cavalleria
Per meglio intendere l'atteggiamento di D. rispetto alla c. è opportuno secondo noi cercare di rispondere a un duplice quesito: quali furono le sue conoscenze, dirette e indirette, del romanzo cavalleresco (cioè, essenzialmente, della letteratura francese che lo rappresenta); quale fu l'idea che egli se ne fece il giudizio che ne diede, vale a dire, in ultima analisi, il suo modo di sentire e rivivere lo spirito e l'etica ‛ cortese ' del mondo che quel romanzo configura e idealizza. Ovviamente, i due quesiti sono interdipendenti; ma il tenerli distinti gioverà alla chiarezza dell'esposizione, aiutandoci - e ciò importa molto - a illuminare quel processo di assimilazione e d'interiorizzazione della materia (intesa qui proprio in senso dantesco) per cui il poeta riesce così spesso e così felicemente a congiungere teoria e prassi, letteratura e vita.
In relazione al primo punto ricordiamo il passo del De vulg. Eloq. nel quale D., quasi personificando le lingue di sì, d'oil e d'oc, attribuisce a ognuna un vanto particolare, e dice che il francese propter sui faciliorem ac delectabiliorem vulgaritatem rivendica a sé quicquid... inventum est ad vulgare prosaycum, e cioè Biblia cum Troianorum Romanorumque gestibus compilata et Arturi regis ambages pulcerrimae et quamplures aliae ystoriae ac doctrinae (I X 2). Si allude dunque qui a compilazioni concernenti la materia dei cicli brettone e classico, contaminato quest'ultimo con narrazioni tratte dalla Bibbia. A tutta prima siffatta mescolanza può stupire e sembrare arbitraria; ma il racconto della cosiddetta Histoire ancienne jusqu'à César, per esempio, redatta all'inizio del Duecento, e giuntaci incompiuta, prendeva le mosse dagli Ebrei (rifacendosi per questa parte alla Genesi e ai libri storici della Bibbia) e lo continuava parlando espressamente di Troia e di Roma. D'altro canto due passi danteschi (Pd XV 124-126, If V 52 ss.) ci danno modo di constatare come D. vedesse e approvasse, nell'ambito della letteratura e della cultura cavalleresca, sia il collegamento tra i due cicli di materia classica che quello tra essi e la materia ‛ romanzesca ' più propriamente detta.
Affidiamoci, nel primo caso, ai nostalgici ricordi di Cacciaguida, che debbono risalire (se ne prenda nota per l'antichità dell'attestazione) a circa la metà del sec. XII: essi evocano un'onesta e laboriosa massaia fiorentina mentre traendo a la rocca la chioma, / favoleggiava con la sua famiglia / d'i Troiani, di Fiesole e di Roma. Il secondo caso ci si prospetta attraverso le figure di donne antiche e cavalieri (If V 71) che tra molte altre (però taciute da D.) Virgilio, assumendo qui la veste di dottore, nomina e addita al suo discepolo; esse sono Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Paride, Tristano. Qualche commentatore (per es. il Porena) ritiene che Paris sia non il rapitore di Elena, bensì l'omonimo protagonista del romanzo brettone Paris et Vienne, che meglio si accoppierebbe a Tristano; ma ciò non muta la sostanza delle cose, tanto più che proprio nell'episodio di un romanzo brettone - il Lancelot du Lac - affonda le sue radici l'avventura amorosa di Paolo e Francesca, usciti, per parlare a D., de la schiera ov'è Dido (v. 85). Essi infatti, e non Lancillotto e Ginevra, sembrerebbero i protagonisti di quell'episodio: essi, che con tanta intensità e verità ne rivivono e rievocano circostanze, atteggiamenti e sentimenti.
C'è dunque un motivo, per quanto concerne il collegamento tra i cicli troiano, romano e brettone, di ritenere che il punto di vista adombrato nel De vulg. Eloq. rimanga ancora valido nella Commedia; si potrebbe anzi precisare che la breve rassegna di personaggi cavallereschiʼ di If V rispecchia indirettamente, grosso modo, le idee espresse da Chrétien de Troyes nel famoso luogo del Cligès in cui afferma che la c. passò dalla Grecia a Roma e di qui in Francia: " an Grece ot de chevalerie / le premier los et de clergie; / puis vint chevalerie a Rome / et de clergie la some / qui or est an France venue ". E ben noto del resto - e sul fatto ha opportunamente posto l'accento il Torraca, commentando proprio quella rassegna - che " nel medioevo la storia, la tradizione, la mitologia antica avevano assunto le forme del tempo. Gli eroi greci e troiani, Achille p. e. e Paride, non solo erano chiamati cavalieri ma da cavalieri pensavano e operavano ". Virgilio stesso, nel passo in questione, presenta il grande Achille come colui che con amore al fine combatteo (If V 66).
Dobbiamo però aggiungere da parte nostra un'altra osservazione. Al vanto riconosciuto nel De vulg. Eloq. alla lingua d'oil come rielaboratrice e divulgatrice dei tre cicli che costituiscono, singolarmente e nel loro insieme, i grandi filoni del romanzo cavalleresco, va contrapposto il passo in cui si parla della donna fiorentina che favoleggiava con la sua famiglia / dʼi Troiani, di Fiesole e di Roma. La ragione è duplice: primo, perché tra le due componenti tradizionali di origine classica s'inserisce, quasi in funzione di necessario trait-dʼunion, un elemento per così dire nazionalistico, di cui i Toscani, D. compreso, dovevano sentirsi orgogliosi: Fiesole infatti si diceva fondata da Atalante, padre di Dardano, che a sua volta edificò Troia (e presto il Villani sancirà, storicizzandole, il credito che godevano notizie del genere). Secondariamente, perché la lode tributata nel De vulg. Eloq. alla lingua dʼoil viene a essere, se non smentita o sminuita, certo temperata e controbilanciata dalle parole di Cacciaguida, le quali fanno comprendere come una parte essenziale della materia cavalleresca di cui quella lingua era ritenuta la veste più congeniale potesse trovare un'esposizione altrettanto adatta ed efficace nel nostro idioma. Implicito, ma trasparente rimprovero ai malvagi uomini d'Italia che forse anche nel campo della letteratura cavalleresca commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano? (Cv I XI 1). Può darsi. Ma più importa rilevare ora la dimostrata consapevolezza, da parte di D., della diffusione di quella letteratura in ambienti popolari o popolareschi (ancora all'inizio del sec. XV Benzo d'Alessandria, riferendosi al Roman de Troie o a un suo rifacimento, lo diceva " adeo sic vulgatum ut vicis cantitetur pariter et plateis ") non meno che in ambienti colti o aristocratici, come chiaramente dimostra l'episodio di Paolo e Francesca. Si potrebbe anzi istituire in proposito un altro significativo contrapposto: da un lato l'esposizione orale, semplice e disinvolta, nell'idioma materno (favoleggiava), dall'altro l'insistita e assaporata lettura (noi leggiavamo... quella lettura... Quando leggemmo... più non vi leggemmo), quasi certamente dell'originale francese.
Quanto al secondo punto, come giudicasse D. la letleratura cavalleresca, sembra che egli " ritenga Lancillotto, Mordret, Artù personaggi reali; e se pei due ultimi una ragione esisteva nella tradizione dotta che mette capo a quel singolare storico che fu nella prima metà del sec. XII Goffredo di Monmuth, bisognerà ritenere che essi ed altri finirono col trascinar seco tutta la compagnia dal mondo dell'invenzione in quello della storia ". Così giudicò lo Zingarelli; e certo, anche se non li considerò reali, D. attualizzò quei personaggi nella vita e nella realtà storica del suo tempo. Basta ricordare a tal riguardo il paragone tra la ‛ conversione ' del cavaliere Lancellotto e quella di Guido da Montefeltro, lo nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano (Cv IV XXVIII 8); basta ricordare ancora - e questa volta ne scaturisce una realtà sofferta e tragica, che tinge il mondo di sanguigno ' - le circostanze e i motivi per cui, complice Galehaut, Lancillotto e Ginevra sembrano reincarnarsi in Paolo e Francesca. E ancora: sostituiamo alla complicità colpevole di Galehaut quella benevola e sorridente della dama di Malehaut, passiamo dal penoso e pietoso colloquio coi due cognati a quello trepido e filiale con Cacciaguida: avremo dinanzi agli occhi, suggerito dal medesimo episodio romanzesco, un affettuoso e comprensivo atteggiamento di Beatrice verso D., da lui paragonata a quella che tossio / al primo fallo scritto di Ginevra (Pd XVI 14-15). Strano e inatteso contrappunto, sul quale non tocca a noi pronunciarci qui; sottolineiamo soltanto che pur sdoppiando l'episodio del Lancelot in rapporto a personaggi molto diversi, D. ha voluto e saputo conservare alla realtà che essi esprimono un suo tipico, inconfondibile sapore ʽ cavalleresco ʼ. Daremo dunque ragione allo Zingarelli quando afferma non esser necessario attribuire a D. il convincimento della ‛ storicità ' dei personaggi cavallereschi: " gli bastava che da tutti fossero considerati come personaggi realmente vissuti perché il loro ricordo dovesse efficacemente operare nell'animo dei lettori ".
Ma questo accade anche (o soprattutto) perché D. sapeva inserirli in un contesto poeticamente vivo, e perché dal punto di vista estetico giudicava positivamente, nel suo complesso, il mondo cortese che essi rappresentavano. Sin da quando scriveva il De vulg. Eloq. egli definiva pulcerrimae le ambages Arturi regis; e giustamente la voce ‛ ambages ' sembrò al Novati " fatta apposta per qualificare i ‛ romanzi d'avventura ', le gesta de' cavalieri erranti ", in qualunque modo s'interpreti il vocabolo: " avventure ", o " avvolgimenti ", o (come meglio piaceva al Rajna) " fantasie ". Quanto a esse si riferisce nella Commedia non smentisce l'antico giudizio, anzi diremmo lo conferma e lo avvalora. E poiché dal piano estetico e artistico al piano morale il passo è breve, specie per un uomo del Medioevo come D., il suo modo di giudicare lo spirito e l'ethos cavalleresco ci appare altrettanto positivo. Lo dimostrano le definizioni e le applicazioni pratiche che egli ci fornisce o ci suggerisce di alcune ʽ virtù ' tipiche del codice cavalleresco, come la cortesia, il valore, la misura, il senno, la prodezza, i ʽ belli costumi ', la nobiltà, la gentilezza, la leggiadria, riprovando per contro le qualità negative che le menomano o le contraddicono, quali ad esempio l'orgoglio, la dismisura, la villania, la viltà.
Ognuno di questi vocaboli, adeguatamente commentato nel suo contesto e interpretato nello spirito che lo anima e nelle ragioni ideali a cui risponde, gioverebbe a meglio far comprendere l'atteggiamento sentimentale di D. verso la c. come fatto di cultura e di costume. Ma tale particolareggiata analisi essendo qui fuori luogo, ci restringeremo a considerare una famosa dittologia del codice cavalleresco, ʽ cortesia e valore ': famosa perché la ritroviamo nelle rime di D. stesso (LXXXVI) e di Chiaro Davanzati (Nessuna. gioia creo) e perché risponde alla qualifica di ʽ proz e curteis ' con la quale nella letteratura francese antica, a cominciare dalla Chanson de Roland, si caratterizza spesso se non proprio la figura del cavaliere, certo quella del guerriero ideale.
Ma restiamo sin qui - almeno così sembra - nella scia di un topos tradizionale del mondo cortese, per quanto in un uomo come D. anche la tradizione abbia un peso e un valore ben determinato, che egli del resto non accetta mai passivamente. Tuttavia nella Commedia D. conferisce a quel topos un significato etico esemplare e attuale al tempo stesso, e un'inconsueta forza aggressiva e polemica. Lo adopera due volte: una prima (cortesia e valor di se dimora..., If XVI 67 ss.) per contrapporlo a orgoglio e dismisura (v. 74), una seconda (solea valore e cortesia trovarsi..., Pg XVI 116 ss.) per denunciare amaramente, attraverso le parole di Marco Lombardo, la scomparsa di quelle due virtù cavalleresche dal paese ch'Adice e Po riga in conseguenza delle lotte tra Federico II e il papa. Sul piano dell'evocazione tradizionalistica e ambientale, dirò così, del mondo cavalleresco, rileviamo che l'opposizione di orgoglio e dismisura a cortesia e valore risponde più o meno esplicitamente a quanto già i Provenzali avevano proclamato (" Cortesia non es al mesura ", Folchetto di Marsiglia), e D. stesso aveva lasciato intendere altrove, sia identificando la curialitas con la librata regula eorum quae peragenda sunt (VE I XVIII 4), sia annoverando l'orgoglio tra le qualità maggiormente disdicevoli al perfetto cavaliere (Rime LXXXIII). Ancora sul medesimo piano, e senza uscire dall'ambito dantesco, noteremo che il binomio ‛ cortesia e valore ' ci richiama a quello di ‛ amore e cortesia ' che nelle parole di Guido del Duca appare spontaneamente connesso al ricordo di un tipico ambiente mondano e cavalleresco: donne e cavalieri, affanni e agi (Pg XIV 109-110). Visti così, tutti questi casi s'inquadrano nella nostalgica evocazione di un mondo scomparso; ancora un topos, in fondo, che in D. era però sentimentalmente vivo.
Ma se guardiamo le cose da quel punto di vista ‛ attuale ' e realistico che probabilmente prevaleva nell'animo esacerbato di D., il binomio acquista ben altro vigore. Gli si contrappongono da un lato La gente nova e i sùbiti guadagni (If XVI 73), cioè i più rovinosi fattori, per Firenze, di discordia e di decadenza; dall'altro i ‛ cuori malvagi ' di coloro che alimentano la funesta lotta fra Papato e Impero, di cui la briga di Federico II è indice e fautrice. Perciò laddove decadono cortesia e valore e sormontano in loro vece orgoglio, dismisura e malvagità, l'ordinamento civile e politico ne risente disastrosamente, sia a livello municipale e nazionale che a livello universale.
Si può dedurre da tutto ciò quale importanza D. annettesse alla pratica delle virtù cavalleresche e, di conseguenza, alla c. come istituzione sociale. Non siamo più oramai nel campo di una sia pur nobile tradizione retorica, cui possono congiungersi, come accade spesso nelle opere cosiddette minori o nelle rime cosiddette dottrinali, discettazioni o distinzioni più o meno teoriche o scolastiche; si tratta piuttosto di concezioni morali e civili profondamente credute e sofferte, che le incomprensioni, le amarezze, le avversità di una vita travagliata e dolorosa non riuscirono mai a scalzare o a bandire dal cuore dell'exsul inmeritus.
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