerendum ". Resti però ben fermo che la figura di C. è finzione poetico-allegorica di D. e chi la ritenesse rispondente a realtà sappia che "ista litera et expositio est alienissima a mente autoris, qui fingit Catonem esse salvum, non quia sic sit, nec quia sic credat; sed sub integumento huius nobilis fictionis intendit aliam nobilem sententiam ".
Una simile distinzione fra il C. storico e il C. allegorico stabilisce il Landino: " E perché potrebbe parere a molti che lui si diviasse dalla cristiana religione tenendo uno huomo gentile e morto senza battesimo in luogo di salvazione, rispondo che non pone qui l'anima di Catone la quale siamo constretti a credere che sia tra le dannate, ma ponla per la libertà togliendo questo nome e perché tale uomo più che ogni altro fu amatore della libertà e quella prepose alla vita. Né altra cosa è più conveniente a questo luogo che la libertà ". Simbolo dunque della libertà, egli ha sotto la sua balìa il Purgatorio perché nessuno può entrarvi se non si pente dei suoi errori cessando di essere servo dei vizi e diventando cupido della libertà. Può sembrare che il poeta annoveri C. fra gli eletti là dove parla della vesta ch' al gran dì sarà sì chiara (Pg I 75): in realtà egli intende discorrere non già di C. ma della libertà " la quale è significata per Catone, imperrocché tutti quelli che hanno fuggiti i vizi sono diventati liberi e saranno fra gli eletti ". Né diversamente pensa il Vellutello, che segue il Landino anche su questo punto.
Sembra invece al Daniello che quanti si sono affaticati a ricercare perché D. abbia posto C. a guardia del Purgatorio, non essendo stato cristiano ma gentile, non si siano accorti che " il poeta non per altro lo fece che per imitare Virgilio che puose il medesimo Catone giudice dei campi Elisi... ed anche si può dire", aggiunge, " che egli lo ponga per custodia di quei spiriti, i quali, liberati dalla servitù del peccato ma non ancora dalla purgazione di quello, vanno per i suoi sette regni di questa compita libertà cercando per acquisto della quale egli si uccise ". Ai troppo scrupolosi poi rammenta che s. Tommaso stesso ammette la salvezza di infedeli non battezzati, illuminati dalla Grazia, come Rifeo e Traiano, di cui si discorre nella Commedia, né sente più il bisogno di distinguere tra il C. storico e il C. simbolico. Per lui è indubbio che il C. del Purgatorio è ormai cristiano: basterebbe quel che dice di Marzia che muover non lo può per la legge che li divide, non essendo ella nel numero degli eletti com'egli era.
Non solo nei tempi successivi non è stata abbandonata la distinzione tra l'individuo storico e il simbolo, ma per effetto di spiriti controriformistici si è fatto sentire più pesante il giudizio sul C. storico e sullo stesso poeta, che sembra non avere giustificazione per così infelice scelta. Così padre Venturi respinge le difese dei precedenti commentatori: " Qui Landino, Vellutello e Daniello, e altri appassionati per Dante, s'ingegnano di purgarlo da questo sconcio che un idolatra si metta per custode del Purgatorio. Ma causa patrocinio non bona maior erit. Egli semplicemente, senza pensare tanto alto quanto vorrebbono, imitò Virgilio nell'viii: Secretosque pios, his dantem iura Catonem. Per verità è un gran capriccio, ma in ciò segue suo stile "; e più innanzi: "Dante per bocca di Virgilio loda tacitamente Catone come magnanimo, perché s'uccise, dovendosi biasimare come vigliacco ".
Lo stesso Muratori sembra rammaricarsi che D., " dimenticando di trattare nel suo poema un argomento cristiano permettesse che la sua fantasia mischiasse col profano il sacro, e specialmente allorché introdusse nel Purgatorio Virgilio e Catone, uomini senza dubbio portati dalla lor falsa credenza ad un più infelice soggiorno ". E come una delle macchie del poema di D. insieme con la pretesa salvezza di Traiano e di Rifeo, il Bettinelli adduce il nostro episodio a conferma delle sue censure alla Commedia: " Ma non è a stupire vedendosi... custode dell'isola presso al Purgatorio, il credereste? Catone... salvo dunque un gentile, un uccisor di sé medesimo? ". Ancora il Tommaseo non sa nascondere un senso di disagio e quasi di irritazione: " La più spedita è confessare che Dante s'è lasciato prendere alle lodi di Virgilio e di Lucano e che la imitazione ha fatto gabbo alla fede. C'è inoltre la comoda scusa del simbolo "; per non citare il giudizio di Giovanni Papini che reputa questa creazione dantesca addirittura un " sacrilegio ".
Comunque la contrapposizione, fosse o no dettata da preoccupazioni religiose o confessionali, del C. storico e del C. allegorico, che non andrebbe confuso col primo, si è fatta valere a lungo nella critica dantesca, per tutto l'Ottocento almeno. Così il Poletto, citata l'opinione di altri commentatori, ricordando che già nel Convivio C. " è ridotto a perfetto simbolo ", conclude che " se Catone fu qui posto, e non altrove, in Catone deve cercarsi il simbolo e non punto la personalità storica, se non quanto al simbolo può essere di schiarimento e conferma ". Di contro il Bartoli, che nella Storia della letteratura italiana dedica un capitolo al C. dantesco, afferma risolutamente: " Il Catone storico e il Catone allegorico non si possono dividere perché in sostanza sono una cosa stessa ", e più innanzi: " Il Catone del Poema è il Catone della storia e della tradizione letteraria: che diventa simbolo appunto in virtù di ciò che la tradizione e la storia dicono di lui ". Conclusione che ci appare ormai ineccepibile, a parte le illazioni di un banale anticlericalesimo che ne trae l'autore, a giudizio del quale D. " esce dai confini del dogma " (" Dante non è fortunatamente un cattolico ma invece un cristiano dagli alti ideali, dalle larghe idee, dai generosi sentimenti "), e che va integrata nell'interpretazione figurale dell'Auerbach. " La persona di Catone... è conservata in tutta la sua forza storica e personale... Ma dalla sua provvisorietà terrena:.. egli è sollevato nella condizione dell'adempimento definitivo... Non c'è alcun aut aut fra senso storico e senso recondito: c'è l'uno e l'altro. È la struttura figurale che conserva il fatto storico mentre lo interpreta rivelandolo, e che lo può interpretare soltanto se lo conserva ".
Ma altra giustificazione è stata pur tentata dell'ortodossia della concezione dantesca. È salvo veramente Catone? e destinato alla beatitudine eterna, o anzi già beato? Se l'è chiesto fra gli altri il Lombardi confutando quanti si erano impegnati nel difendere il poeta dalla condanna di " perversa teologia " e opponendo loro che ogni qualvolta D. ha presentato come salvo un pagano, come Stazio, come Rifeo, come Traiano, ha giustificato la loro salvezza, " ma non così di un Catone, di cui massime, perocché sarebbe il primo di tutti, maggior bisogno sarebbevi stato ". Custode del Purgatorio, anzi dell'Antipurgatorio (" il Purgatorio non è qui dov'è Catone, ma molto più in alto, su la falda del monte "), egli non salirà mai al cielo verso cui sollecita le anime, e la chiarezza che lo avvolgerà nel giorno del giudizio universale non è se non il lume naturale che illuminerà gli spiriti tutti del Limbo.
Ancora per il Del Lungo C. "è uno degli ‛ spiriti magni ' relegati nel Limbo: nel disserrarsi di questo, per mano di Cristo, fu assegnato da Cristo medesimo non alla gloria celeste come coloro che lo avevano creduto e atteso, ma lui solo alla montagna del Purgatorio, e ivi destinato a vigilarne perpetuamente l'accesso, finché Purgatorio sarà, per poi tornare, infra quei grandi del suo vecchio mondo gentile, nella quieta eternità luminosa non consolata dalla presenza di Dio. Simbolo... d'una imperfezione virtuosa ". E sarà da far menzione, ma soltanto come di una curiosa fantasia, dell'opinione del Pascoli, per il quale dopo il Giudizio C. guiderà le anime uscite dal nobile castello del Limbo sino al Paradiso terrestre, dove avranno la loro dimora ricomponendo intorno a lui la figurazione dello scudo virgiliano.
Opinione del resto non meno fondata di quella del Del Lungo, o di chi per contro ha pensato a un C. che scende di volta in volta dal cielo, ov'è la sua sede, alle rive del Purgatorio, o di altre consimili fantasie: alle quali e in genere a tutti i quesiti che si pongono per determinare quello che D. non ha determinato, è bene aver presente il monito di altri commentatori, del Bigi ad esempio, di " guardarsi dal trascorrere in eccessive sottigliezze o dall'attribuire al poeta quello che non dice e dal porre o risolvere problemi teologici che Dante non si è posto e non si è preoccupato di risolvere ".
Indubbia è ormai per gli studiosi, anche se taluno come il Paratore dimostra una certa perplessità per questa singolare condizione del personaggio romano nell'oltretomba dantesco, la salvezza di C., la cui vesta, come è detto da Virgilio, nel gran dì sarà sì chiara, ossia godrà di un grado eccelso di beatitudine (cfr. Pd XIV 37-42); è ovvio il supporre che Dio gli abbia ispirato la fede in Cristo venturo o, per citare le parole di Pietro, " cum possibile sit et verisimile Deum, qui fecit eum tantum virtuosum, inspirasse ei credulitatem Christi filii venturi, et contritum decessisse et sic salvatum ". E sul silenzio serbato da D. su questo punto sarà da dire che una spiegazione teologica come quella sulla salvezza di Rifeo in Pd XX avrebbe compromesso il carattere e il tono dell'episodio (cfr., mutato tutto quel che è da mutare, il canto di Piccarda, in cui si tacciono le spiegazioni, che Beatrice darà nel canto seguente, sulla collocazione delle anime nelle sfere celesti). Se mai si potrà pensare (anche questo è stato detto) che la salvezza dell'oscuro Rifeo e la sua storia siano state escogitate da D. per fare maggior luce su questo tanto più famoso personaggio, ma sarebbe questa un'escogitazione postuma del poeta, che non toccherebbe per nulla la figura di C., o semplicemente opinione del tutto privata di lettori. E ancora la salvezza di C., il suo essere cristiano è comprovato da quel che dice di Marzia, della legge che ormai si frappone fra lui e colei che gli fu diletta, la nuova legge: vale a dire (Parodi) la legge dell'abisso invalicabile posto tra gli eletti e i reprobi (Luc. 16, 25-26), che fatta fu quando me n' usci' fora (Pg I 90), ossia "la legge che da quel momento in poi ebbe ed ha luogo per me (come per tutti i beati), la legge dell'impassibilità che è il nostro necessario acconsentimento alla giustizia divina ( fatta fu = ‛ facta est ' equivale al " firmatum est " di Luca, avvenne, ebbe luogo, non passato passivo del verbo fare, in quanto ha senso continuativo anzichè momentaneo aoristico ").
Resta il problema, che pure è stato discusso, se C. salvo sia già attualmente beato e non invece destinato a una futura beatitudine, in una condizione dunque non diversa da quegli spiriti che sono sotto la sua balìa. Per la beatitudine attuale propendono il Proto e ora il Raimondi, e perciò attribuiscono al personaggio dantesco la visione in Dio che è propria dei beati: e se taluno ha mosso qualche obiezione per l'ignoranza che C. dimostrerebbe, in contrasto con la visione in Dio, del vero essere dei poeti e dei motivi che li han condotti al Purgatorio per così insolita via, si risponde (Raimondi) che quelle domande piuttosto che vere interrogazioni son domande rituali, rivolte dal custode del monte ai pellegrini sulla via della penitenza, e che lo stesso tono di sorpresa e di sdegno è giustificato da questo vero e proprio rito di cui C. è ministro. (Per " Gmelin invece le domande di C. sono giustificate dal fatto che egli " non ha ancora la salutare scienza degli angeli guardiani del Purgatorio "). Altri invece pensa che l'incongruenza è un portato necessario della situazione fantastica: che ne sarebbe della poesia ove a questi personaggi tutto fosse, come dev'essere, già noto? Della beatitudine attuale di C. sarebbe poi segno lo stesso suo aspetto, quell'apparizione luminosa (e sia pur con l'attenuazione come 'l fosse davante, cioè non proprio il sole ma una luce assai vicina a quella del sole), e più ancora l'atto a cui D. è sollecitato con tanta premura da Virgilio di inginocchiarsi e giungere le mani, e il suo rimanere in ginocchio sino a quando è finito il colloquio con Virgilio e C. è scomparso. Così spari; e io sù mi levai / sanza parlare (vv. 109-110). Sentiamo che questo personaggio, che è sì l'antico C. ma trasfigurato ed elevato a una sacra funzione, vive in tutt'altro mondo non solo di D. ma dello stesso Virgilio, il quale di fronte a lui sente più viva la propria condizione di escluso: se d'esser mentovato là giù degni.
D'altra parte un C. beato, spirito del Paradiso, potrebbe sembrare in contrasto con l'ambiente in cui quel personaggio si presenta, introducendo un elemento disforme nella rappresentazione dantesca. Non viene C. a partecipare in qualche modo della condizione delle anime purganti, in quanto anch'egli attenderà come sembra per lo stesso suo ufficio sino alla fine dei giorni di ascendere al cielo? (Così pensa lo Scartazzini, per il quale D. lo avrebbe messo come custode all'ingresso del Purgatorio condannandolo e in pari tempo assolvendolo, una condanna limitata nel tempo sino al giudizio finale: anche per Gmelin " Catone deve trattenersi tra le anime dei negligenti e scomunicati e soltanto ultimo fra tutti potrà dopo il giudizio salire fra i beati "). E non è questa in certo senso, come è stato detto, la sua " unica condanna "? (" Dante ha creato per il solo Catone, alle soglie del secondo regno, quasi un altro ideale ‛ nobile castello ' di dove, unica condanna, egli non potrà uscire fino al Giudizio finale, quando anche lui riprenderà il corpo e salirà al cielo" (Grabher). Ma anche il termine ‛ condanna ' sembra dissonante, forse ancor più di quello di ‛ beatitudine '. Sarà piuttosto da ricordare quanto è scritto nel commento del Buti: " àe indutto Catone, sì come esempio de la libertà e della iustizia, più tosto che niuno altro per fare verisimile la sua fizione: imperò che del Vecchio Testamento non potea inducere nessuno a guardia del purgatorio: imperò se n'andonno in cielo con Cristo, quando spolliò lo limbo; nè del Nuovo era convenevile che introducesse li santi a stare in purgatorio: imperò che sono in vita eterna ". Qui converrà fermarci riconoscendo che questo personaggio appartiene al mondo del Purgatorio, né lo si può separare da quel mondo con congetture più o meno giustificate sui modi con cui si è attuata la sua salvezza, sulla sua beatitudine e sul suo futuro destino. La stessa incertezza su questi punti fa parte della creazione dantesca, di quel mistero che non può non avvolgere il suo personaggio e che non dev'essere dissipato. Come scrive il Fallani: " La salvazione di Catone avviene in un clima di mistero, certamente per la fede implicita nel Cristo venturo, ma il poeta non solleva il velo del volere divino, né s'impegna. nel suo disegno di poesia, in una ardua questione di teologia ". Vi si è impegnato invece più di un critico, con argomenti anche sottili, riuscendo però ad essere " theologus additus theologo " anzi che interprete del teologo-poeta D.: e perciò, pur riconoscendone la dottrina e l'acume, si è preferito lasciare da parte queste loro conclusioni.
Molto più proficua di questi quesiti, che ci portano al di là della creazione dantesca (e parecchi piuttosto che problemi di alta teologia sembrano curiosità oziose, come più d'uno del D'Ovidio, il quale del resto dopo esserseli posti li risolve poi con buon senso), è l'indagine dello stesso D'Ovidio, del Proto, del Renucci e di altri studiosi, volta a ricercare nei testi conosciuti e meditati da D. i precedenti della trasfigurazione cristiana dello stoico romano. Preminenti fra tutti i passi di Lucano (l'autore della Pharsalia ha avuto una parte determinante nella concezione del C. dantesco: cfr., oltre gli autori citati, E. Paratore, Lucano e D.), non soltanto quelli che descrivono l'abito severo dello stoico, che D. per la vena stoica del proprio carattere sentiva spirito a lui congeniale, ma quelli in cui chiaramente si definisce la religiosità di C., avverso all'idolatria: C. che, ispirato da Dio, afferma così risolutamente l'onnipresenza di Dio e rifiuta d'interrogare l'oracolo riconoscendo nei soli dettami della sua coscienza la voce della divinità: " Ille, deo plenus... nil facimus non sponte dei; nec vocibus ullis / numen eget, dixitque semel nascentibus auctor / quicquid scire licet... / estque dei sedes, nisi terra, et pontus et aer / et caelum et virtus. Superosque quid quaerimus ultra? Iuppiter est quodcumque vides, quodcumque moveris " (Phars. IX 564 ss.). Non era questo ancora un C. cristiano, ma un C. che ben si può dire preparato a diventare cristiano, non certo un adoratore degli dei falsi e bugiardi. Ben più che non il Virgilio della IV egloga, egli viene a essere nelle parole e nella vita precursore della nuova religione e può con la morte esser assunto al regno della salvezza. " Così appariva a Dante come un predestinato, un, per grazia, chiamato a credere, a diventar fedele e giusto innanzi a Dio " (Proto).
Nemmeno in contrasto con le idee imperiali di D. è parsa l'esaltazione che egli fa dell'avversario di Cesare, di colui al quale, secondo le parole di Cicerone, riportate nella Monarchia (I XII), s'impose il dover morire piuttosto che mirare il volto del tiranno: un problema questo che fu discusso soprattutto a partire dall'Ottocento, mentre nei secoli precedenti si era dibattuto piuttosto quello della conciliazione della salvezza o presunta salvezza di C. col suo essere di suicida o di pagano. Difatti per D. vengono a porsi sullo stesso piano di provvidenzialità l'opera di Cesare, per cui si attua la monarchia e si assicura con la monarchia la pace e la libertà, e l'atto di C., che la libertà nel suo peculiare unico valore afferma con la propria morte. Si è citato (dal Parodi) a questo proposito Mn I XII 7-8, in cui è detto: quis erit qui humanum genus optime se habere non dicat... sciendum... est liberum quod " sui met et non alterius gratia est ", ut Phylosopho placet in hiis quae De simpliciter ente. Nam illud quod est alterius gratia necessitatur ab illo cuius gratia est, sicut via necessitatur a termino. Genus humanum solum imperante Monarcha sui et non alterius gratia est: tunc enim solum politiae diriguntur obliquae - democratiae scilicet, oligarchiae atque tyrampnides - quae in servitutem cogunt genus humanum; e si è ritenuto che questo passo dovesse essere posto accanto ai versi famosi libertà va cercando..., non già per opporre l'uno agli altri, bensì per avvertirne la fondamentale consonanza.
Non sembra invece da accettare l'opinione del Porena, per il quale essendo l'autorità imperiale necessaria come rimedio del peccato, C., uomo scevro di colpa, era in quella condizione in cui se l'umanità si trovasse non avrebbe bisogno di imperatore. " Il suo spirito scevro di peccato " egli scrive " era interamente libero e non bisognoso di guida: imporgli una guida era imporgli un tiranno. Onde la legittimità della ribellione"; opinione quant'altra mai discutibile per quell'affermazione di un C. scevro di colpa come Adamo ed Eva prima del peccato (e quindi anche ovviamente del peccato originale!), poiché il Porena confonde il C. redento quale appare illuminato dalle quattro stelle col C. vissuto sulla terra, dotato di virtù altissime ma non per questo scevro di peccato, e per la conseguente asserita legittimità della sua ribellione, poiché a tacer d'altro non è ribellione il suicidio dell'Uticense, bensì l'obbedienza a una legge (né i versi famosi, che il Foscolo apporrà ad epigrafe dell'edizione zurighese dell'Ortis [1816] vanno letti, come tante volte poi saranno, in senso libertario). Piuttosto si potrebbe accogliere questa opinione temperata com'è dal Sapegno, il quale non parla né di " ribellione " né di C. " scevro dal peccato " bensì di un C. che " simbolo di quella libertà che è tutt'uno con la piena attuazione delle virtù, viene in qualche modo ad essere sottratto alla norma in virtù della quale nasce l'esigenza della massima autorità civile come remedium escogitato per ricondurre sulla retta via l'umanità corrotta dal peccato ". Ma più pienamente si può assentire con la sua conclusione: "Il giudizio politico sul personaggio viene insomma superato in nome di un più comprensivo giudizio morale ", in maniera conforme all'interpretazione che D. poteva dare al celebre verso di Lucano: " Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni " (Phars. I 128). Del resto il riconoscimento della provvidenzialità dello stabilimento dell'Impero come di tutta la storia, non importava per D. una determinazione del giudizio morale su di un individuo (basti pensare alla condanna dell'atto di Curione e alla celebrazione del passaggio del Rubicone da parte di Cesare): il magnanimo rifiuto di C. serbava integro il suo altissimo valore, anzi, come si è detto, s'inseriva esso stesso in quel processo per cui si andava stabilendo nel mondo la più vera libertà.
Né va dimenticato che quando C. si uccise l'autorità imperiale non era ancora stabilita, e più ancora che C. appariva a D. per quel che leggeva nella Pharsalia non come seguace di una Parte politica, di Pompeo o del partito senatorio, bensì il cittadino romano che contro la sua volontà è trascinato nella guerra civile, che prende il lutto per la guerra che divide i cittadini (e l'immagine di lui dalla lunga barba e i capelli incolti, D. ravvisandola fisserà come l'immagine sua caratteristica dell'oltretomba), e che combatterà non per odio di Cesare ma per devozione alla patria. Era questo un personaggio in cui D. poteva sentire tanto del proprio animo, delle proprie vicende.
Quanto alla coppia tradizionalmente paradigmatica di Cesare e di C. (su questo punto si veda il Renucci), se, per dirla col Gundolf, "Cesare è il rappresentante di una sacra dignità metapolitica " (e perciò sono puniti alla pari con Giuda i suoi uccisori), "Catone è il rappresentante d'un metafisico valore ", non v'è dubbio a quale dei due personaggi andasse la preferenza del poeta. Non al vincitore ma al vinto, non solo per la ragione addotta con colori romantici dal Tommaseo: " Dante era anima da mettersi volentieri dalla parte de' vinti, sì per generosità e sì perché non ignaro degli immeritati dolori ", ma perché la figura di Cesare veniva a confondersi e quasi annullarsi nel disegno provvidenziale che si era compiuto per mezzo suo - egli è nella Commedia soltanto il guerriero, celebrato per la rapidità unica delle mosse, colui ch' a tutto 'l mondo fé paura (Pd XI 69), né si tace dei suoi vizi - mentre in C. s'impersonava un ideale supremo dello spirito dantesco, anzi alcuni motivi fondamentali del suo sentire. Per questo di Cesare non rimane che l'ambiguo profilo del Limbo, Cesare armato con li occhi grifagni (If IV 123); C. è un personaggio poeticamente compiuto e a un tempo personaggio centrale nella costruzione del poema.
Su ciascuno di questi due aspetti del C. dantesco si sono di volta in volta soffermati i critici, ora con un'analisi estetico-psicologica dei personaggi, delle loro parole, dell'ambiente che li circonda, della tonalità del canto, ora appuntando l'attenzione in special modo sul rito di cui C. è officiante e che rientra nel più vasto disegno del mistico viaggio. Particolarmente rilevato, conforme alle sue premesse, il primo aspetto nel Croce, il quale ben definisce l'ideale etico che s'incarna in C., ma tende a isolare questo personaggio e quel che ne è il motivo dal mondo in cui compare e a prescindere dalla situazione del canto e dalla funzione sua nel più vasto contesto della Commedia. Per questo opportunamente il Sansone insiste sull'intima connessione fra la poesia, e in questo caso la particolare poesia di quel personaggio, e il mondo, mondo culturale e storico, che esso presuppone e in cui s'inserisce, riuscendo a una lettura in cui i vari elementi si integrano senza annullarsi l'uno nell'altro. Parimenti la lettura del Bigi sempre ci richiama alla totalità della concezione dantesca, di cui questo episodio col suo protagonista è un momento, insistendo sul tono non idillico e pacato ma severo e austero di tutto il canto. Con maggiore insistenza invece il Raimondi si sofferma sul carattere rituale di questo incontro, sino a mettere in ombra i personaggi nella loro poetica individualità; eppure dopo aver affermato che il dialogo fra C. e Virgilio " non può essere concepito al di fuori degli schemi d'una cerimonia liturgica ", corregge la propria affermazione limitandone la portata sì da venire incontro a possibili obiezioni di critici e lettori: " Anche se poi il merito di Dante consiste proprio nel fatto di avervi introdotto come ‛ ministri ʼ e attori due persone storiche, che è come dire univoche, le quali vivono il rito con la loro concretezza di individui che lo trasformano in elemento drammatico di una storia umanissima ".
Tutti gl'interpreti, dando maggiore o minor rilievo a questo motivo, hanno notato la solitudine in cui si presenta C. e si svolge tutta la scena, e insieme il contrasto di questo silenzio e della serenità premattutina con l'atmosfera infernale da cui i poeti sono usciti e con la faticosa ascesa che li attende e i successivi incontri con gli spiriti purganti: un canto di attesa e di sospensione a cui ben s'addice quell'atmosfera e quel colore. Ma quegli accenni al cielo, alle stelle, al tremolar de la marina, valgono soprattutto come motivo complementare alla figura di C., che su quello sfondo si staglia e che domina il canto con la sua presenza e le non molte parole da lui proferite, ma anche per quanto fanno e dicono i due poeti, l'eloquenza reverente delle parole di Virgilio, nelle quali tornano con caratteristica insistenza i pronomi e gli aggettivi possessivi tu, tuo, ecc., come un motivo dominante di un discorso rivolto a persona posta così in alto, anzi sacra; la pensosa ripresa del cammino (Noi andavam per lo solingo piano, I 118), e dopo il brusco richiamo, il turbamento e la fuga e il rimorso di Virgilio: o dignitosa coscienza e netta, come t'è picciol fallo amaro morso! (III 8-9). Si è veduto in lui (De Sanctis, Momigliano) quasi in compendio lo spirito di tutta la cantica, " l'annunciatore della particolare spiritualità di questo regno ": ma è pur da aggiungere che se la poesia di D. tende sempre a essere insieme rappresentazione e giudizio, e i suoi personaggi si collocano sotto la luce ferma di una legge superiore, vi è qui, diremmo, quell'ispirazione, nella sua assolutezza ed essenzialità, per l'ideale morale del poeta della rettitudine, che in C. s'incarna, facendo di lui il magnanimo fra tutti i magnanimi della Commedia in una rappresentazione più nuda e più severa di ogni altra sua. E si noterà l'uniformità della sintassi catoniana tutta interrogazioni o imperativi dal principio alla fine, tranne i pochi indicativi (perfetti e presenti) della risposta a Virgilio, che segnano anche un momento di attenuazione nella tensione che gli è propria. Non per questo diventa pura astrazione concettuale, come ci dice quell'accenno umanissimo, che la tempera e compie, dell'indugio sul nome e il ricordo di Marzïa, Marzia piacque tanto a li occhi miei (v. 85).
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