causa
Il concetto di causa (pertinente insieme all’ambito della scienza e a quello del pensare comune) ha significato correlativo a quello di effetto significando comunemente ciò da cui e per cui una cosa è. Il rapporto della c. all’effetto costituisce la causalità. L’idea di questo rapporto riferito a tutta la realtà costituisce il principio di causalità. C. ed effetto presuppongono entrambi il divenire, l’accadere, e la capacità attiva di uno degli eventi di esso (c.) a produrre un evento ulteriore (effetto). Il riconoscimento del nesso causale permette la previsione e, in tal senso, risulta costitutivo della conoscenza scientifica.
Il concetto di c., pur presente nei presocratici e in Platone (Timeo, 28 a: «tutto ciò che si genera è necessariamente effetto di una c., ché senza una c. è impossibile che qualsiasi cosa si generi»; cfr. anche, 46 c-e; 68 e-69 a), viene compiutamente tematizzato soltanto con Aristotele. È infatti in base all’elaborazione aristotelica che la c. viene definita secondo quattro specie: materiale, formale, efficiente e finale (secondo una terminologia di origine scolastica). Per Aristotele, il termine c. (dell’essere) indica: (1) la materia (c. materiale): ciò «di cui» una cosa è fatta, ossia il soggetto o sostrato ricettivo della forma; (2) la forma (c. formale): principio intrinseco della perfezione dell’ente, ossia ciò «per cui» una cosa è quella che è; (3) l’efficiente o motore (c. efficiente): ciò «da cui» proviene la spinta iniziale del movimento; (4) il fine (c. finale): ciò che segna la direzione del movimento e lo scopo per il quale l’efficiente è sollecitato ad agire. Il quadro tracciato nella Metafisica (➔) (I, 3; IV, 2) è presente anche nella Fisica (II, 194 b 23-195 b) la cui trattazione è aperta proprio dall’identificazione della scienza con la conoscenza mediante le c. (I, 1, 184 a), lo scire per causas di cui si parla nella filosofia scolastica. Fra i sistemi filosofici dell’antichità, critiche alla dottrina aristotelica della c. vengono mosse dall’epicureismo e dall’atomismo, ove la c. viene intesa principalmente in senso fisico e meccanico, ma è la dottrina scettica, conservata nel libro IX dell’Adversus mathematicos di Sesto Empirico, a presentare l’attacco più deciso contro la possibilità stessa di istituire la relazione causale. In ambito neoplatonico la riflessione sulla c. recupera il contesto aristotelico, incentrandosi però sulla struttura gerarchica della causalità. Nelle Enneadi (➔) di Plotino è forte l’accento sui processi emanativi che regolano il processo causale di discesa dell’essere, nei suoi vari gradi, a partire dall’Uno. Tema ripreso e trattato rigorosamente da Proclo nella Elementatio theologica, da cui fu tratto il Liber de causis conosciuto e studiato nel Medioevo, nella traduzione latina ricavata dall’esemplare arabo. Tali motivi neoplatonici insieme a temi avicenniani introducono nel pensiero medievale il concetto di c. prima, e la conseguente suddivisione fra c. prime e c. seconde, presente nella scolastica; i testi di Tommaso d’Aquino (Somma teologica, II, 1, q. 19, a. 4) sono esemplari anche nell’esplicitare il rafforzarsi della concezione gerarchica del potere causale, che consegue a tale impostazione: «quanto più una c. è elevata, tanto più si estende il suo potere causale» (I, q. 65, a. 3). Un’altra importante articolazione nella riflessione cristiana sulla c. è fornita dalla dottrina agostiniana della c. esemplare, secondo la quale i processi causali che si operano nella temporalità sono attuati in ragione delle rationes seminales (ragioni seminali) presenti nel Verbo, poste da Dio nella creatura fin dall’inizio. La riflessione di Guglielmo d’Occam muove invece dalla centralità delle c. individuali e privilegia la causalità efficiente, negando la reale esistenza della relazione causale al di fuori degli individui; egli perviene all’esplicito rifiuto della c. finale, seguito in ciò da alcuni pensatori successivi fra i quali si distingue Nicola di Autrecourt, il quale si spinge fino alla negazione della realtà delle relazioni causali, ritenendo che queste ultime non possano essere provate in maniera sufficiente neppure dall’esperienza.
Il rifuto della c. finale, come criterio di spiegazione e di conoscenza scientifica, già esplicito in Bernardino Telesio (De rerum natura iuxta propria principia, IV, 25), diventa inaugurale per la modernità scientifica e filosofica nel De dignitate et augmentis scientiarum (1623) di F. Bacone: «La ricerca delle cause finali è sterile: come una vergine consacrata a Dio non partorisce nulla» (III, 5; cfr. anche Novum Organum, 1620, II, 2); il rifiuto del finalismo è alla base della riflessione di pensatori quali Galilei, Descartes (Principia philosophiae, 1664, I, 28) e Spinoza, che significativamente nel concludere il primo libro dell’Ethica (1665) scrive: «la natura non ha alcun fine prefisso e […] tutte le c. finali non sono che finzioni umane» (Ethica, I, 36, appendix). Tuttavia è nell’età moderna che la centralità della nozione di c. e del rapporto causale ormai inteso nel senso scientifico esemplato nelle opere di Galilei, incentrato sulla causalità efficiente, diventa pervasiva fino a comprendere, mediante lo stabilimento delle filosofie meccanicistiche, la spiegazione dell’intera fisica, pervenendo fino alla sintesi di Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica (1687). Se nella concezione hobbesiana presente nel libro IX del De corpore (1655) la c. si esprime unicamente nell’azione di un corpo su un altro corpo, in Descartes la causalità si estende in modo nuovo anche alla metafisica. Nelle Meditationes de prima philosophia (1641), esponendo geometricamente le proprie prove dell’esistenza di Dio, egli stabilisce come assioma che «non vi è cosa alcuna esistente della quale non si possa domandare la causa per la quale esiste», cui consegue che «ciò stesso si può domandare di Dio» (Risposte alle seconde obiezioni) pensando Dio stesso in base alla causalità, come causa sui (causa di sé), concetto poi ripreso e radicalizzato da Spinoza. Dall’esigenza di rendere la causalità congruente con i due ordini di sostanze eterogenei stabiliti da Descartes (estesa e pensante) nasce la tesi delle c. occasionali (ossia che non producono direttamente l’evento, bensì aprono la via all’entrata in gioco della c. che propriamente lo produce), in base alla quale soltanto Dio è propriamente c. (➔ cartesianismo), mentre sul rifiuto della sola causalità meccanica e sul conseguente recupero della c. finale sorge il finalismo che caratterizza la metafisica leibniziana; tale conciliabilità fra finalismo e causalità meccanica ispirerà ancora la metafisica di Wolff. È nelle riflessioni dei rappresentanti dell’empirismo classico che iniziano a essere mossi i primi attacchi al concetto di c., anche mediante una riattualizzazione di motivi scettici. Già Locke, nel Saggio sull’intelletto umano (1690), constata che il «nome generale» di c. e quello di effetto scaturiscono dalle idee semplici ricevute mediante la sensazione e la riflessione «senza che si conosca la maniera di quella relazione» (I, 26, 1-2), ma è con Hume (Trattato sulla natura umana, 1739-40; Ricerca sull’intelletto umano, 1748) che la critica diventa radicale fino a escludere la possibilità stessa del valore predittivo della scienza fondata sulla relazione di c. ed effetto; tale connessione è infatti basata unicamente sull’abitudine a credere che avvenimenti simili si ripeteranno in maniera uniforme. Credenza, appunto, che non può fondarsi sull’esperienza, ma che è un’impropria connessione stabilita in maniera arbitraria e sempre passibile di essere smentita dall’esperienza stessa (Ricerca sull’intelletto umano, IV). Alla critica di Hume ovvia Kant che, nella Critica della ragion pura (➔), inserisce la relazione di causalità fra le categorie, come forma a priori, conferendole il carattere di oggettività e di universalità dell’intelletto trascendentale.
La ripresa del finalismo connota le filosofie idealistiche, anche se si tratta di un finalismo non antropomorfo, provocando anche una certa svalutazione della conoscenza scientifica in senso meccanicistico che caratterizza anche le tesi di Hegel, il quale considera la c. (Ur-sache) come «cosa originaria», origine o principio da cui le altre cose derivano (Enciclopedia delle scienze filosofiche, 1817, § 153); in tale contesto la c. si colloca nell’ambito della razionalità pura cui attiene la deducibilità necessaria; la c. permette la deduzione dell’effetto. Tuttavia è proprio dal versante scientifico che arriva la svalutazione del concetto di c., in conseguenza della crisi della meccanica e della fisica classica conseguente agli sviluppi della termodinamica nella seconda metà del sec. 19° a opera, soprattutto, di Maxwell e di Boltzmann; l’affermarsi del modello statistico in alternativa alla teoria fisica classica produsse un lento sfaldamento conclusosi nel sec. 20° allorché la nozione di c. e il principio di causalità si sono rivelate insufficienti per lo studio della meccanica quantistica; esemplare, in tal senso, è il principio d’indeterminazione stabilito da Heisenberg (1927). Fra 19° e 20 ° sec. si è assistito a un eclissarsi del concetto scientifico di c.; se sul versante del determinismo Comte ha insistito sulla necessità di svincolare il concetto di c. dalla metafisica in favore di una sua considerazione come «relazione invariabile di successione e di somiglianza fra i fatti» (Corso di filosofia positiva, 1830-42, I, 1, 2), Mach ha sostituito al concetto classico di causalità quello matematico di funzione (1922), giungendo a proporre al posto della relazione causale il concetto di «legge descrittiva» in cui la conoscenza scientifica si attua mediante la formulazione soggettiva di sequenze uniformi da sottoporre all’esperienza. Metodi statistici, concezioni convenzionalistiche e operazionistiche hanno escluso dalla scienza contemporanea il concetto classico di causa. Ciononostante negli sviluppi successivi agli anni Sessanta del Novecento, il dibattito epistemologico si è di nuovo aperto al confronto con istanze provenienti dalla ricerca biologica, dallo studio dei fenomeni percettivi o dal campo del diritto, ove le difficoltà e le insufficienze prodotte dalla rinuncia al concetto di c. impongono un rinnovato quadro problematico.