CATTANEO DELLA VOLTA, Giovanni Battista
Appartenente ad una famiglia di vecchia nobiltà delle più ricche e potenti della Repubblica, nacque a Genova il 23 giugno 1638, dal magnifico Nicolò, senatore nel 1648 e nel 1658, e da Anna Maria Pallavicini, e venne battezzato nella chiesa di S. Torpete, gentilizia dei Cattaneo. Ebbe quattordici tra fratelli e sorelle, che in gran numero entrarono nella vita religiosa; in particolare tre fratelli, Ottavio, Francesco e Francesco Maria si fecero gesuiti. Ascritto al libro d’oro il 15 genn. 1660, il C. iniziò la carriera politica nel 1667 come magistrato straordinario addetto alla protezione di vedove e orfani; quindi nel 1669 fece parte del magistrato Visorum et Revisorum, che controllavano le spese e le provviste dello Stato, nel 1670 dei Revisori dei libri criminali e nel 1671 del Nuovo Armamento. Nel 1672 si assentò da Genova, avendo assunto l’amministrazione del feudo detto Mallarme, borgata sulla Bormida nel distretto di Savona, per il cugino Filippo, minorenne.
A Mallarme risiedeva Angelo Maria Vico con cui, quale persona di grande reputazione nel luogo, era entrato in contatto Raffaele Della Torre, che congiurava col duca di Savoia contro Genova. Il C. venne probabilmente a conoscenza della congiura; e resosi conto di persona dei massicci movimenti di truppe sabaude ai confini di Altare e Carcare, informò il Senato genovese delle trame che a suo avviso si ordivano; ma non vi si pose attenzione. Tuttavia poco tempo dopo, il 25 giugno 1672, il Vico stesso con una denuncia fece fallire il piano, provocando la guerra tra Genova e il duca di Savoia. L’acume del C. ebbe così il primo riconoscimento politico, e la Repubblica, avendo necessità immediata di truppe, utilizzò prontamente il C. come inviato straordinario in Svizzera per l’arruolamento dei soldati.
Il C. partì alla fine dell’ottobre 1672 e arrivò a Lucerna il 4 novembre, ma ottenne udienza alla Dieta solo il 1º dicembre e al Senato il successivo 21 gennaio. Nel frattempo, il 18 dello stesso mese, per mediazione delle potenze europee e della Francia in primo luogo, si firmava la pace tra Genova e Torino: il C, riuscì a sciogliere il contratto e a licenziare le truppe appena assoldate, con grande sollievo per l’erario della Repubblica; quindi, il 19 marzo, ripartì da Zurigo.
Tornato a Genova, fu accolto con grandi dimostrazioni di riconoscenza dal Senato, che in seguito tentò più volte di utilizzare le sue capacità diplomatiche in ambascerie, a Roma, a Milano, a Parigi; ma il C. rifiutò sempre, accettando invece di buon grado abboccamenti politici in Genova con gli ambasciatori e gli inviati delle potenze straniere.
Comunque, dal rientro dalla Svizzera fino al 1677 il C. risiedette a Mallarme, allontanandosene solo per ragioni personali: la cura dei propri affari e il matrimonio, contratto il 3 genn. 1675 con Maddalena Gentile, figlia del senatore Cesare.
Uscito di minorità il cugino, il C. riprese la carriera politica nel capoluogo: nel 1678 fu inquisitore di Stato, nel 1679 commissario della fortezza di Savona, nel 1680 protettore dell’ospedale di Pammatone (carica cui fu rieletto più volte e in cui si distinse per munificenza); nel 1682 deputato alle Provvigioni e nel 1683 membro del magistrato di Guerra, proprio nell’anno in cui la tensione con la Francia aveva raggiunto il punto estremo.
Il risentimento di Luigi XIV nei confronti della Repubblica, la cui dichiarata neutralità copriva una effettiva alleanza con la Spagna, si concretò nella decisione di bombardare Genova; la cosa fu allora impedita dalla presenza della flotta spagnola davanti al porto, ma l’anno successivo l’intera squadra navale francese sottopose la città a un bombardamento micidiale, protrattosi quasi ininterrottamente dal 18 al 28 maggio, finché la flotta francese si allontanò, probabilmente per mancanza di munizioni. La pace di Ratisbona, firmata il 10 agosto tra le potenze europee, non contemplò, per volere di Luigi XIV, la cessazione del conflitto con Genova. Il C., membro del Minor Consiglio, si fece sostenitore della necessità che il doge stesso, Francesco Imperiali Lercari, accompagnato da quattro senatori, si recasse personalmente a Parigi ad esprimere il rammarico ufficiale della Repubblica per la scarsa considerazione dimostrata verso precedenti richieste di Luigi XIV.
Tale soluzione non era stata ideata dal C. ma consigliata dal papa e appoggiata da altri sovrani italiani; e il C. nel suo discorso (pubblicato dal Casoni) sottolinea l’importanza di compiacere tali e tanti consiglieri. Interessante è la disamina giuridica che il C. conduce sull’opportunità della missione del doge: al di là dei sentimenti comprensibilmente offesi, egli ritiene che essa non significhi diminuzione di prestigio né tanto meno di sovranità, per essere il doge “il primo membro, ma non rappresentare da sé la Repubblica. Quattro senatori e il doge uniti nemmeno essere capaci di rappresentare il capo, nonché il corpo intiero del governo; mentre a rappresentare il capo della Repubblica era necessaria l’unione dei due Collegi assistiti da pubblico segretario; a rappresentare il corpo essere necessario il Gran Consiglio, non si poteva in maniera alcuna dedurre che il corpo della Repubblica dovesse andare a dar soddisfazione al re di Francia”.
Il discorso del C. ottenne un gran trionfo nel Minor Consiglio, e la sua proposta, sostenuta dal vecchio e molto stimato Francesco M. Balbi, ottenne la più grande approvazione, raggiungendo i quattro quinti dei voti. Dopo questo nuovo successo personale il C., tra il 1685 e il 1691, ricoprì più volte la carica di sindacatore supremo, che esercitò fino alla sua nomina a doge. Essa avvenne il 4 sett. 1691, con 342 Vvoti contro i 307 dell’altro candidato, il Bandinelli Negrone (che fu poi eletto quattro anni dopo).
Il biennio dogale del C. trascorse in grande tranquillità: tra i provvedimenti di normale amministrazione degni di un certo rilievo, l’appoggio del C. all’istanza del comune di Nervi che chiedeva l’autorizzazione alla costruzione del porticciolo; quindi il suo interessamento in Senato a favore dei corallieri genovesi delle isole di Tavolara e Molare, minacciati dagli appaltatori sardi; infine la particolare meticolosità con cui redasse un regolamento per i sottocancellieri e i giovani di cancelleria, così efficace che, finito il suo dogato, venne trasformato in decreto legislativo il 7 sett. 1694. Minor successo ebbe invece la lotta condotta dal C. contro, la “bassetta”, il gioco d’azzardo di origine francese allora di moda, che tornò a furoreggiare dopo la fine del suo dogato e d elle severe norme punitive che egli aveva introdotto.
In politica estera, il C. ebbe modo di dimostrare, in circostanze diverse, un atteggiamento assai rigido nei confronti dell’Impero e molto distensivo, invece, con la Savoia e la Francia.
L’imperatore Leopoldo I, con lettera autografa, aveva chiesto al C. la grazia per il marchese di Silvano d’Orba, A. Botta Adorno, che, alcuni anni prima, aveva assalito Ovada con un gruppo armato, ucciso diversi abitanti e attentato alla vita del comandante. Condannato a morte e alla confisca dei beni, il Botta Adorno si era reso latitante nel suo marchesato e sul suo capo pendeva una grossa taglia. Il C. rispose dapprima all’imperatore con una lettera evasiva; poi fece comunicare allo Strattmann, gran cancelliere dell’Impero, dall’ambasciatore genovese a Vienna, l’impossibilità di tale grazia. Molto cordiale fu invece il comportamento del C. col duca di Savoia, giunto in visita privata a Genova nel febbraio 1692; e anche nei confronti dell’altra recente nemica, la Francia, il C. compì un atto di cortesia, prestandosi a tenere a battesimo, nell’agosto 1692, due bambini dell’ambasciatore francese, marchese di Rattabon.
Il 5 sett. 1693 il C., terminato il biennio ducale, tornò al suo palazzo a San Torpete, ma continuò a partecipare alla vita politica per altri vent’anni. Dal 1694 fece costantemente parte della giunta di Marina; fu quattro volte preside del magistrato degli Inquisitori di Stato (nel 1695, 1697, 1700, 1702), cinque volte preside del magistrato di Guerra (nel 1696, 1699, 1701, 1703, 1705), una volta preside del magistrato di Corsica (1698). Nel 1713, restando sempre procuratore perpetuo, si ritirò a vita privata.
Morì a Genova il 24 dic. 1721.
Dal suo matrimonio erano nati sei figli: due maschi, Nicolò e Cesare (furono entrambi dogi, uno nel 1736, l’altro nel 1748) e quattro figlie, Livia Maria, che sposò Giovan Battista Centurione, e Benedetta, Anna Maria e Francesca, che si fecero monache.
La storiografia genovese sette-ottocentesca ha lasciato sul C. i più lusinghieri giudizi; tra gli altri, rivestono un certo interesse quelli di Filippo Casoni, anche se probabilmente motivati, almeno in parte, da necessità pratiche: il C. era infatti preside degli Inquisitori proprio negli anni (1695-97) in cui erano sottoposti all’esame di questo magistrato i manoscritti storici del Casoni.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, ms. 479, c. 322; Genova, Civ. Bibl. Berio, ms. m.r. X, 2, 167: L. Della Cella, Famiglie di Genova, c. 678; Genova, Bibl. Franzoniana, ms. 124: G. Giscard, Origini e fasti delle nobili famiglie di Genova, c. 187; F. Casoni, Storia del bombard. di Genova..., a cura di A. Neri, Genova 1874, pp. 242 ss.; C. Varese, St. della Rep. di Genova, VII, Genova 1838, p. 9; F. M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, Genova 1846, I, p. 138; G. Banchero, Le due Riviere, Genova 1846, p. 347; L. Levati, Dogi biennali dal 1528 al 1699, Genova 1913, I, pp. 396-410; II, p. 30; Id., I dogi di Genova dal 1746 al 1771, Genova 1915, III, p. 18; V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubbl. di Genova, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, LXIII (1934), p. 206; F. Donaver, Storia di Genova, Genova 1967, p. 188.